martedì 7 febbraio 2012

EVELINE


Sedeva alla finestra osservando la sera invadere il viale.
Teneva la testa appoggiata alle tende e nelle narici aveva
l'odore della cretonne polverosa. Era stanca.
Passava poca gente. L'uomo dell'ultima casa passò diretto
ad essa; ne udì i passi risonare secchi sul marciapiede di
calcestruzzo e dopo scricchiolare sul sentiero di scorie
davanti alle nuove case rosse. Un tempo lì c'era stato un
campo dove giocavano tutte le sere con i figli dell'altra
gente. Poi uno di Belfast aveva comprato il campo e vi
aveva costruito case, non come le loro piccole e scure, ma
case chiare di mattoni con tetti lucenti. I bambini del viale
giocavano insieme in quel campo: i Devines, i Waters, i
Dunns, il piccolo Keogh lo storpio, lei e i suoi fratelli e
sorelle. Ernest, però, non giocava mai: era troppo grande.
Suo padre spesso andava a stanarli fuori del campo con il
bastone di rovo; ma di solito il piccolo Keogh faceva la
guardia e gridava quando vedeva suo padre venire. Pure
sembravano essere stati abbastanza felici allora. Suo
padre non era così malridotto; e per di più sua madre era
viva. Era tanto tempo fa; lei e i suoi fratelli e sorelle
erano tutti cresciuti, sua madre era morta. Anche Tizzie
Dunn era morta e i Waters erano tornati in Inghilterra.
Tutto cambia. Adesso stava per andare via come gli altri,
per lasciare la sua casa.
Casa! Guardò in giro per la stanza, passando in rivista
tutti gli oggetti familiari che aveva spolverato una volta
alla settimana per tanti anni, domandandosi da dove mai
venisse tutta quella polvere. Forse non avrebbe mai
rivisto gli oggetti familiari dai quali non aveva mai
immaginato di venire separata. Eppure durante tutti
quegli anni non aveva mai scoperto il nome del prete la
cui fotografia ingiallita era appesa al muro, sopra
l'armonium rotto, accanto alla stampa colorata delle
promesse fatte alla beata Margaret Mary Alacoque. Era
stato un amico di scuola di suo padre. Ogni volta che
mostrava la fotografia a un ospite suo padre vi accennava
di sfuggita con le parole:
«È a Melbourne adesso».
Aveva acconsentito ad andarsene, a lasciare la sua casa.
Era saggio?
Cercò di ponderare ogni aspetto della questione. A casa
aveva comunque tetto e cibo; aveva intorno quelli che
aveva conosciuto tutta la vita. Naturalmente doveva
lavorare sodo, sia a casa sia al negozio. Cosa avrebbero
detto di lei ai grandi magazzini scoprendo che era
scappata con uno? Che era una stupida, forse; e avrebbero
rioccupato il suo posto con un'inserzione. La signorina
Gavan sarebbe stata contenta. Ce l'aveva sempre avuta
con lei, soprattutto ogni volta che c'era gente che
ascoltava.
«Signorina Hill, non vede che le signore aspettano?»
«Un po' di vita, signorina Hill, per favore.»
Non avrebbe versato molte lacrime nel lasciare i grandi
magazzini.
Ma nella sua nuova casa, in un lontano paese ignoto, non
sarebbe stato così. Allora sarebbe sposata: lei, Eveline. La
gente l'avrebbe trattata con rispetto. Non come era stata
trattata sua madre. Persino ora, sebbene avesse
diciannove anni passati, talvolta si sentiva esposta al

pericolo della violenza paterna. Sapeva che era questo
che le aveva dato le palpitazioni. Quando crescevano non
le si era mai lanciato contro, come faceva con Harry ed
Ernest, perché era una ragazza; ma ultimamente aveva
cominciato a minacciarla e a dirle cosa non le avrebbe
fatto, non fosse stato per riguardo a sua madre morta. E
ora non aveva nessuno che la proteggesse, Ernest era
morto e Harry, che lavorava come decoratore di chiese,
era quasi sempre in qualche posto in campagna. Inoltre,
l'invariabile battibecco per i soldi le sere del sabato aveva
cominciato a stancarla indicibilmente. Dava sempre tutto
il suo stipendio (sette scellini) e Harry mandava sempre
quello che poteva, ma il guaio era riuscire a farsi dare
qualche soldo dal padre. Diceva che lei sperperava il
denaro, che non aveva testa, che non le avrebbe dato i
soldi faticosamente guadagnati da spendere e spandere
per strada, e molto di più, perché di solito il sabato sera
era piuttosto malridotto. Alla fine le dava i soldi
chiedendole se era nelle sue intenzioni fare la spesa per il
pranzo domenicale. Allora doveva precipitarsi fuori il più
rapidamente possibile per andare al mercato, tenendo
stretto in mano il borsellino di cuoio nero mentre si
faceva strada a gomitate fra la folla, tornando a casa tardi
carica di provviste. Era una bella fatica mandare avanti la
casa e fare in modo che i due bambini che le erano
rimasti affidati andassero a scuola regolarmente e
prendessero regolarmente i pasti. Era un duro lavoro, una
vita dura, ma ora che stava per lasciarla non la trovava
una vita del tutto indesiderabile.
Con Frank stava per esplorare un'altra vita. Frank era
molto buono, virile, aperto. Doveva partire con lui sul
battello della notte per diventare sua moglie e vivere con
lui a Buenos Aires, dove aveva una casa che l'aspettava.
Come ricordava bene la prima volta che l'aveva visto;
alloggiava in una casa sulla strada principale dove lei
andava in visita. Parevano poche settimane fa. Stava in
piedi al cancello, con il berretto a visiera spinto indietro
sulla testa e i capelli che gli ricadevano in avanti su un
viso di bronzo. Poi si erano conosciuti. L'attendeva tutte
le sere fuori dei grandi magazzini e l'accompagnava a
casa. L'aveva portata a vedere La Zingarella e lei era
esultante mentre sedeva con lui in una parte del teatro
insolita. Gli piaceva terribilmente la musica e cantava un
poco. La gente sapeva che le faceva la corte e, quando lui
cantava della ragazza che ama un marinaio, si sentiva
sempre piacevolmente confusa. La chiamava Poppens per
scherzo. Dapprima avere un ragazzo l'aveva eccitata e poi
aveva cominciato a trovarlo simpatico. Raccontava di
paesi lontani. Aveva cominciato come mozzo a una
sterlina al mese su una nave della linea Allan che salpava
per il Canada. Le aveva enumerato i nomi delle navi su
cui era stato e i nomi dei diversi servizi. Aveva
attraversato lo stretto di Magellano e le raccontava storie
dei terribili patagoni. A Buenos Aires era stato fortunato,
disse, ed era venuto nella vecchia patria solo per una
vacanza. Naturalmente, suo padre aveva scoperto la
relazione e le aveva proibito di avere a che fare con lui.
«Li conosco questi marinai» aveva detto.
Un giorno aveva bisticciato con Frank, e dopo questo lei
doveva incontrarsi con l'amante di nascosto.
La sera si incupì nel viale. Il bianco di due lettere in
grembo divenne indistinto. Una era per Harry; l'altra per

suo padre. Ernest era stato il suo preferito, ma voleva
bene anche a Harry. Suo padre era andato invecchiando
ultimamente, osservò; gli sarebbe mancata. Qualche volta
poteva essere molto carino. Non molto tempo prima,
quando per un giorno era stata male, le aveva letto ad alta
voce una storia di spiriti e abbrustolito il pane sul fuoco.
Un altro giorno, quando sua madre era viva, erano tutti
andati a fare un picnic sul colle di Howth. Lo ricordò che
si metteva il cappello di sua madre per fare ridere i
bambini.
Le rimaneva ben poco tempo, ma continuava a sedere
accanto alla finestra, appoggiando la testa alla tenda,
aspirando l'odore di cretonne polverosa. Lontano nel viale
udiva un organetto suonare. Conosceva il motivo. Strano
che dovesse venire proprio quella sera a rammentarle la
promessa a sua madre, la promessa di mandare avanti la
casa il più a lungo possibile. Ricordò l'ultima notte della
malattia di sua madre; era di nuovo nella buia stanza
soffocante dall'altro lato dell'ingresso e fuori udiva un
malinconico motivo italiano. Al suonatore d'organetto era
stato ordinato di andarsene dandogli un sixpence. Ricordò
suo padre tornare con sussiego nella camera della malata
dicendo:
«Maledetti italiani! Venire qua!».
Mentre fantasticava, la visione pietosa della vita di sua
madre gettò il suo maleficio fino nel profondo del suo
essere: quella vita di sacrifici banali conclusasi con la
pazzia. Tremò mentre riudiva la voce materna dire
continuamente con assurda insistenza:
«Derevaun Seraun! Derevaun Seraun!».
Si alzò con un improvviso moto di terrore. Fuggire!
Doveva fuggire! Frank l'avrebbe salvata. Le avrebbe dato
la vita, forse anche l'amore. Ma lei voleva vivere. Aveva
diritto alla felicità. Frank l'avrebbe presa fra le sue
braccia, stretta fra le sue braccia. L'avrebbe salvata.
Stava in mezzo alla folla ondeggiante nella stazione al
North Wall. Lui le teneva la mano e lei sapeva che le
stava parlando, che ripeteva qualcosa sulla traversata più
e più volte. La stazione era piena di soldati con bagagli
scuri. Attraverso le ampie porte dei capannoni
intravedeva la massa nera della nave, ormeggiata accanto
al muro del molo, con gli oblò illuminati. Non rispose
nulla. Si sentiva le guance pallide e fredde e, da un
labirinto di angoscia, pregò Dio di guidarla, di indicarle
quale era il suo dovere. La nave mandò un lungo fischio
lugubre nella bruma. Se andava, domani sarebbe stata sul
mare con Frank, diretta a tutto vapore verso Buenos
Aires. I biglietti per la traversata erano stati presi. Poteva
ancora tirarsi indietro dopo tutto quello che lui aveva
fatto per lei? L'angoscia le fece venire la nausea mentre
continuava a muovere le labbra in silenziosa fervente
preghiera.
Una campana le squillò sul cuore. Lo sentì afferrarle la
mano:
«Vieni!».
Tutti i mari del mondo le si rovesciarono intorno al cuore.
La stava attirando dentro di essi: l'avrebbe affogata. Si
aggrappò con entrambe le mani alla ringhiera di ferro.
«Vieni!»
No! No! No! Era impossibile. Le mani strinsero convulse
e frenetiche il ferro. Lanciò in mezzo ai mari un grido di

tormento. «Eveline! Evvy!»
Lui si precipitò oltre la barriera e le gridò di seguirlo. Gli
urlarono di andare avanti, ma la chiamava ancora. Fissò
su di lui il viso bianco, passivo, da animale indifeso. I
suoi occhi non gli dettero nessun segno di amore o di
addio o di riconoscimento.



1 commento: