martedì 7 febbraio 2012

UN FATTO DOLOROSO


Il signor James Duffy viveva a Chapelizod perché
desiderava vivere il più lontano possibile dalla città di cui
era cittadino e perché trovava tutti gli altri sobborghi di
Dublino volgari, moderni e pretenziosi. Viveva in una
vecchia casa tetra e dalle sue finestre poteva guardare
dentro la distilleria in disuso o in su lungo il fiume poco
profondo sul quale è costruita Dublino. Le alte pareti
della camera senza tappeto erano libere da quadri. Aveva
comprato lui stesso ciascuno dei mobili nella stanza: un
letto in ferro nero, un lavamano di ferro, quattro sedie di
giunco, un attaccapanni, un recipiente per il carbone, un
parafuoco con gli alari e un tavolo quadrato sul quale
c'era un doppio scrittoio. In una nicchia era stata fatta una
libreria con scaffali di legno bianco. Il letto era rivestito
di biancheria candida e una coperta nera e scarlatta ne copriva
i piedi. Uno specchietto era appeso sopra il
lavamano e durante il giorno una lampada schermata di
bianco era il solo oggetto ornamentale della mensola del
caminetto. I libri sugli scaffali di legno bianco erano
ordinati dal basso in alto a seconda della grandezza. Un
Wordsworth completo stava a un'estremità dello scaffale
inferiore e una copia del Catechismo di Maynooth, cucita
nella copertina di tela di un taccuino, stava a un'estremità
dello scaffale superiore. Sullo scrittoio c'era sempre il
necessario per scrivere. Dentro lo scrittoio si trovavano
una traduzione manoscritta del Michael Kramer di
Hauptmann, le cui didascalie erano in inchiostro violaceo,
e un piccolo fascio di carte tenute insieme da una pinza di
ottone. Su questi fogli veniva scritta di tanto in tanto una
frase e, in un momento di ironia, il titolo di una pubblicità
per le Fave antibile era stato incollato sul primo foglio.
Sollevando il coperchio dello scrittoio ne sfuggiva una
tenue fragranza... la fragranza di matite nuove in legno di
cedro o di una bottiglia di gomma o di una mela troppo
matura che forse era stata lasciata lì e dimenticata.
Il signor Duffy aborriva qualsiasi cosa suggerisse
disordine fisico o mentale. Un dottore del medio evo lo
avrebbe definito saturnino. Il viso, che portava intero il
racconto dei suoi anni, aveva la tinta bruna delle strade di
Dublino. Sulla testa lunga e piuttosto grande crescevano
aridi capelli neri, e i baffi castani non coprivano del tutto
una bocca sgradevole. Anche gli zigomi davano al viso
un carattere severo, ma non c'era severità negli occhi che,
guardando il mondo da sotto le sopracciglia castane,
davano l'impressione di un uomo sempre pronto ad
accogliere un istinto di redenzione negli altri ma spesso
deluso. Viveva a una certa distanza dal suo corpo,
osservando i propri atti con occhiate dubbiose e furtive.
Aveva una strana abitudine autobiografica che lo portava
di tanto in tanto a comporre mentalmente una breve frase
su se stesso contenente un soggetto in terza persona e un
predicato al passato. Non dava mai l'elemosina ai
mendicanti e camminava deciso, con un grosso bastone di
nocciuolo in mano.
Era da molti anni cassiere di una banca privata a via
Baggot. Ogni mattina arrivava da Chapelizod con il tram.
A mezzogiorno andava da Dan Burke e faceva colazione:
una bottiglia di birra chiara e un vassoietto di biscotti di
arrow-root. Alle quattro era libero. Pranzava in una
trattoria a via George dove si sentiva al sicuro dalla
gioventù dorata di Dublino e dove nella lista delle
vivande c'era una certa schietta onestà. Trascorreva le
serate davanti al piano della padrona di casa o vagando
per la periferia. La sua inclinazione per la musica di
Mozart lo portava talvolta a un'opera o a un concerto:
queste erano le uniche dissipazioni della sua vita.
Non aveva né compagni né amici, né chiesa né credo.
Viveva la sua vita spirituale senza alcuna comunione con
gli altri, facendo visita ai parenti a Natale e scortandoli al
cimitero quando morivano. Adempiva questi due doveri
sociali per riguardo verso la dignità del passato, ma non
concedeva niente di più alle convenzioni che regolano la
vita civica. Si permetteva di pensare che in determinate
circostanze avrebbe derubato la sua banca, ma dato che
queste circostanze non si presentarono mai, la sua vita
trascorreva uniforme... una storia senza avventure.
Una sera si trovò seduto accanto a due signore al
Rotunda. Il teatro, scarsamente affollato e silenzioso
faceva tristemente presagire un fiasco. La signora seduta
vicino a lui esaminò il teatro deserto una o due volte e poi
disse:
«Che peccato che ci sia un così misero pubblico stasera!
È tanto difficile dovere cantare a delle panche vuote».
Prese il commento come un invito a parlare. Era sorpreso
che lei sembrasse così poco imbarazzata. Mentre
parlavano cercò di imprimersela bene in mente. Quando

venne a sapere che la ragazza accanto a lei era la figlia
immaginò che fosse più giovane di lui di un anno circa. Il
viso, che doveva essere stato bello, era rimasto
intelligente. Era un viso ovale dai lineamenti fortemente
marcati. Gli occhi erano di un blu molto scuro e fermi. Lo
sguardo cominciava con una nota di sfida, ma era confuso
da ciò che sembrava un venire meno intenzionale della
pupilla nell'iride, che per un istante rivelava un
temperamento di grande sensibilità. La pupilla si
riaffermava subito, l'indole semisvelata ritornava sotto il
dominio della prudenza e la giacca di astracan,
modellando un seno di una certa abbondanza, accentuava
la nota di sfida in modo ancora più deciso.
La incontrò di nuovo qualche settimana dopo a un
concerto a Earlsfort Terrace e approfittò degli attimi in
cui l'attenzione della figlia era distolta per appronfondire
la conoscenza. Lei alluse una o due volte al marito, ma il
tono non era tale da rendere l'allusione un avvertimento.
Si chiamava signora Sinico. Il bis-bisnonno del marito era
venuto da Livorno. Il marito era capitano di un mercantile
che faceva la spola tra Dublino e l'Olanda; e avevano
un'unica figlia.
Incontrandola una terza volta per caso, trovò il coraggio
di fissarle un appuntamento. Venne. Fu il primo di molti
incontri; si incontravano sempre di sera e sceglievano i
quartieri più tranquilli per passeggiare insieme. Il signor
Duffy, tuttavia, provava ripugnanza per i modi di agire
clandestini e, scoprendo che erano costretti a incontrarsi
segretamente, la obbligò a invitarlo a casa sua. Il capitano
Sinico incoraggiava le visite pensando che fosse in gioco
la mano della figlia. Aveva così sinceramente scartato la
moglie dalla sua galleria di piaceri che non sospettava che
un altro potesse interessarsi a lei. Dato che il marito era
spesso via e la figlia fuori a dare lezioni di musica, il
signor Duffy aveva molte occasioni per godere la
compagnia della signora. Né lui né lei avevano mai avuto
un'avventura del genere prima e nessuno dei due si
rendeva conto che era assurda. A poco a poco i suoi
pensieri si intrecciarono a quelli di lei. Le prestò libri, le
procurò idee, condivise con lei la sua vita intellettuale.
Lei ascoltava tutto.
Talvolta, in cambio delle sue teorie, lei gli rivelava
qualche fatto della propria vita. Con sollecitudine quasi
materna lo spingeva a lasciare che la sua indole si aprisse
completamente: divenne il suo confessore. Lui le
raccontò che per qualche tempo aveva assistito alle
riunioni di un partito socialista irlandese, dove si era
sentito una figura incredibile in mezzo a una ventina di
sobri operai in un abbaino illuminato da un'inefficace
lampada a olio. Quando il partito si era diviso in tre
sezioni, ciascuna sotto un proprio capo e in un abbaino
proprio, aveva smesso di frequentarle. Le discussioni
degli operai, diceva, erano troppo timide; l'interesse che
provavano per la questione dei salari smodato. Li sentiva
rozzamente realisti e irritati da una precisione che
derivava da un agio al di fuori della loro portata. Nessuna
rivoluzione sociale, le disse, avrebbe con ogni probabilità
colpito Dublino per qualche secolo.
Lei gli domandò perché non scrivesse i suoi pensieri. A
quale scopo? le chiedeva lui, con studiato disprezzo. Per
competere con fraseggiatori, incapaci di pensare per
sessanta secondi di seguito? Per sottoporsi alle critiche di

una borghesia ottusa che affidava la sua moralità ai
poliziotti e le sue belle arti agli impresari?
Andava spesso nella casetta di campagna di lei fuori
Dublino; spesso trascorrevano le serate da soli. A poco a
poco, mentre i loro pensieri si intrecciavano, parlavano di
argomenti meno remoti. L'amicizia di lei era come un
terreno caldo intorno a una pianta esotica. Tante volte lei
lasciò che l'oscurità scendesse su di loro, evitando di
accendere la lampada. La camera scura e discreta,
l'isolamento, la musica che ancora vibrava nelle loro
orecchie li univano. Questa unione lo esaltava, smussava
gli spigoli del suo carattere, dava emozioni la sua vita
intellettuale. Talvolta si sorprendeva ad ascoltare il suono
della propria voce. Pensava che agli occhi di lei si
sarebbe elevato a statura angelica; e mentre faceva in
modo che l'indole ardente della compagna gli si
affezionasse sempre più, udiva la strana voce impersonale
che riconosceva come propria, insistere sull'incurabile
solitudine dell'anima. Non possiamo dare noi stessi,
diceva: ci apparteniamo. La conclusione di tali
conversazioni fu che la signora Sinico, una sera durante
la quale aveva dato segni di insolita eccitazione, gli
afferrò la mano appassionatamente e se la premette sulla
guancia.
Il signor Duffy fu meravigliatissimo. L'interpretazione
data alle sue parole lo disilluse. Non le fece visita per una
settimana; poi le scrisse chiedendole un appuntamento.
Poiché non desiderava che l'influsso del loro
confessionale rovinato turbasse l'ultimo colloquio si
incontrarono in una piccola pasticceria vicino al Parkgate.
Il tempo era freddo e autunnale, ma nonostante il freddo
vagarono su e giù per i sentieri del parco quasi tre ore.
Convennero di interrompere i loro rapporti: ogni legame,
disse lui, è un legame di dolore. Quando uscirono dal
parco camminarono in silenzio verso il tram; ma qui lei
cominciò a tremare così violentemente che lui, temendo
un altro cedimento, la salutò in fretta e la lasciò. Qualche
giorno dopo ricevette un pacco che conteneva i suoi libri
e i suoi fogli di musica.
Passarono quattro anni. Il signor Duffy tornò alla sua vita
uniforme.
La sua camera continuava a testimoniare l'ordine della
sua mente. Qualche nuovo spartito ingombrava il leggio
nella stanza al piano di sotto e sugli scaffali c'erano due
volumi di Nietzsche: Così parlò Zarathustra e La gaia
scienza. Scriveva di rado sul fascio di carte che si trovava
nello scrittoio. Una delle frasi, scritta due mesi dopo
l'ultimo colloquio con la signora Sinico, diceva: L'amore
tra uomo e uomo è impossibile perché non ci devono
essere rapporti sessuali, l'amicizia tra uomo e donna è
impossibile perché devono esserci rapporti sessuali. Si
tenne lontano dai concerti per timore di incontrarla. Suo
padre morì; il socio giovane della banca si ritirò. E ancora
ogni mattina andava in centro con il tram e ogni sera
tornava a casa dal centro a piedi dopo avere pranzato in
modo frugale a via George e letto il giornale della sera
come dessert.
Una sera mentre stava per mettersi in bocca un pezzo di
manzo salato e cavolo la mano gli si fermò. I suoi occhi si
fissarono su un trafiletto nel giornale della sera che aveva
appoggiato alla caraffa dell'acqua. Rimise il cibo nel
piatto e lesse attentamente il trafiletto. Poi bevve un

bicchiere d'acqua, spinse il piatto da un lato, si ripiegò
davanti il giornale fra i gomiti e lesse e rilesse il trafiletto.
Il cavolo cominciò a depositare nel piatto un unto freddo
e bianco. La ragazza venne a chiedere se il pranzo non era
buono. Rispose che era molto buono e ne mangiò pochi
bocconi con difficoltà. Poi pagò il conto e uscì.
Camminò rapidamente nel crepuscolo di novembre, con il
grosso bastone di nocciuolo che batteva per terra con
regolarità e il margine avana del Mail che gli spuntava da
una tasca dello stretto cappotto a doppio petto. Sulla
strada solitaria che porta da Parkgate a Chapelizod
rallentò il passo. Il bastone batteva per terra con minore
enfasi, il suo respiro, uscendo irregolare e, dal suono,
quasi sospirando, si condensava nell'aria rigida. Quando
arrivò a casa salì subito in camera da letto e, togliendosi il
giornale di tasca, rilesse il trafiletto alla debole luce della
finestra. Non lo lesse a voce alta, ma muovendo le labbra
come fa un prete quando legge le preghiere della Secreta
durante la Messa. Questo era il trafiletto:


MORTE DI UNA SIGNORA A SYDNEY PARADE
Un fatto doloroso


Oggi all'ospedale civile di Dublino il vice-coroner (in assenza
del signor Leverett) ha proceduto a un'inchiesta per
determinare la causa di morte della signora Emily Sinico, di
quarantatré anni, che è rimasta uccisa alla stazione di Sydney
Parade ieri sera. Le testimonianze hanno dimostrato che la
defunta signora, mentre tentava di attraversare i binari, è stata
investita dalla locomotiva dell'accelerato delle ventidue
proveniente da Kingstown, riportando ferite al capo e al fianco
destro che ne hanno provocato il decesso.
James Lennon, conducente della locomotiva, ha dichiarato di
essere impiegato delle ferrovie da quindici anni. Udendo il
fischio del capotreno aveva messo in moto il treno e un
secondo o due dopo l'aveva fermato in seguito a forti grida. Il
treno andava piano.
E Dunne, facchino, ha dichiarato che mentre il treno stava per
partire aveva notato una donna che tentava di attraversare i
binari. Era corso verso di lei urlando, ma prima che potesse
raggiungerla, era stata presa dal respingente della locomotiva
ed era caduta a terra.
Un giurato. «Lei ha visto la signora cadere?» Testimone. «Sì».
Il brigadiere Croly ha deposto che, arrivato sul luogo, aveva
trovato la defunta stesa sulla banchina evidentemente morta.
Aveva fatto portare il corpo nella sala d'aspetto in attesa
dell'arrivo dell'ambulanza.
L'agente di polizia 57 ha confermato.
Il dottore Halpin, aiuto-chirurgo dell'ospedale civile di
Dublino, ha dichiarato che la defunta aveva subito la frattura di
due costole inferiori e gravi contusioni alla spalla sinistra. La
parte destra del capo era stata lesa nella caduta. Le lesioni non
erano sufficienti a provocare il decesso di una persona
normale. La morte, a suo parere, era stata dovuta
probabilmente alla violenta emozione e all'improvvisa
debolezza cardiaca.
Il signor H. B. Patterson Finlay ha espresso, a nome delle
ferrovie, il suo profondo rammarico per l'incidente. Le ferrovie
hanno sempre preso ogni precauzione per impedire alla gente
di attraversare i binari al di fuori dei cavalcavia, sia mettendo
avvisi in ogni stazione sia con l'uso di cancelli a scatto
brevettati ai passaggi a livello. La defunta aveva l'abitudine di
attraversare i binari la notte tardi passando da una banchina
all'altra e, considerando certe altre circostanze del caso, egli
non ha ritenuto responsabili gli impiegati delle ferrovie.

Ha deposto anche il capitano Sinico, abitante a Leoville,
Sydney Parade, marito della defunta. Ha dichiarato che la
defunta era sua moglie. Non si trovava a Dublino al momento
dell'incidente dato che è arrivato da Rotterdam solo stamattina.
Erano sposati da ventidue anni ed erano vissuti felici fino a
circa due anni fa quando la moglie aveva cominciato a essere
alquanto intemperante.
La signorina Mary Sinico ha detto che ultimamente la madre
aveva l'abitudine di uscire di notte per comprare liquori. La
testimone aveva spesso cercato di fare ragionare la madre e
l'aveva persuasa a diventare socia di una lega antialcolica. Fino
a un'ora dopo l'incidente non si trovava a casa.
La giuria ha pronunciato un verdetto in conformità con la
deposizione del medico e ha assolto Lennon da ogni addebito.
Il vice-coroner, dopo avere detto che si trattava di un fatto
estremamente doloroso, ha espresso al capitano Sinico e alla
figlia le più sentite condoglianze. Ha esortato le ferrovie a
prendere energici provvedimenti onde evitare la possibilità di
incidenti simili in avvenire. Nessuno è stato ritenuto
responsabile.
Il signor Duffy alzò gli occhi dal giornale e guardò fisso
fuori della finestra il triste paesaggio serale. Il fiume
scorreva placido accanto alla distilleria vuota e di tanto in
tanto appariva una luce in qualche casa della via Lucan.
Che fine! L'intero resoconto della morte di lei lo
disgustava e lo disgustava pensare che un tempo le aveva
parlato di ciò che riteneva sacro. Le frasi trite, le vane
espressioni di condoglianza, le caute parole di un cronista
convinto a nascondere i particolari di una morte banale e
volgare lo presero allo stomaco. Non soltanto aveva
degradato se stessa; aveva degradato lui. Vedeva lo
squallore di quel vizio, penoso e puzzolente. La
compagna della sua anima! Pensò ai disgraziati
barcollanti che aveva visto portare al barista recipienti e
bottiglie da riempire. Dio buono che fine! Era stata
evidentemente incapace di vivere, priva di qualsiasi forza
di carattere, facile preda delle abitudini, uno dei relitti su
cui è stata eretta la civiltà. Ma che potesse essere caduta
così in basso! Possibile che si fosse ingannato in modo
così totale sul suo conto? Ricordò l'esplosione di quella
sera e ne dette un'interpretazione più severa di quanto non
avesse mai fatto. Non gli fu difficile adesso approvare la
decisione presa.
Mentre la luce si indeboliva e la sua memoria cominciava
a smarrirsi credette che la mano di lei toccasse la sua. La
forte emozione che prima l'aveva preso allo stomaco gli
scuoteva ora i nervi. Si mise cappotto e cappello in fretta
e uscì. L'aria fredda gli venne incontro sulla soglia; gli si
insinuò dentro le maniche del cappotto. Quando arrivò al
bar del ponte di Chapelizod entrò e ordinò un ponce
caldo.
Il proprietario lo servì ossequiosamente ma non si
arrischiò a parlare. Nel locale c'erano cinque o sei operai
che discutevano il valore di una tenuta nella contea di
Kildare. Bevevano a intervalli dagli enormi boccali da
una pinta e fumavano, sputando spesso sul pavimento e
talvolta portando la segatura sopra gli sputi con i pesanti
scarponi. Seduto sul suo sgabello il signor Duffy li
fissava senza vederli o udirli. Dopo un po' uscirono e lui
chiese un altro ponce. Rimase seduto un bel po' a berlo. Il
locale era molto tranquillo. Appoggiato scompostamente
al bancone il proprietario leggeva l'Herald e sbadigliava.
Ogni tanto si udiva fuori un tram passare sibilando lungo

la strada solitaria.
Mentre sedeva lì, rivivendo la sua vita con lei ed
evocando alternamente le due immagini nelle quali ora la
concepiva, realizzò che era morta, che aveva cessato di
esistere, che era diventata un ricordo. Cominciò a sentirsi
a disagio. Si chiese cos'altro avrebbe potuto fare. Non
poteva continuare con lei una commedia di inganni; non
potevano vivere insieme apertamente. Aveva agito nel
modo che gli era parso migliore. Come fargliene una
colpa? Ora che se ne era andata capì come doveva essere
stata solitaria la vita di lei, seduta notte dopo notte, sola in
quella stanza. Anche la sua vita sarebbe stata solitaria
finché lui, pure, sarebbe morto, avrebbe cessato di
esistere, sarebbe diventato un ricordo... se qualcuno lo
avesse ricordato.
Erano le nove passate quando lasciò il locale. La notte era
fredda e cupa. Entrò nel parco dal primo cancello e
avanzò camminando sotto gli alberi spettrali. Camminò
per i viali lugubri dove avevano camminato quattro anni
prima. Sembrava essergli vicina nell'oscurità. In certi
momenti gli pareva di sentire la voce di lei toccargli
l'orecchio, la mano toccargli la sua. Stette immobile ad
ascoltare. Perché le aveva rifiutato la vita? Perché l'aveva
condannata a morte? Sentì la sua natura morale cadere in
pezzi.
Quando arrivò in cima al colle Magazine si fermò e
guardò lungo il fiume in direzione di Dublino, le cui luci
risplendevano rosse e ospitali nella notte fredda. Guardò
giù per il pendio e, in fondo, nell'ombra del muro del
parco, vide figure umane distese. Quegli amori venali e
furtivi lo riempirono di disperazione. Rose la rettitudine
della sua vita; sentì che era stato escluso dal banchetto
della vita. Un essere umano sembrava averlo amato e lui
le aveva negato vita e felicità: l'aveva condannata
all'ignominia, a una morte vergognosa. Sapeva che quegli
esseri stesi a terra giù vicino al muro lo osservavano
augurandosi che se ne andasse. Nessuno lo voleva; era
escluso dal banchetto della vita. Volse gli occhi verso il
grigio fiume scintillante, che scorreva serpeggiando verso
Dublino. Al di là del fiume vide un treno merci
serpeggiare fuori della stazione di Kingsbridge, come un
verme dalla testa fiammeggiante che serpeggiasse
nell'oscurità, ostinatamente e laboriosamente. Scomparve
lento alla vista; ma nelle orecchie udiva ancora il
laborioso ronzio della locomotiva che ripeteva le sillabe
del nome di lei.
Tornò sui propri passi, con il ritmo della locomotiva che
gli martellava nelle orecchie. Cominciò a dubitare della
realtà di quello che gli diceva la memoria. Si fermò sotto
un albero e lasciò che il ritmo svanisse. Non la sentiva
più vicina a lui nell'oscurità né quella voce gli toccava
l'orecchio. Attese qualche minuto in ascolto. Non udiva
nulla: la notte era perfettamente silenziosa. Tornò ad
ascoltare: perfettamente silenziosa. Sentì di essere solo.





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