martedì 7 febbraio 2012

LA PENSIONE


La signora Mooney era figlia di un macellaio. Era una
donna che sapeva tenere le cose per sé: una donna decisa.
Aveva sposato il commesso capo del padre e aperto una
macelleria vicino a Spring Gardens. Ma appena morto il
suocero, il signor Mooney aveva cominciato ad andare in
malora. Beveva, saccheggiava la cassa, si cacciava nei
debiti fino al collo. Era inutile fargli promettere di
astenersi dall'alcool: si poteva essere certi che avrebbe
ripreso le sue scappate qualche giorno dopo. Litigando
con la moglie in presenza dei clienti e comprando carne
cattiva rovinò l'esercizio. Una notte si lanciò contro la
moglie con la mannaia e lei dovette dormire in casa di un
vicino.
Dopo questo vissero divisi. Lei andò dal prete e ottenne la
separazione, con l'affidamento dei bambini. Non gli volle
dare né soldi né cibo né posto in casa; e così fu obbligato
ad arruolarsi fra gli uomini dello sceriffo. Era un piccolo
ubriaco malridotto e curvo con un viso bianco e baffi
bianchi e sopracciglia bianche, disegnate sopra gli
occhietti, venati di rosa e acquosi; e tutto il giorno stava
seduto nella stanza dell'ufficiale giudiziario, aspettando
un'incombenza. La signora Mooney, che aveva tolto dalla
macelleria i soldi che le rimanevano e messo su una
pensione a via Hardwicke, era una grossa donna
imponente. La sua casa aveva una popolazione fluttuante
formata da turisti di Liverpool e dell'isola di Man e, di
quando in quando, da artistes dei music-halls. La
popolazione stabile era formata da impiegati della city.
Governava la casa con abilità e fermezza, sapeva quando
fare credito, quando essere severa e quando lasciare
correre. Tutti i giovanotti fissi ne parlavano come della
madama.
I giovanotti della signora Mooney pagavano quindici
scellini alla settimana per vitto e alloggio (escluse birra
chiara o scura a pranzo). Condividevano gusti e
professioni ed erano quindi grandi amici fra loro.
Discutevano insieme le probabilità di cavalli favoriti e
non favoriti. Jack Mooney, il figlio della madama, che era
impiegato di un commissionario a via Fleet, godeva fama
di essere un caso difficile. Amava usare oscenità da
caserma: di solito tornava a casa alle ore piccole.
Quando incontrava gli amici ne aveva sempre una buona
da raccontare e aveva sempre sotto mano qualcosa di
buono: vale a dire, un cavallo promettente o un'artiste
promettente. Era anche abile con i guantoni e cantava
canzoncine buffe. La domenica sera c'era spesso una
riunione nel salotto buono della signora Mooney. Gli
artistes di music-hall si esibivano gentilmente; e Sheridan
suonava valzer e polche e improvvisava
accompagnamenti. Polly Mooney, la figlia della madama,
cantava anche lei. Cantava:
Sono una... cattiva ragazza.
Non fingere, dai:
come sono lo sai.
Polly era una sottile ragazza di diciannove anni; aveva
morbidi capelli chiari e una boccuccia piena. Gli occhi,
che erano grigi con sfumature verdi, avevano l'abitudine

di dare occhiate da sotto in su quando parlava con
qualcuno, il che la faceva somigliare a una madonnina
perversa. La signora Mooney aveva dapprima mandato la
figlia a fare la dattilografa nell'ufficio di un mercante di
grano, ma dato che un aiuto sceriffo dall'aspetto losco
veniva un giorno sì e uno no all'ufficio, chiedendo che gli
lasciassero dire due parole a sua figlia, se l'era ripresa in
casa e l'aveva messa a fare lavori domestici. Poiché Polly
era molto vivace, l'intenzione era di darle da occuparsi
dei giovanotti. Inoltre, ai giovani piace sentire che hanno
vicino una giovane donna. Polly, naturalmente, flirtava
con loro, ma la signora Mooney, che era giudice
perspicace, sapeva che per i giovanotti era solo un
passatempo: nessuno di loro aveva intenzioni serie. Le
cose andarono avanti così per un bel po', e la signora
Mooney cominciò a pensare di rimandare Polly a fare la
dattilografa, quando notò che stava succedendo qualcosa
tra Polly e uno dei giovanotti. Sorvegliò la coppia e tenne
per sé le sue decisioni.
Polly sapeva di essere sorvegliata, eppure l'ostinato
silenzio della madre non poteva essere frainteso. Non
c'era stata aperta complicità fra madre e figlia, nessun
esplicito accordo, ma sebbene la gente in casa
cominciasse a parlare della cosa, pure la signora Mooney
non intervenne. Polly cominciò a comportarsi in modo un
po' strano e il giovanotto era chiaramente sconvolto. Alla
fine, quando giudicò che fosse il momento adatto, la
signora Mooney intervenne. Affrontava i problemi morali
come una mannaia affronta la carne: e in questo caso
aveva deciso.
Era una luminosa domenica mattina di prima estate, che
prometteva il caldo, ma con una brezza fresca che
spirava. Tutte le finestre della pensione erano aperte e le
tende di pizzo si gonfiavano dolcemente verso la strada
sotto i telai alzati. Il campanile della chiesa di S. Giorgio
mandava continui scampanii e i fedeli, da soli o in gruppi,
traversavano la piccola piazza davanti alla chiesa,
rivelando il loro scopo sia con il contegno riservato sia
con i volumetti nelle mani guantate. La prima colazione
era terminata e la tavola del tinello era coperta di piatti
sui quali erano rimaste strisce gialle di uova con pezzetti
di grasso e di cotenna di pancetta. La signora Mooney
sedeva nella poltrona di vimini e osservava Mary la
cameriera portare via la roba. Fece raccogliere a Mary le
croste e i pezzi di pane avanzati perché servissero a fare il
budino di pane del martedì. Quando la tavola fu
sparecchiata, i pezzi di pane raccolti, lo zucchero e il
burro al sicuro sotto chiave, cominciò a ricostruire il
colloquio avuto la notte prima con Polly. Le cose stavano
come aveva sospettato: era stata franca nelle domande e
Polly era stata franca nelle risposte. Tutte e due erano
piuttosto imbarazzate, naturalmente. Lei era stata messa
in imbarazzo dal desiderio di non ricevere la notizia in
modo troppo disinvolto o che sembrasse che era stata
connivente, e Polly era stata messa in imbarazzo non
soltanto perché allusioni di quel genere la mettevano
sempre in imbarazzo, ma anche perché non desiderava
che si pensasse che nella sua saggia innocenza aveva
indovinato l'intenzione che si celava dietro la tolleranza
materna.
La signora Mooney dette istintivamente un'occhiata al
piccolo orologio dorato sulla mensola del caminetto nonappena, 
attraverso la sua fantasticheria, ebbe coscienza
che le campane della chiesa di S. Giorgio avevano
smesso di suonare. Erano le undici e diciassette: avrebbe
avuto tutto il tempo di chiarire la faccenda con il signor
Doran e non perdere la messa delle dodici a via
Marlborough. Era sicura di vincere. In primo luogo, tutto
il peso dell'opinione pubblica stava dalla sua parte: era
una madre oltraggiata. Gli aveva permesso di vivere sotto
il suo tetto, supponendo che fosse un uomo d'onore, e lui
aveva semplicemente abusato della sua ospitalità. Aveva
trentaquattro o trentacinque anni, così che non poteva
addurre come scusa la gioventù; né l'ignoranza poteva
essere una scusa, dato che era un uomo e aveva visto
qualcosa del mondo. Aveva semplicemente approfittato
della gioventù e dell'inesperienza di Polly: questo era
evidente. Il problema era: che riparazione avrebbe fatto?
In un caso simile ci deve essere una riparazione. Per
l'uomo va tutto bene: può andare per la sua strada come
se niente fosse, dopo avere avuto il suo momento di
piacere, ma la ragazza deve sopportarne il contraccolpo.
Alcune madri si sarebbero contentate di accomodare un
fatto del genere con una somma di denaro: ne aveva
conosciuti di casi. Ma lei non avrebbe fatto così. Per lei
soltanto una riparazione poteva compensare la perdita
dell'onore di sua figlia: il matrimonio.
Calcolò di nuovo tutte le sue carte prima di mandare su
Mary alla camera del signor Brown per dire che
desiderava parlargli. Si sentiva sicura di vincere. Era un
giovane serio, non scapestrato o rumoroso come gli altri.
Fosse stato il signor Sheridan o il signor Meade o Bantam
Lyons, avrebbe avuto un compito molto più difficile. Non
credeva che avrebbe affrontato la pubblicità. Tutti i
pensionanti sapevano qualcosa della storia, alcuni
avevano inventato particolari. Inoltre, era impiegato da
tredici anni nell'ufficio di un grosso mercante di vini
cattolico e quella pubblicità forse voleva dire per lui
perdere il posto. Mentre se acconsentiva tutto poteva
sistemarsi. Sapeva che aveva un buon stipendio e
sospettava che avesse un po' di roba da parte.
Quasi le undici e mezzo. Si alzò in piedi e si esaminò
nella specchiera. L'espressione decisa del grosso viso
florido la soddisfece, e pensò ad alcune madri di sua
conoscenza che non riuscivano a liberarsi delle figlie.
Il signor Doran era veramente angosciato quella
domenica mattina. Aveva tentato due volte di rasarsi, ma
aveva la mano così malferma che era stato costretto a
rinunciare. Una barba rossiccia di tre giorni gli orlava le
mascelle e ogni due o tre minuti gli si appannavano gli
occhiali così che doveva toglierseli e pulirli con il
fazzoletto. Il ricordo della sua confessione la sera prima
gli provocava un acuto dolore; il prete gli aveva strappato
ogni ridicolo particolare della storia, e alla fine aveva
talmente ingrandito il suo peccato che era quasi
riconoscente di avere offerta una scappatoia per riparare.
Il danno era fatto.
Cosa poteva fare adesso se non sposarla o scappare? Non
poteva comportarsi con sfacciataggine. Sicuramente si
sarebbe parlato della cosa e di certo il principale ne
sarebbe venuto a conoscenza. Dublino è una città così
piccola: tutti sanno gli affari degli altri. Sentì il cuore
balzargli violentemente in gola mentre udiva nella
fantasia turbata il vecchio signor Leonard chiamare forte

con quella voce stridula: «Mandatemi qui il signor Doran,
per piacere».
Tutti i suoi anni di lavoro andati in fumo! Tutta la sua
operosità e diligenza buttate via! Da giovane aveva corso
la cavallina, naturalmente; si era vantato della sua libertà
di pensiero e aveva negato l'esistenza di Dio ai suoi
compagni nei bar. Ma tutto questo era un capitolo
chiuso... quasi. Comprava ancora una copia del Reynolds
Newspaper ogni settimana, ma adempiva i suoi doveri
religiosi e per nove decimi dell'anno conduceva una vita
regolata. Aveva abbastanza soldi da sistemarsi; non era
quello. Ma in famiglia l'avrebbero guardata con
disprezzo. Prima di tutto c'era il padre con quella cattiva
reputazione, e poi la pensione della madre cominciava a
farsi una certa fama. Aveva l'impressione di essere stato
giocato. Immaginava gli amici parlare della storia e ridere.
Lei era un po' volgare; qualche volta diceva: «Ho viste» e
«Se saprebbe». Ma che importanza aveva la grammatica
se l'amava veramente? Non sapeva decidere se volerle
bene o disprezzarla per quello che aveva fatto.
Naturalmente l'aveva fatto pure lui. L'istinto lo spingeva a
rimanere libero, a non sposarsi. Una volta sposato sei
finito, gli diceva.
Mentre sedeva impotente sulla sponda del letto in camicia e
pantaloni, lei bussò leggermente alla porta ed entrò. Gli
disse tutto, che aveva rivelato ogni cosa alla madre e che la
madre gli avrebbe parlato quella mattina. Pianse e gli gettò
le braccia al collo, dicendo:
«Oh Bob! Bob! Che devo fare? Che devo fare?».
Si sarebbe uccisa, disse.
La consolò debolmente, dicendole di non piangere, che
tutto si sarebbe aggiustato, di non temere. Sentì contro la
camicia l'agitarsi del suo seno.
Non era del tutto colpa sua se era successo. Ricordava
bene, con la curiosa paziente memoria dello scapolo, le
prime fortuite carezze che il vestito, il respiro, le dita di
lei gli avevano dato. Poi una notte tardi, mentre si
spogliava per andare a letto, lei aveva bussato alla porta,
timidamente. Voleva riaccendere la candela alla sua, perché
si era spenta con un colpo di vento. Era la sera in cui faceva il
bagno. Indossava un'ampia vestaglia aperta di flanella
stampata. Il collo bianco del piede splendeva
nell'apertura delle pantofole di pelliccia e il sangue
ardeva caldo sotto la pelle profumata. Anche dalle mani e
dai polsi mentre accendeva e raddrizzava la candela si
levava un tenue profumo.
Le sere che rincasava molto tardi era lei che gli riscaldava il
pranzo. Sapeva a malapena cosa stesse mangiando,
sentendosela accanto sola, di notte, nella casa
addormentata. E quante premure! Se per caso la notte
era fredda o umida o ventosa c'era di sicuro un bicchierino di
ponce pronto. Forse potevano essere felici insieme...
Salivano insieme al piano di sopra in punta di piedi,
ciascuno con una candela, e sul terzo pianerottolo si
scambiavano riluttanti buonanotte. Si baciavano.
Ricordava bene gli occhi, il tocco della mano di lei e il suo
delirio...
Ma il delirio passa. Echeggiò la frase di lei, applicandola a se
stesso: «Che devo fare?». L'istinto dello scapolo lo esortava
a indietreggiare.
Ma il peccato c'era; persino il suo senso d'onore gli diceva
che per un peccato simile doveva essere fatta riparazione.

Mentre sedeva con lei sulla sponda del letto Mary venne alla
porta e disse che la padrona voleva vederlo nel salotto.
Si alzò per mettersi giacca e gilè, più impotente che mai.
Quando si fu vestito si avvicinò a lei per consolarla. Tutto
si sarebbe aggiustato, non doveva temere. La lasciò che
piangeva sul letto e gemeva piano: «Oh mio Dio!».
Mentre scendeva le scale gli occhiali gli si
appannarono talmente che dovette toglierseli e pulirli.
Moriva dal desiderio di salire in cielo attraverso il tetto e
di volare via verso un altro paese dove non avrebbe mai più
sentito parlare dei suoi guai, eppure una forza lo spingeva
dabbasso scalino per scalino. I visi implacabili del
principale e della madama fissavano la sua sconfitta.
Sull'ultima rampa di scale incrociò Jack Mooney che
veniva su dalla dispensa tenendo in braccio due bottiglie
di Bass. Si fecero un freddo saluto; e gli occhi dell'amante
si posarono per uno o due secondi su una grossa faccia
da mastino e su un paio di grosse braccia corte. Quando
giunse ai piedi della scala alzò gli occhi e vide Jack
guardarlo attentamente dalla porta della stanza d'angolo.
D'improvviso ricordò la sera che uno degli artistes di
music-hall, un biondino londinese, aveva alluso in modo
piuttosto spinto a Polly. La riunione era stata quasi
interrotta dalla violenza di Jack. Tutti cercavano di
calmarlo. L'artiste di music-hall, un po' più pallido del
solito, continuava a sorridere e a ripetere che non voleva
dire niente di male; ma Jack continuava a urlargli che se
qualcuno provava quel tipo di giochetto con sua sorella ci
avrebbe pensato lui a cacciargli tutti i denti in gola: e
l'avrebbe fatto.
Polly sedette per un po' sulla sponda del letto,
piangendo. Poi si asciugò gli occhi e andò allo specchio.
Bagnò l'orlo dell'asciugamano nella brocca d'acqua e si
rinfrescò gli occhi con l'acqua fredda. Si guardò di profilo e
si riaggiustò una forcella sopra l'orecchio. Poi tornò di
nuovo al letto e si sedette ai piedi di esso. Considerò a lungo i
cuscini e quella vista le risvegliò nella mente ricordi intimi,
piacevoli. Appoggiò la nuca contro la fredda spalliera di
ferro e si mise a fantasticare. Sul suo viso non c'era più
traccia di turbamento.
Continuò ad aspettare paziente, quasi allegra, per niente
allarmata, mentre i ricordi cedevano gradualmente il
posto a speranze e visioni del futuro. Le visioni e le
speranze erano così complicate che non vedeva più i
cuscini bianchi su cui teneva fisso lo sguardo, né
ricordava di stare aspettando qualcosa.
Alla fine udì sua madre chiamare. Balzò in piedi e corse
alla ringhiera.
«Polly! Polly!»
«Sì, mamma?»
«Vieni giù, cara. Il signor Doran vuole parlarti.»
Allora ricordò cosa era stata ad aspettare.



1 commento:

  1. Grazie mille per aver riportato la storia, mi è stato molto utile!

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