martedì 7 febbraio 2012

UNA PICCOLA NUBE


Otto anni prima era andato a salutare l'amico al North
Wall e gli aveva augurato buona fortuna. Gallaher ce
l'aveva fatta. Si capiva subito dalla sua aria di viaggiatore,
dal vestito di tweed tagliato bene e dall'accento sicuro.
Pochi avevano un talento come il suo ed erano ancora
meno quelli in grado di non farsi guastare da tanto
successo. Gallaher era un uomo di cuore e aveva meritato
di vincere. Era una gran bella cosa avere un amico così.
Fino dall'ora di colazione Piccolo Chandler aveva pensato
al suo incontro con Gallaher, all'invito di Gallaher e alla
metropoli Londra dove Gallaher viveva. Lo chiamavano
Piccolo Chandler perché, sebbene fosse di statura solo
appena inferiore alla media, dava l'impressione di essere
un uomo piccolo. Le mani erano bianche e minute,
l'ossatura fragile, la voce sommessa e i modi raffinati.
Curava enormemente i capelli e i baffi serici e biondi, e
profumava con discrezione il fazzoletto. Le mezze lune
delle unghie erano perfette e, quando sorrideva, faceva
intravedere una fila di denti bianchi e infantili.
Mentre sedeva alla sua scrivania nei King's Inns pensava
a quanti cambiamenti quegli otto anni avevano portato.
L'amico conosciuto in squallida e povera veste era
diventato una figura brillante nella stampa londinese.
Spesso interrompeva la seccatura di scrivere per guardare
fisso fuori della finestra dell'ufficio. Lo splendore del
tramonto di tardo autunno ricopriva i prati e i sentieri.
Rovesciava un gentile pulviscolo dorato sulle sciatte
bambinaie e i decrepiti vecchi che sonnecchiavano sulle
panchine, guizzava su tutte le figure in movimento: sui
bambini che correvano strillando lungo i sentieri di ghiaia
e su tutti quelli che passavano per i giardini. Osservò la
scena e pensò alla vita e (come sempre accadeva quando
pensava alla vita) divenne triste. Una dolce malinconia si
impadronì di lui. Sentì come era vano lottare contro la
sorte, questo era il fardello di saggezza che i secoli gli
avevano tramandato.
Ricordò i libri di poesia negli scaffali a casa. Li aveva
comprati da scapolo e tante sere, mentre sedeva nella
stanzetta che dava sull'ingresso, era stato tentato di
prenderne uno dallo scaffale e leggere ad alta voce
qualcosa a sua moglie. Ma la timidezza lo aveva sempre
trattenuto; e così i libri erano rimasti nei loro scaffali. A
volte ripeteva fra sé qualche verso e questo lo consolava.
Quando scoccò l'ora si alzò e prese commiato
cerimoniosamente dalla scrivania e dai colleghi. Emerse
da sotto l'arco feudale dei King's Inns, figura nitida e
modesta, e camminò rapido giù per via Henrietta. Il
tramonto dorato andava declinando e l'aria si era fatta
pungente. Un'orda di bambini sudici popolava la via.
Stavano fermi o correvano in mezzo alla strada, o
strisciavano su per gli scalini davanti alle porte
spalancate, o si acquattavano come topi sulle soglie.
Piccolo Chandler non se ne occupò. Si fece abilmente
strada in mezzo a tutta quella minuscola vita brulicante e
sotto l'ombra delle desolate e spettrali magioni dove
l'antica nobiltà di Dublino aveva fatto baldoria. Non lo
toccò nessun ricordo del passato, aveva infatti la mente
piena della gioia presente.
Non era mai stato da Corless, ma ne conosceva bene la

fama. Sapeva che la gente andava lì dopo teatro a
mangiare ostriche e a bere liquori, e aveva sentito dire
che lì i camerieri parlavano francese e tedesco.
Passandoci rapido davanti di notte aveva visto carrozze
ferme alla porta e signore lussuosamente vestite, scortate
da cavalieri, scendere ed entrare svelte. Indossavano
vestiti fruscianti e molti scialli. Avevano i visi incipriati e
si tiravano su i vestiti, quando toccavano terra, come
Atalante spaventate. Era sempre passato senza voltarsi a
guardare. Aveva l'abitudine di camminare rapido per via
anche di giorno, e ogni volta che si trovava nella city la
notte tardi si affrettava per la sua strada apprensivo ed
eccitato. Talvolta, tuttavia, andava cercando ciò che era
causa dei suoi timori. Sceglieva le strade più buie e più
strette e, mentre avanzava baldanzoso, lo agitava il
silenzio diffuso intorno ai suoi passi; lo agitavano le
vaganti, silenziose figure, e a volte un suono di sommesse
risa in fuga lo faceva tremare come una foglia.
Voltò a destra in direzione di via Capel. Ignatius Gallaher
nella stampa londinese! Chi l'avrebbe mai immaginato
otto anni prima? Pure, ora che riesaminava il passato,
Piccolo Chandler ricordava molti segni di futura
grandezza nell'amico. La gente diceva che Ignatius
Gallaher era uno scapestrato. Naturalmente, era vero che
frequentava una banda di tipi equivoci a quel tempo, che
beveva troppo e si faceva prestare soldi da tutte le parti.
Alla fine si era trovato coinvolto in qualche storia losca,
un affare di soldi: perlomeno, questa era una delle
versioni della sua fuga. Ma nessuno gli negava il talento.
C'era sempre stato un certo... non so che in Ignatius
Gallaher da cui anche controvoglia si era colpiti. Persino
quando era in miseria e non sapeva più cosa fare per
trovare soldi non si scoraggiava. Piccolo Chandler
ricordava (e il ricordo lo fece leggermente arrossire
d'orgoglio) uno dei modi di dire di Ignatius Gallaher
quando si trovava in una situazione difficile:
«Intervallo adesso, ragazzi» diceva spensieratamente.
«Datemi il tempo per riflettere, no?»
Ecco com'era fatto Ignatius Gallaher; e, maledizione, non
si poteva non ammirarlo.
Piccolo Chandler accelerò il passo. Per la prima volta in
vita sua si sentiva superiore agli altri passanti. Per la
prima volta l'anima gli si rivoltava contro la deprimente
ineleganza di via Capel. Non c'erano dubbi: se si voleva
avere successo si doveva andare via. Non si poteva fare
niente a Dublino. Mentre attraversava il ponte Grattan
guardò giù lungo il fiume in direzione del porto basso e
compatì le povere case striminzite. Gli sembravano una
banda di pezzenti, accalcati l'uno sull'altro lungo le rive
del fiume, con i vecchi mantelli coperti di polvere e di
fuliggine, inebetiti dal panorama del tramonto e in attesa
che il primo freddo notturno ordinasse loro di alzarsi,
scuotersi e andare via. Si domandò se avrebbe potuto
scrivere una poesia per esprimere questa idea. Forse
Gallaher sarebbe stato in grado di fargliela pubblicare in
qualche giornale londinese. Ma era capace di scrivere una
cosa originale? Non sapeva con certezza quale idea
desiderasse esprimere, ma il pensiero che l'avesse toccato
un momento poetico prese vita dentro di lui come una
speranza appena nata. Continuò a camminare spavaldo.
Ogni passo lo portava più vicino a Londra, più lontano
dalla sua sobria vita priva d'arte. Una luce cominciò a

tremare all'orizzonte della sua mente. Non era così
vecchio: trentadue anni. Si poteva dire che il suo
temperamento stava proprio per raggiungere la maturità.
C'erano tanti diversi stati d'animo e impressioni che
desiderava esprimere in versi. Li sentiva dentro di sé.
Cercò di soppesare la sua anima per vedere se era l'anima
di un poeta. La malinconia era la nota dominante del suo
temperamento, pensava, ma era una malinconia temperata
da un ricorrere di fede, rassegnazione e di semplice gioia.
Se fosse riuscito a esprimerla in un libro di poesie forse
gli uomini avrebbero ascoltato. Non sarebbe mai stato
molto noto: di questo si rendeva conto. Non era capace di
trascinare le folle ma poteva darsi che piacesse a una
piccola cerchia di spiriti affini. I critici inglesi, forse,
avrebbero riconosciuto in lui uno della scuola celtica dato
il tono malinconico delle poesie; inoltre, vi avrebbe
messo allusioni. Cominciò a inventare frasi e parole delle
recensioni che avrebbe avuto il libro. «Il signor Chandler
ha il dono di un verso facile ed elegante»... «Una pensosa
malinconia pervade queste poesie»... «La nota celtica».
Peccato che il suo nome non suonasse più irlandese.
Forse sarebbe stato meglio inserire il nome di sua madre
prima del cognome: Thomas Malone Chandler; o meglio
ancora: T. Malone Chandler. Ne avrebbe parlato a
Gallaher.
Inseguì la sua fantasticheria con tanto ardore che
oltrepassò la strada e dovette tornare indietro. Mentre si
avvicinava a Corless l'agitazione di prima riprese a
dominarlo e si fermò indeciso davanti alla porta. Alla fine
aprì la porta ed entrò.
La luce e il rumore del bar lo trattennero sulla soglia per
James Joyce – Gente di Dublino
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qualche istante. Si guardò intorno, ma aveva la vista
offuscata dallo scintillio di molti bicchieri rossi e verdi. Il
bar gli sembrò pieno di gente e sentì che la gente lo
osservava curiosamente. Dette rapide occhiate a destra e a
sinistra (aggrottando leggermente la fronte per darsi un
contegno), ma quando la vista gli si schiarì un po' vide
che nessuno si era voltato a guardarlo: e lì,
effettivamente, c'era Ignatius Gallaher con la schiena
appoggiata al bancone e i piedi piantati ben distanti.
«Ciao, Tommy, vecchio eroe, eccoti quà! Che vuoi? Cosa
prendi? Io prendo un whisky: è molto meglio questo di
quello che ci danno sull'altra sponda. Soda? Litina?
Niente acqua minerale? Neanch'io. Rovina il sapore...
Ehi, garçon, portaci due mezzi whiskies, da bravo... Be',
e come hai tirato avanti da quando ti ho visto l'ultima
volta? Dio mio, quanto stiamo invecchiando! Li vedi i
segni dell'età... eh? Un po' grigio e spelacchiato in cima...
non ti pare?»
Ignatius Gallaher si tolse il cappello e mostrò una grossa
testa tagliata a zero. Il viso era pesante, pallido, e
completamente rasato. Gli occhi, di un colore bluastro
ardesia, alleviavano quel pallore malsano e brillavano
chiari sopra la cravatta di un arancione vivo. Tra questi
vistosi elementi in gara le labbra apparivano molto
lunghe e informi e incolori. Piegò la testa tastandosi con
due dita compassionevoli i capelli radi sul cocuzzolo.
Piccolo Chandler scosse la testa in segno di diniego.
Ignatius Gallaher si rimise il cappello.
«Butta giù» disse. «La vita di giornalista. Sempre di fretta
e furia, in cerca di materiale che a volte non si trova: e
poi, sempre l'obbligo della novità. All'inferno bozze etipografi, 
dico io, per qualche giorno. Accidenti se sono
contento, te lo posso ben dire, di essere ritornato nella
vecchia patria. Fa bene, un po' di vacanza. Mi sento
centomila volte meglio da quando sono approdato di
nuovo nella nostra cara, sporca Dublino... Ecco, Tommy.
Acqua? Di' quanto.»
Piccolo Chandler lasciò che il suo whisky venisse molto
diluito.
«Non sai quel che ti fa bene, ragazzo mio» disse Ignatius
Gallaher. «Il mio lo bevo liscio.»
«In genere bevo molto poco» disse modestamente Piccolo
Chandler. «Un mezzo whisky ogni tanto quando incontro
uno del vecchio gruppo: ecco tutto.»
«Ah bene» disse Ignatius Gallaher allegramente «alla
nostra salute e ai vecchi tempi e ai vecchi amici.»
Fecero tintinnare i bicchieri e brindarono.
«Ho incontrato oggi qualcuno della vecchia banda» disse
Ignatius Gallaher. «O'Hara ha l'aria di essere in cattive
acque. Che sta facendo?»
«Niente» disse Piccolo Chandler. «È finito male.»
«Ma Hogan ha un buon posto, no?»
«Sì; sta al catasto.»
«L'ho incontrato una sera a Londra e sembrava pieno di
grana... Povero O'Hara! Alcool, immagino?»
«Anche altre cose» disse Piccolo Chandler brusco.
Ignatius Gallaher rise.
«Tommy» disse «vedo che non sei cambiato di una
virgola. Sei la stessa persona seria che mi faceva la
predica la domenica mattina quando avevo mal di testa e
la lingua sporca. Avresti bisogno di fare un po' di bella
vita in giro per il mondo. Non sei mai stato via neanche
per un viaggetto?»
«Sono stato all'isola di Man» disse Piccolo Chandler.
Ignatius Gallaher rise.
«L'isola di Man! » disse. «Vai a Londra o a Parigi: a
Parigi, possibilmente. Ti farebbe bene. »
«Hai visto Parigi?»
«Lo credo bene! Ho fatto la bella vita lì per un po'.»
«Ed è veramente così stupenda come dicono?» chiese
Piccolo Chandler.
Bevve un po' del suo whisky mentre Ignatius Gallaher
finiva il suo gagliardamente.
«Stupenda?» disse Ignatius Gallaher, indugiando sulla
parola e sul sapore del suo whisky. «Non è che sia così
stupenda, sai. Certo, è stupenda... Ma è la vita di Parigi;
quella è la gran cosa. Ah, non c'è città allegra,
movimentata, eccitante come Parigi...»
Piccolo Chandler finì il suo whisky e, dopo qualche
difficoltà, riuscì ad attrarre l'attenzione del barista.
Riordinò lo stesso.
«Sono stato al Moulin Rouge» continuò Ignatius Gallaher
quando il barista ebbe portato via i bicchieri «e sono stato
a tutti i caffè degli artisti. Fantastico! Non per un tipo pio
come te, Tommy.»
Piccolo Chandler non disse nulla finché il barista non
tornò con due bicchieri: allora toccò leggermente quello
dell'amico ricambiando il brindisi precedente.
Cominciava a provare una certa delusione. L'accento e il
modo di esprimersi di Gallaher non gli piacevano. C'era
qualcosa di volgare nell'amico che prima non aveva
notato. Ma forse dipendeva soltanto dalla sua vita a
Londra in mezzo al pandemonio e alle rivalità della

stampa. Sotto questo nuovo atteggiamento pacchiano
c'era ancora l'antico fascino personale. E, dopo tutto,
Gallaher aveva vissuto, aveva visto il mondo. Piccolo
Chandler guardò con invidia l'amico.
«A Parigi tutto è allegro» disse Ignatius Gallaher.
«Ritengono che la vita vada goduta... e non trovi che
hanno ragione? Se vuoi veramente divertirti devi andare a
Parigi. E, bada bene, hanno molta simpatia per gli
irlandesi. Quando hanno sentito che ero irlandese un altro
po' mi mangiavano.»
Piccolo Chandler bevve quattro o cinque sorsi dal suo
bicchiere. «Dimmi» disse «è vero che Parigi è così...
immorale come dicono?» Ignatius Gallaher fece un gesto
tollerante con il braccio destro. «Tutti i posti sono
immorali» disse. «Certo a Parigi di cosette piccanti se ne
trovano. Vai a un ballo di studenti, per esempio. È
piuttosto vivace quando le cocottes cominciano a
sfrenarsi. Sai chi sono, immagino?»
«Ne ho sentito parlare» disse Piccolo Chandler.
Ignatius Gallaher finì il suo whisky e scosse la testa.
«Ah» disse «dicano quel che vogliono. Non c'è donna
come la parigina... che classe, che vitalità.»
«Allora è una città immorale» disse Piccolo Chandler con
timida insistenza... «voglio dire, in confronto a Londra o
a Dublino?»
«Londra!» disse Ignatius Gallaher. «Lo è sei volte più
dell'una e mezza dozzina più dell'altra. Chiedi a Hogan,
ragazzo mio. Quando è venuto l'ho portato un po' in giro.
Ti aprirebbe gli occhi... Ehi, Tommy, non trasformare
quel whisky in ponce: bevi, su.»
«No, davvero...»
«Oh, avanti, un altro non ti farà proprio male. Che vuoi?
Lo stesso, immagino?»
«Be'... va bene.»
«François, lo stesso... Vuoi fumare, Tommy?»
Ignatius Gallaher estrasse il suo portasigari. I due amici
accesero i sigari e tirarono boccate di fumo in silenzio
finché non furono serviti.
«Ti dirò quel che penso» disse Ignatius Gallaher, venendo
fuori dopo un po' dalle nuvole di fumo nelle quali si era
rifugiato «è uno strano mondo. Parli di immoralità! Ho
sentito di casi... che dico?... ne ho conosciuti: casi di...
immoralità...»
Ignatius Gallaher tirò pensoso boccate di fumo dal sigaro
e poi, con il tono calmo di uno storico, passò ad
abbozzare per l'amico alcuni quadri della corruzione
diffusa all'estero. Riassunse i vizi di molte capitali e
sembrò propenso ad assegnare la palma a Berlino. Alcune
cose non poteva garantirle (gliele avevano dette i suoi
amici), ma di altre aveva avuto esperienza personale. Non
risparmiò né rango né casta. Rivelò parecchi segreti delle
comunità religiose nel continente e descrisse alcune
abitudini di moda nell'alta società e terminò raccontando,
dettagliatamente, una storia su una duchessa inglese... una
storia che sapeva vera. Piccolo Chandler era stupefatto.
«Ah, be'» disse Ignatius Gallaher «eccoci qua nel vecchio
tran-tran di Dublino dove non si ha idea di cose simili.»
«Come devi trovarla noiosa» disse Piccolo Chandler
«dopo tutti gli altri posti che hai visto!»
«Be'» disse Ignatius Gallaher «è distensivo venire qua,
sai. E dopo tutto è la vecchia patria, come si suol dire,
no? Non si può fare a meno di provare un certo affettoper lei. 
È umano... Ma dimmi qualcosa di te. Hogan mi
disse che avevi... assaporato le gioie della felicità
coniugale. Due anni fa, no?»
Piccolo Chandler arrossì e sorrise.
«Sì» disse. «Mi sono sposato a maggio dell'anno scorso.»
«Spero non sia troppo tardi per farti i miei migliori
auguri» disse Ignatius Gallaher. «Non sapevo il tuo
indirizzo o l'avrei fatto allora.»
Tese la mano, che Piccolo Chandler strinse.
«Be'» Tommy» disse «auguro a te e ai tuoi ogni gioia
nella vita, e un sacco di soldi, e che tu non muoia finché
non ti sparo. Ed è l'augurio di un amico sincero, di un
vecchio amico. Lo sai, vero?»
«Lo so» disse Piccolo Chandler.
«Bambini?» disse Ignatius Gallaher.
Piccolo Chandler arrossì di nuovo.
«Ne abbiamo uno» disse.
«Figlio o figlia?»
«Un maschietto.»
Ignatius Gallaher dette una sonora manata sulle spalle
dell'amico. «Bravo» disse «non nutrivo dubbi su di te,
Tommy.»
Piccolo Chandler sorrise, guardò confuso il bicchiere e si
morse il labbro inferiore con tre denti infantili e bianchi.
«Spero che passerai una sera con noi» disse «prima di
andartene. Mia moglie sarà felicissima di conoscerti.
Possiamo fare un po' di musica e...»
«Grazie infinite» disse Ignatius Gallaher «come mi
dispiace che non ci siamo incontrati prima. Ma devo
partire domani notte.» «Stasera, forse...?»
«Mi dispiace infinitamente. Ma vedi io sono qua con un
altro, un giovane intelligentissimo, e abbiamo combinato
di andare a una piccola partita a carte. Se non fosse per
questo...»
«Oh, in tal caso...»
«Ma chissà?» disse Ignatius Gallaher cortesemente.
«L'anno prossimo può darsi che faccia un saltino qui ora
che ho rotto il ghiaccio. È un piacere soltanto rimandato.»
«Benissimo» disse Piccolo Chandler «la prossima volta
che vieni dobbiamo passare una serata insieme. Siamo
d'accordo, no?» «Sì, d'accordo» disse Ignatius Gallaher.
«Se vengo l'anno prossimo, parole d'honneur.»
«E per stringere il patto» disse Piccolo Chandler «adesso
prendiamone un altro.»
Ignatius Gallaher tirò fuori un grosso orologio d'oro e lo
guardò.
«L'ultimo?» disse. «Perché, sai, ho un a.p.»
«Oh, sì, certamente» disse Piccolo Chandler.
«Benissimo, allora» disse Ignatius Gallaher
«prendiamocene un altro come deoc an doirus... che in
buon dialetto vuol dire piccolo whisky, credo.»
Piccolo Chandler ordinò da bere. Il rossore che gli era
salito al viso qualche minuto prima vi si andava fissando.
Una inezia, in qualunque momento, lo faceva arrossire: e
ora si sentiva tutto caldo ed eccitato. I tre piccoli whiskies
gli erano andati alla testa e il sigaro forte di Gallaher gli
aveva confuso la mente, perché era una persona delicata e
temperante. L'avventura di incontrare Gallaher dopo otto
anni, di trovarsi da Corless con Gallaher attorniato da luci
e da rumore, di ascoltare le storie di Gallaher e di
condividerne per breve tempo la vita vagabonda e
trionfante, turbava l'equilibrio della sua natura sensibile.

Sentì acutamente il contrasto tra la propria vita e quella
dell'amico e gli sembrò ingiusto. Gallaher era inferiore a
lui per nascita ed educazione. Era sicuro di potere fare
qualcosa di meglio di quello che aveva mai fatto, o
avrebbe mai potuto fare, l'amico, qualcosa di più elevato
di un mero appariscente giornalismo, se solo gli si fosse
presentata l'occasione. Cosa glielo impediva? La sua
disgraziata timidezza! Desiderava farsi valere in qualche
modo, affermarsi come uomo. Capiva cosa si nascondeva
nel rifiuto di Gallaher al suo invito. La cordialità di
Gallaher era solo un modo per trattarlo con
condiscendenza proprio come la sua visita era un modo
per trattare con condiscendenza l'Irlanda.
II barista portò i whiskies. Piccolo Chandler spinse un
bicchiere verso l'amico e prese l'altro con fare
baldanzoso.
«Chissà?» disse, mentre alzavano i bicchieri. «Quando
verrai l'anno prossimo può darsi che abbia il piacere di
augurare lunga vita e felicità al signore e alla signora
Ignatius Gallaher.»
Ignatius Gallaher nel momento di bere chiuse un occhio
con aria eloquente sopra l'orlo del bicchiere. Quando ebbe
bevuto schioccò le labbra con decisione, mise giù il
bicchiere e disse:
«Non c'è proprio pericolo, ragazzo mio. Per ora voglio
godermela e vedere un po' la vita e il mondo prima di
mettere la testa nel sacco... se mai lo farò».
«Un giorno lo farai» disse Piccolo Chandler calmo.
Ignatius Gallaher piantò cravatta arancione e occhi blu
ardesia addosso all'amico.
«Credi?» disse.
«Metterai la testa nel sacco» ripeté Piccolo Chandler
risolutamente «come tutti, se riesci a trovare la ragazza.»
Aveva parlato in tono un po' enfatico e si rese conto di
essersi tradito; ma, sebbene gli fosse aumentato il colore
sulle guance, non evitò lo sguardo dell'amico. Ignatius
Gallaher lo osservò per qualche istante, poi disse:
«Se mai accadrà, puoi scommettere l'ultimo tuo dollaro
che non mi perderò in sogni d'amore. Voglio fare un
matrimonio d'interesse. Deve avere un grosso conto in
banca o non fa per me».
Piccolo Chandler scosse la testa.
«Eh, bello mio» disse Ignatius Gallaher, con veemenza
«lo sai che c'è? Devo solo dire una parola e domani posso
avere donna e soldi. Non ci credi? Be', lo so io. Ci sono
centinaia... che dico ?... migliaia di danarose tedesche ed
ebree, ricche marce, che sarebbero fin troppo contente...
Aspetta un po', ragazzo mio. Vedrai se non so giocare
bene le mie carte. Quando mi metto al lavoro faccio le
cose sul serio, te lo dico io. Aspetta e vedrai.»
Si portò in fretta il bicchiere alla bocca, finì il suo whisky
e rise forte. Poi guardò pensoso dinanzi a sé e disse in
tono più calmo:
«Ma non ho nessuna fretta. Possono aspettare. Non mi va
di legarmi a una donna sola, sai».
Imitò con la bocca l'atto di assaggiare e fece una smorfia.
«Deve diventare un po' stantia, penso» disse.
Piccolo Chandler sedeva nella stanza che dava
sull'ingresso, tenendo un bambino in braccio. Per
risparmiare non avevano cameriera, ma la sorella minore
di Annie, Monica, veniva per circa un'ora la mattina e per

circa un'ora la sera ad aiutare. Ma Monica se ne era
andata a casa molto tempo fa.
Erano le nove meno un quarto. Piccolo Chandler era
rincasato tardi per il tè e, per di più, aveva dimenticato di
portare ad Annie il pacchetto di caffè di Bewley.
Naturalmente lei era di cattivo umore e gli aveva risposto
in modo brusco. Aveva detto che avrebbe fatto a meno
del tè, ma quando si era avvicinata l'ora di chiusura del
negozio all'angolo aveva deciso di uscire a prendere un
quarto di libbra di tè e due libbre di zucchero. Gli aveva
messo con disinvoltura il bambino addormentato in
braccio, dicendo:
«Tieni. Non lo svegliare».
Sul tavolo c'era una piccola lampada con un paralume di
porcellana bianca e la luce cadeva su una fotografia
racchiusa in una cornice di corno rugoso. Era la
fotografia di Annie. Piccolo Chandler la guardò,
indugiando sulle labbra sottili e serrate. Indossava la
camicetta estiva celeste pallido che le aveva portato a
casa in regalo un sabato. Gli era costata dieci sterline e
undici pence; ma quale angoscia di nervosismo gli era
costata! Che sofferenza quel giorno aspettare alla porta
del negozio, finché il negozio non era rimasto vuoto, poi
in piedi al bancone cercare di sembrare naturale mentre la
ragazza gli ammucchiava davanti camicette da donna,
pagare alla cassa dimenticando di prendere il penny di
resto, essere richiamato dalla cassiera, e infine, mentre
usciva dal negozio, sforzarsi di nascondere il rossore
esaminando il pacchetto per vedere se era legato bene.
Quando aveva portato a casa la camicetta Annie lo aveva
baciato e aveva detto che era molto carina ed elegante;
ma sentito il prezzo aveva gettato la camicetta sul tavolo
dicendo che era una vera truffa farla pagare dieci sterline
e undici pence. Dapprima voleva restituirla, ma quando
l'aveva provata le era piaciuta moltissimo specialmente
come erano fatte le maniche, e l'aveva baciato dicendo
che era stato molto buono a pensare a lei.
Mah!...
Scrutò freddamente gli occhi della fotografia e quelli gli
risposero freddamente. Certo erano graziosi e la faccia
stessa era graziosa. Ma vi trovava qualcosa di mediocre.
Perché era così indifferente e sostenuta? La calma degli
occhi lo irritava. Lo respingevano e lo sfidavano: non
c'era passione in loro, non c'era trasporto. Pensò a quello
che Gallaher aveva detto delle ricche ebree. Quegli scuri
occhi orientali, pensò, come sono pieni di passione, di
voluttuoso desiderio!... Perché aveva sposato gli occhi
nella fotografia?
Quella domanda lo fece tornare in sé e dette occhiate
nervose in giro per la stanza. Trovò che c'era qualcosa di
mediocre nei mobili graziosi che aveva comprato a rate
per la casa. Annie li aveva scelti lei stessa e gliela
ricordarono. Erano troppo affettati e graziosi. Gli si
risvegliò dentro un sordo risentimento per la sua vita.
Non avrebbe potuto fuggire da quella casetta? Era troppo
tardi per cercare di vivere audacemente come Gallaher?
Avrebbe potuto andare a Londra? C'erano ancora i mobili
da pagare. Se fosse soltanto riuscito a scrivere un libro e a
farlo pubblicare, forse poteva aprirglisi una strada.
Davanti a lui sul tavolo c'era un volume delle poesie di
Byron. Lo aprì cautamente con la mano sinistra per paura
di svegliare il bambino e cominciò a leggere la prima

poesia nel libro:
Tacciono i venti e della sera l'ombra,
né uno Zeffiro vaga per le selve,
mentre di Margaret torno alla tomba
per sparger fiori sull'amata polve.
Si fermò. Sentiva il ritmo del verso intorno a sé nella
stanza. Come era malinconico! Avrebbe, anche lui,
potuto scrivere così, esprimere la malinconia del suo
animo in versi? C'erano tante cose che voleva descrivere:
la sensazione di qualche ora prima sul ponte Grattan, per
esempio. Se fosse riuscito a ritornare in quello stato
d'animo...
Il bambino si svegliò e si mise a piangere. Distolse gli
occhi dalla pagina e cercò di farlo tacere: ma non voleva
saperne di tacere. Cominciò a cullarlo avanti e indietro
nelle braccia, ma il pianto lamentoso si fece più acuto. Lo
cullò più rapidamente mentre gli occhi cominciavano a
leggere la seconda stanza:
Entro lo stretto avello giace il corpo,
quel corpo ove un tempo...
Era inutile. Non riusciva a leggere. Non riusciva a fare
niente. Il lamento del bambino gli trafiggeva i timpani
delle orecchie. Era inutile, inutile! Era prigioniero per la
vita. Le braccia gli tremarono per l'ira e improvvisamente
piegandosi sul viso del bambino urlò:
«Zitto!».
Il bambino stette zitto un istante, ebbe uno spasmo di
terrore e cominciò a strillare. Balzò dalla sedia e si mise a
camminare in fretta su e giù per la stanza con il bambino
in braccio. Questi cominciò a singhiozzare pietosamente,
prendendo fiato per quattro o cinque secondi, poi
riscoppiando a piangere. Le pareti sottili della stanza
echeggiavano il suono. Cercò di calmarlo, ma lui
singhiozzava ancora più convulsamente. Guardò il viso
contratto e tremante del bambino e cominciò a
spaventarsi. Contò sette singhiozzi ininterrotti e,
terrorizzato, se lo strinse al petto. Se moriva!...
La porta venne aperta violentemente e una giovane donna
entrò di corsa, ansante.
«Che c'è? Che c'è?» gridò.
Il bambino, udendo la voce della madre, scoppiò in un
parossismo di singhiozzi.
«Non è niente, Annie... non è niente... Ha cominciato a
piangere...» Lei gettò i pacchetti per terra e gli strappò il
bambino. «Cosa gli hai fatto?» gridò, guardandolo in
faccia furibonda. Piccolo Chandler sostenne per un attimo
lo sguardo di quegli occhi e gli si strinse il cuore mentre
ne incontrava l'odio. Cominciò a balbettare:
«Non è niente... Lui... Lui... ha cominciato a piangere...
Non sono riuscito... Non ho fatto niente... Cosa?».
Non dandogli nessuna retta lei cominciò a camminare su
e giù per la stanza, tenendo stretto il bambino fra le
braccia e mormorando:
«Ometto mio! Omettino mio! Ti ha fatto paura, amore?...
Su, amore! Su! Bimbobon! Bimbo di mamma bimbo del
mondo... Su! »
Piccolo Chandler si sentì le guance soffuse di vergogna e
indietreggiò lontano dalla luce della lampada. Ascoltò

mentre il parossismo di singhiozzi del bambino andava
diminuendo; e lacrime di rimorso gli spuntarono agli
occhi.







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