martedì 7 febbraio 2012

I MORTI



Lily, la figlia del custode, non si reggeva letteralmente
più in piedi. Non faceva in tempo ad accompagnare un
signore nella piccola dispensa dietro l'office al piano terra
aiutandolo a togliersi il cappotto, che 1'affannoso
campanello della porta d'ingresso tornava a suonare e
doveva correre lungo lo spoglio vestibolo per fare entrare
un altro ospite. Meno male che non si doveva occupare
anche delle signore. Ma la signorina Kate e la signorina
Julia ci avevano pensato loro trasformando la stanza da
bagno al piano di sopra in uno spogliatoio. La signorina
Kate e la signorina Julia erano lì, che chiacchieravano
ridevano e si agitavano, inseguendosi a vicenda sul
pianerottolo, scrutando in basso da sopra la ringhiera e
chiamando Lily per chiederle chi era arrivato.
Era sempre una grande occasione, il ballo annuale delle
signorine Morkan. Venivano tutti quelli che le
conoscevano, familiari, vecchi amici di famiglia, le
coriste di Julia, quelle allieve di Kate che erano
abbastanza adulte, e persino alcune allieve di Mary Jane.
Non era mai andato male. Da anni e anni era riuscito
splendidamente, a memoria di tutti: da quando Kate e
Julia, dopo la morte del fratello Pat, avevano lasciato la
casa a Stoney Batter e si erano prese Mary Jane, l'unica
nipote, a vivere con loro nella scura, spettrale casa
sull'isola Usher, la cui parte superiore avevano affittato
dal signor Fulham, il commerciante di grano al piano
terra. Erano passati buoni trent'anni giorno più giorno
meno. Mary Jane, che allora era una ragazzina vestita di
corto, era adesso il sostegno principale della famiglia,
avendo l'organo di via Haddington. Aveva fatto il
conservatorio e ogni anno dava un concerto di allieve
nella sala alta delle Antiche Sale da concerto. Molte sue
allieve appartenevano alle migliori famiglie di Kingstown
e di Dalkey. Vecchie come erano, anche le zie facevano
la loro parte. Julia, sebbene fosse completamente grigia,
era ancora primo soprano della chiesa di Adamo ed Eva,
e Kate, troppo debole per andare in giro molto, dava
lezioni di musica a principianti sul vecchio pianoforte
nella stanza sul retro. Lily, la figlia del custode, faceva i
lavori domestici. Sebbene vivessero modestamente,
ritenevano giusto mangiare bene; il meglio di tutto:
bistecche di manzo, tè da tre scellini e la migliore birra in
bottiglia. Ma Lily raramente commetteva uno sbaglio
nelle commissioni, così andava d'accordo con le tre
padrone. Si agitavano, ecco tutto. E l'unica cosa che non
sopportavano era che gli si rispondesse male.
Naturalmente, avevano le loro buone ragioni per essere
agitate in una sera simile. E poi le dieci erano passate da
un pezzo e ancora non si vedevano Gabriel e la moglie.
Inoltre avevano una terribile paura che Freddy Malins si
presentasse ubriaco. Non avrebbero voluto per nulla al
mondo che un'allieva di Mary Jane lo vedesse in quello
stato; e quando era così certe volte era molto difficile
saperlo prendere. Freddy Malins arrivava sempre tardi,
ma si domandavano cosa potesse trattenere Gabriel: era
per questo che andavano ogni due minuti alla ringhiera
per chiedere a Lily se Gabriel o Freddy erano arrivati.
«Oh, signor Conroy» disse Lily a Gabriel quando gli aprì
la porta «la signorina Kate e la signorina Julia pensavano


che non sarebbe mai arrivato. Buona sera, signora
Conroy.»
«Ne sono sicuro» disse Gabriel «ma dimenticano che mia
moglie ci mette tre mortali ore a vestirsi.»
In piedi sullo stuoino, strofinava via la neve dalle galosce,
mentre Lily conduceva la moglie ai piedi della scala e
gridava:
«Signorina Kate, c'è la signora Conroy».
Kate e Julia trotterellarono giù subito dalle scale scure.
Entrambe baciarono la moglie di Gabriel, dissero che
doveva essere morta di freddo e chiesero se Gabriel era
con lei.
«Eccomi qua sano e salvo, zia Kate! Andate su. Vi
seguo» gridò Gabriel dall'oscurità.
Continuò a strofinare i piedi energicamente mentre le tre
donne, ridendo, salivano allo spogliatoio delle signore.
Una leggera frangia di neve gli si era posata come una
cappa sulle spalle del mantello e come una mascherina
sulla punta delle galosce; e mentre i bottoni del mantello
passavano con uno scricchiolio attraverso la lana indurita
dalla neve, l'aria aperta, fredda e fragrante, sfuggì da
fessure e pieghe.
«Nevica di nuovo, signor Conroy?» chiese Lily.
Lo aveva preceduto nella dispensa per aiutarlo a togliersi
il mantello. Gabriel sorrise alle tre sillabe date al suo
cognome e la guardò. Era una ragazza sottile, in
crescenza, dal colorito pallido e dai capelli colore fieno. Il
gas nella dispensa la faceva sembrare ancora più pallida.
Gabriel l'aveva conosciuta quando da bambina sedeva sul
gradino più basso tenendo in braccio una bambola di
stracci.
«Sì, Lily» rispose «e credo che ne avremo per tutta la
notte.»
Alzò gli occhi al soffitto della dispensa, che tremava per
il battere e lo strascicare di piedi sul pavimento sopra,
ascoltò per un istante il pianoforte, poi guardò la ragazza,
che piegava con cura il mantello all'estremità di una
mensola.
«Dimmi, Lily» disse in tono amichevole «vai ancora a
scuola?»
«Oh no, signore» rispose. «Ho finito con la scuola da un
anno e più.»
«Oh, allora» disse Gabriel gaiamente «immagino che uno
di questi giorni verremo al matrimonio con il tuo ragazzo,
eh?»
La ragazza gli lanciò uno sguardo da sopra la spalla e
disse con grande amarezza:
«Gli uomini d’oggi sono soltanto chiacchieroni e pensano
solo a quello che possono ottenerne».
n
in modo apparentemente sbrigativo a causa del sussultoGabriel arrossì, come se sentisse di avere commesso un
errore e, senza guardarla, si tolse con un calcio le galosce
e si mise a dare energici colpetti con la sciarpa alle scarpe
di vernice.
Era un giovane grosso, piuttosto alto. Il colore intenso
delle guance gli saliva fino alla fronte, dove si
sparpagliava in poche informi chiazze di un rosso pallido;
e sul viso glabro gli scintillavano irrequiete le lenti lucide
e la luminosa montatura dorata che riparavano gli occhi
delicati e irrequieti. I lucenti capelli neri erano divisi nel
mezzo e spazzolati con una lunga curva dietro le orecchie
dove si arricciavano appena sotto il solco lasciato dal
cappello.


Quando ebbe reso lustre le scarpe a furia di colpetti si
alzò in piedi e si tirò giù il panciotto facendolo aderire di
più al corpo grassoccio. Poi prese rapidamente una
moneta di tasca.
«Oh Lily» disse, cacciandogliela in mano «è Natale, no?
Solo... ecco un piccolo...»
Camminò rapido verso la porta.
«Oh no, signore!» gridò la ragazza, seguendolo.
«Veramente, signore, non voglio.»
«Natale! Natale!» disse Gabriel, quasi trottando alle scale
e agitando la mano verso di lei con un gesto di
deprecazione.
La ragazza, vedendo che aveva raggiunto le scale, gli
gridò dietro:
«Be', grazie, signore».
Aspettò fuori della porta del salone che finisse il valzer,
ascoltando le gonne che la sfioravano e lo strascicare dei
piedi. Era ancora scombussolato dall'improvvisa e amara
risposta della ragazza. Gli aveva gettato addosso una
tristezza che cercò di dissipare sistemandosi i polsini e il
nodo della cravatta. Prese poi dal taschino del panciotto
un foglietto di carta e guardò le annotazioni fatte per il
discorso. Era indeciso sui versi di Robert Browning,
perché temeva che fossero inaccessibili alle teste dei suoi
ascoltatori. Meglio una citazione di Shakespeare o delle
Melodie che avrebbero riconosciuta. Il suono secco e
indelicato dei tacchi e lo strascicare delle suole degli
uomini gli ricordarono che il loro grado di cultura era
diverso dal suo. Si sarebbe solo reso ridicolo citando una
poesia che non potevano capire. Avrebbero pensato che
stava sciorinando la sua superiore cultura. Sarebbe fallito
con loro proprio come era fallito con la ragazza nella
dispensa. Aveva preso un tono sbagliato. Tutto il suo
discorso era un errore dal principio alla fine, un assoluto
fallimento.
Proprio allora zie e moglie uscirono dallo spogliatoio
delle signore. Le zie erano due vecchie piccole, vestite
con semplicità. Zia Julia era più alta di circa un pollice. I
capelli, tirati bassi sopra la parte superiore delle orecchie,
erano grigi; e grigio anche, con ombre più scure, era il
largo viso flaccido. Sebbene fosse robusta di costituzione
e si tenesse dritta, gli occhi lenti e le labbra aperte le
davano l'aspetto di una donna che non sapesse dove si
trovava o dove stesse andando. Zia Kate era più vivace. Il
viso, più sano di quello della sorella. era tutto rughe e
grinze, come una mela rossa avvizzita, e i capelli,
intrecciati nello stesso modo antiquato, non avevano
perso il loro colore nocciola matura.
Entrambe baciarono Gabriel con slancio. Era il nipote
prediletto, il figlio della sorella maggiore defunta, Ellen,
che aveva sposato T. J. Conroy, funzionario del porto.
«Gretta mi dice che stanotte non tornerete in vettura a
Monkstown, Gabriel» disse zia Kate.
«No» disse Gabriel, volgendosi alla moglie «ne abbiamo
avuto proprio abbastanza l'anno scorso, vero? Non
ricordi, zia Kate, che raffreddore si è presa Gretta? Un
fracasso di finestrini per tutto il tragitto e un vento di
levante che, passato Merrion, ci soffiava dentro. Molto
allegro. Gretta si è presa un terribile raffreddore.»
Zia Kate corrugava la fronte severamente e accennava
con la testa a ogni parola.
«Giustissimo, Gabriel, giustissimo» disse. «La prudenza


non è mai troppa.»
«Quanto a Gretta» disse Gabriel «se la si lasciasse fare lei
andrebbe a casa a piedi nella neve.»
La signora Conroy rise.
«Non gli dare retta, zia Kate» disse. «È veramente uno
spaventoso seccatore, con la sua visiera verde per gli
occhi di Toni la sera e i manubri che gli fa fare, ed Eva
obbligata a mangiare la pappa d'avena. Povera piccola!
Non la può nemmeno vedere!... Oh, ma non indovinerete
mai cosa mi fa portare adesso! »
Scoppiò in una risata squillante e guardò il marito, i cui
occhi ammirati e felici erano andati errando dal suo
vestito al viso e ai capelli. Anche le due zie risero di
cuore, perché la sollecitudine di Gabriel era un loro
vecchio scherzo.
«Galosce!» disse la signora Conroy. «Questa è l'ultima.
Ogni volta che per terra è bagnato devo mettere le
galosce. Persino stasera voleva che me le mettessi, ma
non ho voluto. La prossima cosa che mi comprerà sarà
uno scafandro.»
Gabriel rise nervosamente e si tamburellò la cravatta in
modo rassicurante, mentre zia Kate quasi si piegava in
due, tanto si era divertita allo scherzo. Il sorriso svanì
presto dal viso di zia Julia e gli occhi tristi si volsero al
viso del nipote. Dopo una pausa chiese:
«E cosa sono le galosce, Gabriel?».
«Le galosce, Julia! » esclamò la sorella. «Dio mio, non
sai cosa sono le galosce? Si portano sopra... sopra le
scarpe, Gretta, no?»
«Sì» disse la signora Conroy. «Roba da guttaperca. Ne
abbiamo tutti e due un paio adesso. Gabriel dice che tutti
le portano nel continente.»
«Oh, nel continente» mormorò zia Julia, muovendo la
testa con lentezza.
Gabriel aggrottò le ciglia e disse, come se fosse
leggermente irritato:
«Non c'è niente di molto straordinario, ma Gretta lo
ritiene molto buffo, perché dice che la parola le ricorda i
Chrysty Minstrels».
«Ma dimmi, Gabriel» disse svelta zia Kate, con tatto. «Ti
sei occupato della stanza, naturalmente. Gretta stava
dicendo...»
«Oh, per la stanza tutto bene» replicò Gabriel. «Ne ho
presa una al Gresham.»
«Certo» disse zia Kate «è senz'altro la cosa migliore da
fare. E i bambini, Gretta, non sei preoccupata per loro?»
«Oh, per una sera.» disse la signora Conroy. «In ogni
caso c'è Bessie a sorvegliarli.»
«Certo» disse di nuovo zia Kate. «Che conforto avere una
ragazza come quella, su cui si possa contare! Lily, invece,
non so assolutamente cosa le sia successo in questi ultimi
tempi. Non è più la stessa ragazza.»
Gabriel stava per fare alcune domande alla zia a tale
proposito, ma lei si interruppe d'improvviso per seguire
con lo sguardo la sorella che si era avviata giù per le scale
e allungava il collo sopra la ringhiera.
«Ora, vi chiedo» disse quasi stizzosamente «dove sta
andando Julia? Julia! Julia! Dove stai andando?»
Julia, che era scesa a metà di una rampa, tornò
annunciando mite: «C'è Freddy».


Nello stesso istante un applauso e una rifioritura finale
della pianista annunciarono che il valzer era finito. La
porta del salone venne aperta dall'interno e uscirono
alcune coppie. Zia Kate tirò da parte Gabriel
precipitosamente e gli bisbigliò all'orecchio:
«Sgattaiola giù, Gabriel, da bravo e vedi se sta bene, e
non lo fare salire se è ubriaco. Sono certa che è ubriaco.
Sono certa che lo è.»
Gabriel andò alle scale e ascoltò sopra la ringhiera. Udiva
due persone parlare nella dispensa. Poi riconobbe la risata
di Freddy Malins. Scese le scale facendo rumore.
«È un tale sollievo» disse zia Kate alla signora Conroy
«che Gabriel sia qui. Mi sento sempre più rassicurata
quando è qui... Julia, la signorina Daly e la signorina
Power vorranno bere qualcosa. Grazie per il bellissimo
valzer, signorina Daly. Un magnifico ritmo.»
Un uomo alto dal viso rugoso, con rigidi baffi brizzolati e
la pelle scura, che usciva con la sua dama, disse:
«Possiamo bere qualcosa anche noi, signorina Morkan?».
«Julia» disse zia Kate concisa «ecco qui il signor Browne
e la signorina Furlong. Accompagnali di là, Julia, con la
signorina Daly e la signorina Power.»
«Sono l'uomo che fa per le signore» disse il signor
Browne, increspando le labbra finché i baffi gli si
rizzarono e sorridendo con tutte le sue rughe. «Lo sa,
signorina Morkan, la ragione per cui mi amano tanto è...»
Non finì la frase, ma vedendo che zia Kate non lo
ascoltava, condusse subito le tre signorine nella stanza sul
retro. Il centro della stanza era occupato da due tavole
quadrate poste con le estremità combacianti, e su queste
zia Julia e il guardiano raddrizzavano e lisciavano una
grande tovaglia. Sulla credenza erano schierati piatti e
vassoi, bicchieri e mazzi di coltelli e forchette e cucchiai.
La parte superiore del pianoforte chiuso serviva anch'essa
da credenza per vivande e dolci. Due giovani stavano in
piedi davanti a una credenza più piccola in un angolo,
bevendo birra amara.
Il signor Browne condusse là le sue protette e le invitò
tutte, per scherzo, a bere ponce per signore, caldo, forte e
dolce. Dato che dissero che non prendevano mai niente di
forte, aprì per loro tre bottiglie di limonata. Poi chiese a
uno dei giovani di scostarsi e, impossessandosi della
caraffa, si versò una bella dose di whisky. I giovani lo
osservarono con rispetto mentre beveva un sorso per
prova.
«Che Dio mi aiuti» disse, sorridendo «ordini del dottore.»
Il viso rugoso si spianò in un più ampio sorriso e le tre
signorine risero echeggiando melodiose la facezia,
facendo oscillare i corpi avanti e indietro, con scatti
nervosi delle spalle. La più audace disse:
«Oh, signor Browne, sono sicura che il dottore non le ha
mai ordinato nulla del genere».
Il signor Browne bevve un altro sorso di whisky e disse,
con mimica ambigua:
«Be', vede, io sono la famosa signora Cassidy, di cui si
racconta che abbia detto: "Senti, Mary Grimes, se non lo
prendo, fammelo prendere, perché sento di averne
bisogno"».
Il viso accaldato si era sporto in avanti in modo un po'
troppo confidenziale e lui aveva preso un accento
dublinese volgarissimo, così che le signorine,
istintivamente, accolsero il discorso in silenzio. La


signorina Furlong, una delle allieve di Mary Jane, chiese
alla signorina Daly il nome del grazioso valzer che aveva
suonato; e il signor Browne, vedendosi ignorato, si volse
prontamente ai due giovani, che sembravano apprezzarlo
di più.
Una giovane donna rossa in viso, vestita di viola, entrò
nella stanza, battendo eccitata le mani e gridando:
«Quadriglia! Quadriglia!».
La seguiva alle calcagna zia Kate, gridando:
«Due signori e tre signore, Mary Jane! ».
«Oh, ecco il signor Bergin e il signor Kerrigan» disse
Mary Jane. «Signor Kerrigan, vuole ballare con la
signorina Power? Signorina Furlong, posso trovarle un
cavaliere, il signor Bergin. Oh, siamo proprio a posto
adesso.»
«Tre signore, Mary Jane» disse zia Kate.
I due giovani chiesero alle signorine se potevano avere il
piacere e Mary Jane si volse alla signorina Daly.
«Oh, signorina Daly, lei è veramente troppo buona, dopo
avere suonato gli ultimi due balli, ma veramente stasera
mancano signore.»
«Non mi secca affatto, signorina Morkan.»
«Ma ho un simpatico cavaliere per lei, il signor Bartell
D'Arcy, il tenore. Lo convincerò a cantare più tardi. Tutta
Dublino è pazza di lui.»
«Stupenda voce, stupenda voce! » disse zia Kate.
Dato che il piano aveva cominciato due volte il preludio
per la prima figura, Mary Jane condusse via rapidamente
dalla stanza le sue reclute. Erano appena usciti quando zia
Julia vagò lentamente nella stanza, voltandosi a guardare
indietro qualcosa.
«Che succede, Julia» chiese zia Kate ansiosamente. «Chi
è?»
Julia, che portava una pila di tovaglioli, si volse alla
sorella e disse con semplicità, come se la domanda
l'avesse stupita:
«È solo Freddy, Kate, con Gabriel».
Difatti, proprio dietro di lei si poteva vedere Gabriel
pilotare Freddy Malins attraverso il pianerottolo.
Quest'ultimo, un giovane sulla quarantina, aveva la
statura e la corporatura di Gabriel e spalle molto rotonde.
Il viso era carnoso e pallido, con tocchi di colore solo
sugli spessi lobi pendenti delle orecchie e sulle ampie
pinne del naso. Aveva lineamenti grossolani, un naso
smussato, una fronte convessa e sfuggente, labbra tumide
e sporgenti. Gli occhi dalle palpebre pesanti e i capelli
radi in disordine gli davano un'aria assonnata. Rideva di
cuore in tono acuto di una storia che aveva raccontato a
Gabriel sulle scale e nello stesso tempo si stropicciava le
nocche del pugno sinistro avanti e indietro sull'occhio
sinistro.
«Buonasera, Freddy» disse zia Julia.
Freddy Malins augurò buonasera alle signorine Morkan
cronico della voce, poi, vedendo che il signor Browne gli
sorrideva dalla credenza, attraversò la stanza su gambe
piuttosto traballanti e cominciò a ripetere a bassa voce la
storia che aveva appena raccontato a Gabriel.
«Non sta così male, no?» disse zia Kate a Gabriel.
La faccia di Gabriel era scura, ma si rischiarò
rapidamente e rispose:
«Oh no, si nota appena».


«È proprio un essere terribile! » disse lei. «E la povera
madre gli ha fatto promettere la sera di Capodanno di
astenersi dall'alcool. Ma vieni in salone, Gabriel.»
Prima di lasciare la stanza con Gabriel fece segnali al
signor Browne con occhiate severe e scuotendo l'indice
avanti e indietro per ammonirlo. Il signor Browne annuì
in risposta e, quando fu uscita, disse a Freddy Malins:
«Allora, Teddy, ti riempio un bel bicchiere di limonata
giusto per tirarti su».
Freddy Malins, che si avvicinava all'acme della storia,
respinse impaziente l'offerta con un gesto della mano, ma
il signor Browne, dopo avere richiamato l'attenzione di
Freddy Malins sul disordine dei suoi abiti, riempì e gli
porse un bicchiere colmo di limonata. La mano sinistra di
Freddy Malins accettò il bicchiere meccanicamente, dato
che la destra era occupata a riassettare meccanica l'abito.
Il signor Browne, il cui viso era tornato a raggrinzirsi per
l'allegria, si versò un bicchiere di whisky mentre Freddy
Malins esplodeva, molto prima di avere raggiunto l'acme
della storia, in un bizzarro e acuto riso bronchitico e,
mettendo giù il bicchiere intatto e traboccante,
cominciava a stropicciarsi le nocche del pugno sinistro
avanti e indietro sull'occhio sinistro, ripetendo parole
dell'ultima frase per quanto glielo permetteva il riso
irrefrenabile.
Mentre Mary Jane suonava il suo pezzo da conservatorio,
tutto volate e passaggi difficili, al salone silenzioso,
Gabriel non riusciva ad ascoltare. Gli piaceva la musica,
ma il pezzo che lei suonava non aveva per lui nessuna
melodia e dubitava che ne avesse per gli altri ascoltatori,
sebbene avessero supplicato Mary Jane di suonare
qualcosa. Quattro giovani, che al suono del pianoforte
erano venuti dalla stanza del rinfresco per stare in piedi
sulla soglia, quatti quatti se ne erano andati a due alla
volta dopo pochi minuti. Le sole persone che sembravano
seguire la musica erano la stessa Mary Jane, le cui mani
correvano lungo la tastiera o si sollevavano da essa nelle
pause come quelle di una sacerdotessa in momentanea
imprecazione, e zia Kate che le stava accanto per voltare
la pagina.
Gli occhi di Gabriel, irritati dal pavimento, che scintillava
di cera sotto il pesante lampadario, vagarono alla parete
sopra il pianoforte. Vi era appeso un quadro della scena
del balcone di Romeo e Giulietta e vicino c'era un quadro
dei due principi assassinati nella Torre che zia Julia aveva
ricamato da ragazza con lane rosse, blu e marroni.
Probabilmente nella scuola dove erano andate da ragazze
per un anno era stato insegnato quel genere di lavoro. Sua
madre come regalo di compleanno gli aveva ricamato,
con testine di volpi, un panciotto violaceo di stoffa
marezzata, foderato di raso marrone e con bottoni tondi di
gelso. Era strano che sua madre non avesse avuto alcun
talento musicale, sebbene zia Kate solesse chiamarla il
cervello della famiglia Morkan. Sia lei sia Julia erano
sempre parse un po' orgogliose di quella sorella seria e
matronale. C'era la sua fotografia davanti alla specchiera.
Aveva un libro aperto sulle ginocchia e indicava qualcosa
in esso a Constantine che, vestito alla marinara, era
sdraiato ai suoi piedi. Era lei che aveva scelto i nomi dei
figli, perché era molto sensibile alla dignità della vita
familiare. Grazie a lei, Constantine era ora curato a


Balugina e, grazie a lei, Gabriel si era laureato alla Royal
University. Un'ombra gli passò sul viso mentre ne
ricordava l'imbronciata opposizione al suo matrimonio.
Alcune frasi sprezzanti da lei usate gli bruciavano ancora
nella memoria; una volta aveva detto di Gretta che era
una contadina furba, cosa che non era affatto vera di
Gretta. Era Gretta che l'aveva assistita durante tutta
l'ultima lunga malattia nella loro casa a Monkstown.
Sapeva che Mary Jane doveva essere vicina alla fine del
suo pezzo, perché stava risuonando la melodia iniziale
con volate di scale dopo ogni battuta, e mentre aspettava
la fine il risentimento gli si spense nel cuore. Il pezzo
terminò con un trillo di ottave negli acuti e una profonda
ottava finale nel basso. Un grande applauso salutò Mary
Jane mentre, arrossendo e arrotolando nervosamente lo
spartito, fuggiva dalla stanza. Il battimano più forte
veniva dai quattro giovani sulla soglia che se ne erano
andati al rinfresco al principio del pezzo ma erano tornati
quando il pianoforte si era fermato.
Furono organizzati i lancieri. Gabriel si trovò a essere il
cavaliere della signorina Ivors. Era una giovane donna
loquace, dai modi franchi, con un viso lentigginoso e
occhi marroni sporgenti. Aveva un corpino accollato e
sulla grande spilla fissata davanti al colletto c'erano un
emblema e un motto irlandesi.
Quando ebbero preso posto lei disse d'un tratto: «Ho un
conto da regolare con lei».
«Con me?» disse Gabriel.
Annuì con la testa gravemente.
«Che c'è?» chiese Gabriel, sorridendo della sua aria
solenne.
«Chi è G. C.?» rispose la signorina Ivors, volgendo gli
occhi verso di lui.
Gabriel arrossì e stava per corrugare la fronte, come se
non capisse, quando lei disse schietta:
«Oh, anima innocente! Ho scoperto che scrive per il
Daily Express. Ma non si vergogna?».
«Perché mi dovrei vergognare?» chiese Gabriel, battendo
le palpebre e cercando di sorridere.
«Be', mi vergogno di lei» disse la signorina Ivors con
franchezza. «Dire che scrive per un giornale come quello.
Non la ritenevo un anglofilo.»
Un'espressione perplessa apparve sul viso di Gabriel. Era
vero che scriveva una rubrica letteraria ogni mercoledì
nel Daily Express, per cui era pagato quindici scellini. Ma
questo non lo rendeva certo un anglofilo. I libri che
riceveva per la recensione erano quasi più graditi
dell'irrisorio assegno. Amava tastare le copertine e
sfogliare le pagine dei libri freschi di stampa. Quasi ogni
giorno, quando aveva finito di insegnare al collegio,
vagava lungo i moli dai rivenditori di libri usali, da
Hickey a Bachelor's Walk, da Webb o da Massey ad
Aston's Quay, o da O'Clohissey nel vicolo. Non sapeva
come fare fronte a quell'accusa. Voleva dire che la
letteratura era al di sopra della politica. Ma erano amici
da tanti anni e le loro carriere erano state parallele, prima
all'università e poi come insegnanti: non poteva rischiare
con lei una frase pomposa. Continuò a battere le palpebre
e a cercare di sorridere e mormorò debolmente che non
vedeva niente di politico nello scrivere recensioni di libri.
Quando giunse il loro turno di attraversare era ancora
perplesso e distratto. La signorina Ivors gli prese rapida la


mano con una stretta affettuosa e disse in tono gentile e
amichevole:
«Stavo solo scherzando, naturalmente. Venga,
attraversiamo».
Quando si riunirono lei parlò della questione universitaria
e Gabriel si sentì più a suo agio. Un amico le aveva
mostrato la recensione delle poesie di Browning. Ecco
come aveva scoperto il segreto: ma la recensione le era
piaciuta immensamente. Poi disse d'improvviso:
«Oh, signor Conroy, vuole venire a fare un viaggetto alle
isole Aran quest'estate? Staremo lì un mese intero. Sarà
splendido fuori sull'Atlantico. Dovrebbe venire. Il signor
Clancy viene, e il signor Kilkelly e Kathleen Kearney.
Sarebbe splendido anche per Gretta se venisse. È del
Comacht, no?»
«I suoi» disse Gabriel brusco.
«Ma verrà, vero?» disse la signorina Ivors, posandogli
ansiosamente la mano affettuosa sul braccio.
«Il fatto è» disse Gabriel «che ho appena organizzato di
andare...»
«Andare dove?» chiese la signorina Ivors.
«Be', sa, ogni anno vado a fare un giro in bicicletta con
alcuni amici e così...»
«Ma dove?» chiese la signorina Ivors.
«Be', di solito andiamo in Francia o in Belgio o forse in
Germania» disse Gabriel imbarazzato.
«E perché andate in Francia e in Belgio» disse la
signorina Ivors «invece di vedere la vostra terra?»
«Be'» disse Gabriel «in parte è per tenersi in esercizio
nelle lingue e in parte per cambiare.»
«E non ha la sua di lingua nella quale tenersi in
esercizio...l'irlandese?» chiese la signorina Ivors.
«Be'» disse Gabriel «quanto a questo, sa, l'irlandese non è
la mia lingua.»
I vicini si erano voltati ad ascoltare il
controinterrogatorio. Gabriel lanciò occhiate nervose a
destra e a sinistra e cercò di non perdere il suo buon
umore durante il supplizio, per colpa del quale aveva la
fronte invasa di rossore.
«E non ha la sua di terra da vedere» continuò la signorina
Ivors «di cui non conosce nulla, la sua gente e il suo
paese?»
«Oh, a dirle la verità» ribatté Gabriel d'improvviso «sono
stufo del mio paese, stufo!»
«Come mai?» chiese la signorina Ivors.
Gabriel tacque, perché la sua rispostaccia l'aveva
infiammato.
«Come mai?» ripeté la signorina Ivors.
Dovevano andare insieme a salutare e, dato che non le
aveva risposto, la signorina Ivors disse con calore:
«Naturalmente, non trova risposta».
Gabriel cercò di nascondere l'agitazione prendendo parte
al ballo con grande energia. Ne evitò gli occhi, perché le
aveva visto un'espressione acida in viso. Ma quando si
incontrarono nella lunga catena fu stupito di sentirsi la
mano stretta forte. Lei lo guardò da sotto le ciglia un
istante con aria canzonatoria finché lui non sorrise. Poi,
proprio mentre la catena stava per ricominciare, si alzò in
punta di piedi e gli bisbigliò all'orecchio:


«Anglofilo!».
Finiti i lancieri, Gabriel se ne andò in un angolo appartato
della stanza dove sedeva la madre di Freddy Malins. Era


una vecchia grassa e debole dai capelli bianchi. Aveva
una voce che come quella del figlio sussultava e
balbettava leggermente. Le era stato detto che Freddy era
arrivato e che stava quasi bene. Gabriel le chiese se aveva
fatto una buona traversata. Viveva con la figlia sposata a
Glasgow e veniva a Dublino una volta all'anno. Rispose
placidamente che aveva fatto una magnifica traversata e
che il capitano era stato pieno di attenzioni. Parlò anche
della magnifica casa di sua figlia a Glasgow e di tutti gli
amici che avevano lì. Mentre la lingua di lei continuava a
dilungarsi Gabriel cercò di cacciare dalla mente ogni
ricordo dell'incidente spiacevole con la signorina Ivors.
Naturalmente la ragazza, o donna che fosse, era
un'esaltata, ma ogni cosa a suo tempo. Forse non avrebbe
dovuto risponderle in quel modo. Però non aveva nessun
diritto di chiamarlo anglofilo davanti a tutti, nemmeno
per scherzo. Aveva cercato di renderlo ridicolo davanti a
tutti, sottoponendolo a domande imbarazzanti e
fissandolo con quegli occhi da coniglio.
Vide la moglie farsi strada verso di lui attraverso le
coppie volteggianti nel valzer. Quando lo raggiunse gli
disse all'orecchio:
«Gabriel, zia Kate vuole sapere se vuoi trinciare l'oca
come al solito. La signorina Daly taglierà il prosciutto e
io mi occuperò del dolce».
«Va bene» disse Gabriel.
«Manderà avanti i più giovani appena finito questo valzer
così avremo la tavola per noi.»
«Stavi ballando?» chiese Gabriel.
«Certo. Non mi hai visto? Perché ti sei bisticciato con
Molly Ivors?»
«Non mi sono bisticciato. Perché? Te l'ha detto lei?»
«Qualcosa del genere. Sto cercando di convincere quel
signor D'Arcy a cantare. È molto presuntuoso, secondo
me.»
«Non c'è stato nessun bisticcio» disse Gabriel di
malumore «solo voleva che andassi a fare un viaggio
nell'Irlanda occidentale e io ho detto di no.»
La moglie giunse le mani eccitata e fece un saltino.
«Oh, sì, Gabriel» gridò. «Amerei tanto rivedere Galway.»
«Puoi andare se ti fa piacere» disse Gabriel freddamente.
Lo guardò un istante, poi si volse alla signorina Malins e
disse:
«Che bel marito, signora Malins».
Mentre lei si rifaceva strada attraverso la stanza, la
signora Malins, senza fare caso all'interruzione,
continuava a raccontare a Gabriel che magnifici posti
c'erano in Scozia e che magnifico paesaggio. Suo genero
le portava ogni anno ai laghi e andavano a pescare. Suo
genero era un meraviglioso pescatore. Un giorno aveva
preso un magnifico pesce e l'uomo dell'albergo l'aveva
cucinato per pranzo.
Gabriel a malapena udiva quello che diceva. Ora che si
stava avvicinando la cena cominciò a ripensare al
discorso e alla citazione. Quando vide Freddy Malins
attraversare la stanza per salutare la madre, Gabriel gli
lasciò libera la sedia e si ritirò nel vano della finestra. La
stanza si era già vuotata e da quella sul retro veniva
l'acciottolio di piatti e coltelli. Quelli che erano rimasti
nel salone sembravano stanchi di ballare e conversavano
tranquillamente in gruppetti. Le dita calde e tremanti di
Gabriel tamburellavano sul vetro freddo della finestra.


Come doveva essere fresco fuori! Come sarebbe stato
piacevole uscire da solo a camminare, prima lungo il
fiume e poi attraverso il parco! Con la neve posata sui
rami degli alberi e a forma di cappuccio luminoso sulla
cima del monumento a Wellington. Quanto più piacevole
sarebbe stato lì che a tavola!
Ricapitolò i punti salienti del discorso: ospitalità
irlandese, tristi ricordi, le tre Grazie, Paride, la citazione
di Browning.
Ripeté fra sé una frase che aveva scritto nella recensione:
«Si sente di ascoltare una musica che il pensiero
tormenta». La signorina Ivors aveva lodato la recensione.
Era sincera? Aveva davvero una vita propria dietro tutta
quella propaganda? Non c'era mai stato rancore tra loro
fino a quella sera. Lo snervava pensare che sarebbe stata
a tavola, guardandolo, mentre parlava, con quegli occhi
critici e canzonatori.
Forse non le sarebbe dispiaciuto vederlo fallire nel
discorso. Gli venne in mente un'idea che gli dette
coraggio. Avrebbe detto, alludendo a zia Kate e a zia
Julia: «Signore e signori, la generazione che ora fra noi è
sul declino può avere avuto i suoi difetti, ma secondo me
aveva certe qualità di ospitalità, di umorismo, di umanità,
che mi sembrano mancare alla nuova e serissima e
supercolta generazione che sta crescendo intorno a noi».
Molto bene: e una per la signorina Ivors. Che gli
importava che le zie fossero soltanto due vecchie
ignoranti?
La sua attenzione venne attratta da un mormorio nella
stanza. Il signor Browne avanzava dalla porta, scortando
galantemente zia Julia, che si appoggiava al suo braccio,
sorridendo e chinando la testa. Anche una salve irregolare
di applausi la scortò fino al pianoforte, poi, mentre Mary
Jane si sedeva sullo sgabello e zia Julia, non più
sorridente, faceva un mezzo giro su se stessa così da
proiettare meglio la voce nella stanza, cessò
gradatamente. Gabriel riconobbe il preludio. Era quello di
una vecchia canzone di zia Julia: «Abbigliata per le
nozze». La voce, forte e chiara di tono, attaccò con
grande brio le volate che abbelliscono l'aria e, sebbene
cantasse molto rapidamente, non omise nemmeno la più
piccola nota di passaggio. Chi seguiva la voce, senza
guardare il viso della cantante, poteva sentire e
condividere l'eccitazione di un volo veloce e sicuro.
Gabriel applaudì forte con tutti gli altri alla fine della
canzone, e dalla tavola invisibile della cena giunse un
forte applauso. Suonava così sincero che un po' di colore
si fece strada a fatica nel viso di zia Julia mentre si
piegava a ricollocare sul leggio il vecchio volume di
canzoni rilegato in pelle con le sue iniziali sulla
copertina. Freddy Malins, che aveva ascoltato con la testa
appollaiata di lato per udirla meglio, applaudiva ancora
quando tutti gli altri avevano smesso e parlava
animatamente alla madre, che accennava lenta e grave
con la testa assentendo. Alla fine, quando non poté più
applaudire, si alzò d'improvviso e si affrettò per la stanza
verso zia Julia la cui mano afferrò tenendola in entrambe
le sue, stringendola quando gli mancavano le parole o il
sussulto della voce lo sopraffaceva. «Stavo giusto
dicendo a mia madre» disse «che non ti ho mai sentito
cantare così bene, mai. No, non ho mai sentito la tua voce
bella come stasera. Pensa! Ci credi? È la verità. Parola


mia d'onore è la verità. Non ho mai sentito la tua voce
tanto fresca e tanto... chiara e fresca, mai.»
Zia Julia fece un grande sorriso e mormorò qualcosa sui
complimenti mentre liberava la mano dalla stretta. Il
signor Browne tese la mano aperta verso di lei e disse a
quelli che gli erano vicini come un presentatore che
faccia conoscere un prodigio al pubblico:
«La signorina Julia Morkan, mia ultima scoperta! ».
Rideva proprio di cuore quando Freddy Malins gli si
volse e disse:
«Be', Browne, sul serio potresti fare scoperte peggiori.
Dico soltanto che non l'ho mai sentita cantare così bene
da quando vengo qui. E questa è la pura verità».
«Nemmeno io» disse il signor Browne. «Secondo me la
sua voce è molto migliorata.»
Zia Julia scrollò le spalle e disse con mite orgoglio:
«Trent'anni fa non avevo una brutta voce tutto sommato».
«Ho detto tante volte a Julia» disse zia Kate con enfasi
«che era semplicemente sprecata in quel coro. Ma non ha
mai voluto ascoltarmi.»
Si voltò come per appellarsi al buon senso degli altri
contro una bambina refrattaria, mentre zia Julia guardava
fisso dinanzi a sé e un vago sorriso di reminiscenza le
giocava sul viso.
«No» continuò zia Kate «non voleva ascoltare né farsi
guidare da nessuno, lavorando come una schiava in quel
coro notte e giorno, notte e giorno. Alle sei la mattina di
Natale! E tutto per che cosa?»
«Be', non è per l'onore di Dio, zia Kate?» chiese Mary
Jane, rigirandosi sullo sgabello del pianoforte e
sorridendo.
Zia Kate si volse ferocemente alla nipote e disse:
«So tutto sull'onore di Dio, Mary Jane, ma ritengo che
non sia affatto onorevole per il papa scacciare via dai cori
le donne che ci hanno lavorato come schiave tutta la vita
e a loro insaputa metterci dei ragazzini presuntuosi.
Immagino che sia per il bene della Chiesa, se lo fa il
papa. Ma non è giusto, Mary Jane, e non è bello».
A poco a poco era andata su tutte le furie e avrebbe
continuato in difesa della sorella, perché era un
argomento cocente per lei, ma Mary Jane, vedendo che
erano tornati tutti i ballerini, intervenne pacificamente.
«Su, zia Kate stai dando scandalo al signor Browne, che
appartiene all'altra fede.»
Zia Kate si volse al signor Browne, che sorrideva di
questo accenno alla sua religione, e disse in fretta:
«Oh, non metto in dubbio che il papa abbia ragione. Sono
soltanto una stupida vecchia e non mi permetterei di fare
una cosa simile. Ma esistono cose come la comune
cortesia quotidiana e la gratitudine. E se fossi io al posto
di Julia direi in faccia a quel padre Healey chiaro e
tondo...».
«E per di più, zia Kate» disse Mary Jane «siamo
veramente tutti affamati e gli affamati sono molto
irascibili.»
«E gli assetati sono pure irascibili» aggiunse il signor
Browne.
«Perciò faremmo meglio ad andare a cena» disse Mary
Jane «e a finire la discussione dopo.»
Sul pianerottolo fuori del salone Gabriel trovò la moglie e
Mary Jane che cercavano di convincere la signorina Ivors
a rimanere per cena. Ma la signorina Ivors, che si era


messa il cappello e stava abbottonandosi il mantello, non
voleva rimanere. Non aveva per niente fame e si era già
trattenuta troppo a lungo.
«Ma soltanto per dieci minuti, Molly» disse la signora
Conroy. «Non farai tardi.»
«Per mangiucchiare una cosetta» disse Mary Jane «dopo
tutti quei balli.»
«Non posso proprio» disse la signorina Ivors.
«Temo che non ti sei divertita affatto» disse Mary Jane
disperata.
«Tantissimo, te l'assicuro» disse la signorina Ivors «ma
dovete veramente lasciarmi scappare adesso.»
«Ma come fai a tornare a casa?» chiese la signora
Conroy.
«Oh, sono solo due passi sul molo.»
Gabriel esitò un istante e disse:
«Mi permetta, signorina Ivors, di accompagnarla a casa
se è veramente costretta ad andarsene».
Ma la signorina Ivors si allontanò.
«Non voglio neanche sentirne parlare» gridò. «Per
l'amore di Dio andate a cena e non vi occupate di me.
Sono capacissima di badare a me stessa.»
«Be', sei una buffa ragazza, Molly» disse la signora
Conroy con franchezza.
«Beannacht libh!» gridò la signorina Ivors, ridendo,
mentre correva già per le scale.
Mary Jane la seguì con lo sguardo, con un'espressione
pensosa e perplessa in viso, mentre la signora Conroy si
sporgeva dalla ringhiera per sentire la porta d'ingresso.
Gabriel si chiese se era lui la causa dell'improvvisa
partenza. Ma non sembrava di cattivo umore... era andata
via ridendo. Fissò con sguardo inespressivo la tromba
delle scale.
In quell'istante zia Kate uscì trotterellando dalla stanza da
pranzo, quasi torcendosi le mani dalla disperazione.
«Dov'è Gabriel?» gridò. «Dove si è cacciato Gabriel?
Sono tutti là dentro che aspettano, è tutto pronto, e
nessuno che trinci l'oca! »
«Eccomi qua, zia Kate!» gridò Gabriel, con improvvisa
animazione «pronto a trinciare uno stormo d'oche, se è
necessario.»
A un'estremità della tavola c'era una grassa oca scura e
all'altra estremità, su uno strato di carta arricciata
cosparso di ramoscelli di prezzemolo, c'era un grande
prosciutto, a cui era stata tolta la cotenna, ricoperto di
crosticine di pane, con una bella gala di carta increspata
intorno all'osso e con accanto un grosso pezzo di manzo
aromatizzato. Tra queste estremità rivali correvano file
parallele di altre portate: due piccole coppe di gelatina,
rossa e gialla; un vassoio piatto pieno di blocchi di
blancmange e di marmellata rossa, un grande piatto
verde a forma di foglia con un manico a forma di gambo,
sul quale c'erano grappoli di uva passa violacea e
mandorle sbucciate, un piatto identico sul quale c'era un
solido rettangolo di fichi di Smirne, un piatto di crema
coperta di noce moscata grattugiata, una piccola ciotola
piena di cioccolatini e di caramelle avvolti in carte d'oro e
d'argento e un vaso di vetro nel quale si ergevano alti
gambi di sedano. Nel centro della tavola, come sentinelle
di una fruttiera che sosteneva una piramide di arance e di


mele americane, c'erano due tozze caraffe antiquate di
vetro sfaccettato, una contenente porto e l'altra sherry
scuro. Sul pianoforte chiuso c'era in attesa un dolce su un
enorme piatto giallo, con dietro tre drappelli di bottiglie
di birra scura e chiara e di minerali allineati secondo i
colori delle uniformi, i primi due neri, con etichette
marroni e rosse, il terzo e più piccolo drappello bianco,
con bandoliere verdi a tracolla.
Gabriel si sedette baldanzoso a capotavola e, dopo avere
esaminato il filo del trinciante immerse saldamente il
forchettone nell'oca. Si sentiva proprio a suo agio adesso,
perché era un esperto trinciatore e niente gli piaceva di
più che trovarsi a capo di una tavola bene imbandita.
«Signorina Furlong, cosa le mando?» chiese. «Un'ala o
una fetta di petto?»
«Solo una fettina di petto.»
«Signorina Higgins, e per lei?»
«Oh, un pezzo qualsiasi, signor Conroy.»
Mentre Gabriel e la signorina Daly si scambiavano piatti
d'oca e piatti di prosciutto e manzo aromatizzato, Lily
andava da un ospite all'altro con un vassoio di patate
calde e farinose avvolte in una salvietta bianca. Era
un'idea di Mary Jane che aveva anche suggerito una salsa
di mele per l'oca, ma zia Kate aveva detto che la semplice
oca arrosto senza nessuna salsa di mele era sempre stata
fin troppo buona per lei e che sperava di non doverne mai
mangiare di peggio. Mary Jane serviva le sue allieve e
badava a che avessero i pezzi migliori e zia Kate e zia
Julia aprivano e portavano dal pianoforte bottiglie di birra
chiara e scura per i signori e bottiglie di minerale per le
signore. C'era moltissima confusione, risa e rumore, il
rumore di ordini e contrordini, di coltelli e forchette, di
turaccioli e tappi di vetro. Gabriel, senza servirsi,
cominciò a trinciare le seconde porzioni non appena ebbe
finito il primo giro. Tutti protestarono rumorosamente,
così che venne a un compromesso bevendo un lungo
sorso di birra scura, perché si era accaldato trinciando.
Mary Jane si sedette tranquillamente a mangiare, ma zia
Kate e zia Julia ancora trotterellavano intorno alla tavola,
standosi alle calcagna, intralciandosi l'un l'altra e dandosi
a vicenda ordini a cui non facevano caso. Il signor
Browne le pregò di sedersi e di mangiare e altrettanto
fece Gabriel, ma loro dissero che c'era tutto il tempo, così
che, alla fine, Freddy Malins si alzò in piedi e catturando
zia Kate, la fece cadere di peso sulla sua sedia fra l'ilarità
generale.
Quando tutti furono ben serviti Gabriel disse, sorridendo:
«Ora, se qualcuno vuole, come si dice volgarmente,
rimpinzarsi ancora, che parli».
Un coro di voci lo invitò a cominciare la sua di cena e
Lily si presentò con tre patate che gli aveva tenute in
serbo.
«Benissimo» disse Gabriel amabilmente, mentre beveva
un altro sorso preparatorio «dimenticate per favore la mia
esistenza, signore e signori, per qualche minuto.»
Si mise a mangiare e non prese parte alla conversazione
con la quale la tavolata coprì il rumore di Lily che
toglieva i piatti. L'argomento era la compagnia d'opera
allora al Theatre Royal. Il signor Bartell D'Arcy, il tenore,
un giovane dalla carnagione scura con un elegante paio di
baffi, lodava molto il primo contralto della compagnia,
ma la signorina Furlong ne riteneva la recitazione


piuttosto volgare. Freddy Malins disse che c'era un capo
tribù negro che cantava nella seconda parte della
pantomima al Gaiety il quale aveva una delle più belle
voci di tenore che lui avesse mai sentito.
«L'ha sentito?» chiese al signor Bartell D'Arcy attraverso
la tavola.
«No» rispose il signor Bartell D'Arcy con noncuranza.
«Perché» spiegò Freddy Malins «sarei proprio curioso di
sentire il suo parere. Io ritengo che abbia una splendida
voce.»
«Ci vuole Teddy per scoprire le cose veramente buone»
disse il signor Browne familiarmente alla tavolata.
«E perché non potrebbe avere anche lui una voce?»
chiese Freddy Malins brusco. «Perché è soltanto un
negro?»
Nessuno rispose alla domanda e Mary Jane ricondusse la
tavolata all'opera legittima. Una delle sue allieve le aveva
dato un biglietto gratuito per Mignon. Naturalmente era
molto bella, disse, ma l'aveva fatta pensare alla povera
Georgina Burns. Il signor Browne poteva tornare ancora
più indietro nel tempo, alle vecchie compagnie italiane
che venivano a Dublino... Tietjens, Ilma de Murzka,
Campanini, il grande Trebelli, Giuglini, Ravelli,
Aramburo. Erano tempi, disse, in cui c'era da sentire a
Dublino qualcosa che somigliava al canto. Raccontò
anche che il loggione del vecchio Royal era gremito sera
dopo sera, che una sera un tenore italiano aveva cantato
cinque bis di «Fate che cada come un soldato»,
mettendoci un do di petto ogni volta, e che i ragazzi del
loggione talvolta nel loro entusiasmo staccavano i cavalli
dalla carrozza di qualche grande prima donna e la
trascinavano per le strade fino all'albergo. Come mai
adesso non si davano più le grandi opere di un tempo,
chiese, Dinorah, Lucrezia Borgia? Perché non riuscivano
a trovare voci che le cantassero: ecco perché.
«Oh, be'» disse il signor Bartell D'Arcy «credo che oggi
ci siano cantanti altrettanto bravi di quelli di allora.»
«Dove sono?» chiese il signor Browne in tono di sfida.
«A Londra, a Parigi, a Milano» disse il signor Bartell
D'Arcy con calore. «Penso che Caruso, per esempio, sia
altrettanto bravo, se non più bravo di uno qualsiasi di
quelli da lei nominati.»
«Forse» disse il signor Browne. «Ma mi permetta di dirle
che nutro forti dubbi.»
«Oh, darei qualsiasi cosa per sentire Caruso cantare»
disse Mary Jane.
«Per me» disse zia Kate, che era stata intenta a spolpare
un osso «c'era un solo tenore. Che mi piacesse, voglio
dire. Ma penso che nessuno di voi ne abbia mai sentito
parlare..»
«Chi era, signorina Morkan?» chiese il signor Bartell
D'Arcy cortesemente.
«Si chiamava» disse zia Kate «Parkinson. L'ho sentito
quando era nel suo fulgore e ritengo che allora avesse la
voce tenorile più pura che sia mai stata messa in gola a un
uomo.»
«Strano» disse il signor Bartell D'Arcy. «Non ne ho mai
nemmeno sentito parlare.»
«Sì, sì, la signorina Morkan ha ragione» disse il signor
Browne. «Ricordo di avere sentito il vecchio Parkinson,
ma è troppo indietro nel tempo per me.»
«Uno stupendo, puro, soave, caldo tenore inglese» disse


zia Kate con entusiasmo.
Dato che Gabriel aveva terminato, l'enorme dolce venne
trasferito sulla tavola. L'acciottolio di forchette e cucchiai
ricominciò. La moglie di Gabriel distribuì cucchiaiate di
dolce e fece circolare i piatti per la tavola. A mezza strada
erano fermati da Mary Jane, che li riempiva di gelatina di
lampone o di arancia oppure di blancmange e marmellata.
Il dolce era opera di zia Julia, che ricevette lodi da tutti.
Lei diceva che non era abbastanza bruno.
«Be', spero, signorina Morkan» disse il signor Browne
«di essere abbastanza bruno per lei perché, sa, sono tutto
bruno.»
Tutti i signori, tranne Gabriel, mangiarono un po' di dolce
per cortesia verso zia Julia. Dato che Gabriel non
mangiava mai dolci gli era stato lasciato il sedano. Anche
Freddy Malins prese un gambo di sedano e lo mangiò con
il dolce. Gli era stato detto che il sedano era ottimo per il
sangue e proprio allora era in cura da un dottore. La
signora Malins, che era stata in silenzio durante tutta la
cena, disse che il figlio sarebbe andato a Mount Melleray
fra un settimana circa. La tavolata parlò allora di Mount
Melleray, di come vi era tonificante l'aria, di come erano
ospitali i monaci e di come non chiedessero mai un penny
ai loro ospiti.
«E volete dire» chiese il signor Browne incredulo «che un
tizio può andarsene lì ad alloggiare come se fosse un
albergo e vivere nel lusso per poi venirsene via senza
pagare nulla?»


«Oh, la maggior parte della gente lascia una donazione al
monastero quando parte» disse Mary Jane.
«Vorrei che avessimo un'istituzione del genere nella
nostra Chiesa» disse candidamente il signor Browne.
Era stupito di udire che i monaci non parlavano mai, si
alzavano alle due del mattino e dormivano nelle loro
bare. Chiese perché lo facessero.
«È la regola dell'ordine» disse zia Kate fermamente.
«Sì, ma perché?» chiese il signor Browne.
Zia Kate ripeté che era la regola, ecco tutto. Il signor
Browne sembrava ancora non capire. Freddy Malins gli
spiegò, come meglio poteva, che i monaci cercavano di
compensare per i peccati commessi da tutti i peccatori del
mondo. La spiegazione non era molto chiara, perché il
signor Browne sogghignò e disse:
«L'idea mi piace moltissimo, ma un comodo letto non
andrebbe altrettanto bene di una bara?».
«La bara» disse Mary Jane «serve per ricordare loro la
fine ultima.»
Dato che l'argomento era diventato lugubre venne
seppellito in un silenzio della tavolata, durante il quale si
poté udire la signora Malins dire al suo vicino con un
bisbiglio indistinto:
«Sono uomini molto buoni, i monaci, uomini molto pii».
L'uva passa e le mandorle i fichi le mele le arance i
cioccolatini e le caramelle vennero ora fatti circolare per
la tavola, e zia Julia invitò tutti gli ospiti a prendere del
porto o dello sherry. Dapprima il signor Bartell D'Arcy li
rifiutò entrambi, ma uno dei vicini gli dette una gomitata
e gli sussurrò qualcosa, al che permise che il bicchiere gli
venisse riempito. A mano a mano che venivano riempiti


gli ultimi bicchieri cessò ogni conversazione. Seguì una
pausa, rotta soltanto dal rumore del vino e dalle sedie
scostate. Le signorine Morkan, tutte e tre, abbassarono lo
sguardo sulla tovaglia. Qualcuno tossì una o due volte,
poi alcuni signori dettero piano colpetti sulla tavola a
indicare silenzio. Il silenzio venne e Gabriel spinse
indietro la sedia e si alzò in piedi.
I colpetti divennero immediatamente più forti in segno di
incoraggiamento e poi cessarono del tutto. Gabriel
appoggiò le dieci dita tremanti sulla tovaglia e sorrise
nervosamente alla compagnia. Incontrando una fila di visi
alzati sollevò gli occhi al lampadario. Il pianoforte
suonava un valzer e udiva le gonne sfiorare la porta del
salone. C'era gente, forse, in piedi nella neve fuori sul
molo, che alzava lo sguardo alle finestre illuminate e
ascoltava la musica del valzer. L'aria lì era pura. In
lontananza si stendeva il parco, dove gli alberi erano
appesantiti dalla neve. Il monumento a Wellington aveva
un cappuccio scintillante di neve che mandava lampi di
luce verso occidente sopra il bianco campo di Fifteen
Acres.
Cominciò:
«Signore e signori,
Mi è toccato in sorte stasera, come negli anni passati, di
adempiere un compito molto piacevole, ma un compito
per il quale temo che le mie povere capacità di oratore
siano del tutto insufficienti».
«No, no!» disse il signor Browne.
«Ma, comunque sia, stasera posso solo chiedervi di tenere
conto della buona volontà e di concedermi la vostra
attenzione per pochi attimi mentre tenterò di esprimervi
quali sono i miei sentimenti in questa occasione.
Signore e signori, non è la prima volta che siamo riuniti
sotto questo tetto ospitale, intorno a questo desco
ospitale. Non è la prima volta che siamo stati i beneficiari
(o forse, dovrei dire, le vittime) dell'ospitalità di certe
buone signore.»
Fece un gesto circolare nell'aria con il braccio e si
interruppe. Tutti risero o sorrisero a zia Kate a zia Julia e
a Mary Jane, che tutte si fecero rosse dal piacere. Gabriel
continuò con più audacia:
«Ogni anno che passa sento con maggiore forza che il
nostro paese non ha tradizione che gli faccia tanto onore e
che dovrebbe proteggere così gelosamente come quella
della sua ospitalità. È una tradizione senza eguale per
quanto ne abbia esperienza (e sono stato in non pochi
posti all'estero) fra le nazioni moderne. Alcuni, forse,
diranno che è un nostro difetto più che qualcosa di cui ci
si debba vantare. Ma ammesso anche questo è, a mio
parere, un difetto principesco, che spero venga a lungo
coltivato fra noi. Di una cosa, almeno, sono sicuro.
Finché questo tetto darà riparo alle buone signore
suddette (e mi auguro con tutto il cuore che sia per molti
e molti lunghi anni a venire) la tradizione di sincera
cordiale cortese ospitalità irlandese, che i nostri antenati
ci hanno trasmessa e che dobbiamo trasmettere ai nostri
discendenti, è ancora viva fra noi».
Un cordiale mormorio di approvazione corse per la
tavola. Come un lampo attraversò la mente di Gabriel il
pensiero che la signorina Ivors non c'era e se ne era
andata scortesemente, e disse fiducioso:
«Signore e signori,


In mezzo a noi sta crescendo una generazione nuova, una
generazione mossa da nuove idee e da nuovi principi. È
seria e piena di entusiasmo per tali nuove idee e il suo
entusiasmo, anche quando è male indirizzato, è, io credo,
in complesso sincero. Ma viviamo in un'età scettica e, mi
si conceda di dire, che il pensiero tormenta: e talvolta
temo che a questa nuova generazione, colta o super-colta
com'è, mancheranno quelle qualità di umanità, ospitalità,
di gentile umorismo che erano proprie dei vecchi tempi.
Ascoltando stasera i nomi di tutti quei grandi cantanti del
passato mi sembrava, devo confessarlo, di vivere in
un'epoca meno splendida. Quei tempi possono, senza
esagerazione, essere definiti splendidi: e se sono
irrevocabili, speriamo, almeno, che in riunioni come
questa ne parleremo ancora con orgoglio e affetto, che
conserveremo ancora nei nostri cuori il ricordo di quei
grandi scomparsi la cui fama il mondo non lascerà morire
volentieri».
«Udite, udite!» disse forte il signor Browne.
«Eppure» continuò Gabriel, mentre la voce gli si
abbassava a un'intonazione più sommessa «ci sono
sempre in riunioni come questa pensieri più tristi che ci si
ripresentano alla mente: pensieri del passato, della
gioventù, di cambiamenti, di volti assenti di cui sentiamo
la mancanza qui stasera. Il nostro cammino nella vita è
cosparso di tanti ricordi tristi del genere: e se dovessimo
rimuginarli sempre non troveremmo la forza di
continuare coraggiosamente la nostra opera fra i vivi.
Tutti noi abbiamo doveri vitali e affetti vitali che esigono,
ed esigono giustamente, i nostri strenui sforzi.
Pertanto, non indugerò sul passato. Non permetterò che
meste considerazioni morali ci importunino stasera.
Siamo qui riuniti per un breve istante lontani dal
trambusto e dall'affanno del nostro trantran quotidiano. Ci
siamo incontrati qui come amici, nello spirito di una
buona amicizia, come colleghi, anche entro un certo
limite, nel vero spirito della camaraderie, e come ospiti
di (come le chiamerò?) le tre Grazie del mondo musicale
di Dublino.»
La tavolata a questa allusione scoppiò in applausi e risa.
Zia Julia chiese invano a turno a ognuno dei vicini di
dirle cosa aveva detto Gabriel.
«Dice che siamo le tre Grazie, zia Julia» disse Mary Jane.
Zia Julia non capì, ma alzò lo sguardo, sorridendo, verso
Gabriel, che continuò nella stessa vena:
«Signore e signori,
Non tenterò stasera di interpretare il ruolo che Paride
interpretò in altra occasione. Non tenterò di scegliere fra
loro. Il compito sarebbe odioso e superiore alle mie
povere forze. Perché quando le osservo a turno, che sia la
nostra padrona di casa numero uno, il cui buon cuore, il
cui cuore troppo buono, è diventato proverbiale fra tutti
coloro che la conoscono; o la sorella, che sembra dotata
di una gioventù perenne e il cui canto è stato per noi tutti
stasera una sorpresa e una rivelazione; oppure, ultima ma
non da meno, quando considero la nostra padrona di casa
più giovane, piena di talento, allegra, infaticabile
lavoratrice e la migliore delle nipoti, confesso, signore e
signori, che non so a quale di loro dovrei aggiudicare il
premio».
Gabriel abbassò lo sguardo sulle zie e, vedendo il largo
sorriso sul viso di zia Julia e le lacrime negli occhi di zia


Kate, si affrettò a finire. Alzò cavallerescamente il
bicchiere di porto, mentre ognuno della compagnia
toccava con le dita il bicchiere in attesa e disse forte:
«Facciamo un brindisi a tutte e tre insieme. Beviamo alla
loro salute, ricchezza, lunga vita, felicità e prosperità e
che possano continuare a lungo a mantenere la magnifica
posizione che si sono conquistate da sole
professionalmente e la posizione di onore e di affetto nei
nostri cuori».
Tutti gli ospiti si alzarono in piedi, con i bicchieri in
mano e, voltandosi verso le tre signore sedute, cantarono
all'unisono, con il signor Browne al comando:


Perché son persone allegre,
perché son persone allegre,
perché son persone allegre,
nessun lo può negar.


Zia Kate si serviva apertamente del fazzoletto e persino
zia Julia sembrava commossa. Freddy Malins batteva il
tempo con la forchetta da dolce e i cantanti si voltavano
l'uno verso l'altro, come in melodioso colloquio, mentre
cantavano con enfasi:


Se il ver non vuoi falsar,
se il ver non vuoi falsar.


Poi, voltandosi di nuovo verso le padrone di casa,
cantavano:


Perché son persone allegre,
perché son persone allegre,
perché son persone allegre,
nessun lo può negar.


L'acclamazione che seguì venne raccolta al di là della
porta della stanza da pranzo da molti degli altri ospiti e
rinnovata ripetutamente, con Freddy Malins che fungeva
da direttore tenendo alta la forchetta.
La pungente aria mattutina entrò nell'ingresso dove
stavano in piedi, tanto che zia Kate disse: «Chiuda la
porta, uno di voi. La signora Malins morirà di freddo».
«C'è Browne là fuori, zia Kate» disse Mary Jane.
«Browne è dappertutto» disse zia Kate, abbassando la
voce. Mary Jane rise del tono.
«Veramente» disse maliziosa «è pieno di attenzioni.»
«Si è installato qui come il gas» disse zia Kate nello
stesso tono «durante tutte le feste di Natale.»
Rise lei stessa questa volta bonariamente e poi aggiunse
rapida: «Ma digli di entrare, Mary Jane, e di chiudere la
porta. Speriamo in Dio che non mi abbia sentito».
In quell'istante la porta d'ingresso venne aperta e il signor
Browne entrò dalla soglia, ridendo a crepapelle.
Indossava un lungo cappotto verde con polsini e bavero
di finto astracan e in testa aveva un berretto ovale di
pelliccia. Indicò il molo coperto di neve da dove
giungeva il suono di un fischio acuto e prolungato.
«Teddy farà venire tutte le vetture di Dublino» disse.
Gabriel avanzò dalla piccola dispensa dietro l'office,
infilandosi a fatica il cappotto e, esaminando l'ingresso,
disse:
«Gretta non è scesa ancora?».
«Si sta mettendo la sua roba, Gabriel» disse zia Kate.


«Chi suona lassù?» chiese Gabriel. «Nessuno. Sono tutti
andati via.»
«Oh no, zia Kate» disse Mary Jane «Bartell D'Arcy e la
signorina O'Callaghan non sono ancora andati via.»
«Qualcuno si sta trastullando al pianoforte, comunque»
disse Gabriel.
Mary Jane guardò Gabriel e il signor Browne e disse con
un brivido: «Guardare voi due signori imbacuccati in quel
modo mi fa venire freddo. Non vorrei affrontare il vostro
viaggio verso casa a quest'ora». «In questo momento non
c'è nulla che desideri tanto» disse il signor Browne con
fare risoluto «quanto una bella camminata in campagna o
una corsa in carrozza con un formidabile trottatore fra le
stanghe.»
«Avevamo un cavallo e un calesse molto buoni a casa»
disse zia Julia, tristemente.
«L'indimenticabile Johnny» disse Mary Jane, ridendo.
Anche zia Kate e Gabriel risero. «Perché, cos'aveva di
straordinario Johnny?» chiese il signor Browne.
«Il defunto e compianto Patrick Morkan, nostro nonno,
cioè» spiegò Gabriel «comunemente noto nei suoi ultimi
anni come il vecchio signore, era un bolli-colla.»
«Oh, avanti Gabriel» disse zia Kate, ridendo «aveva un
mulino di amido.»
«Be', colla o amido» disse Gabriel «il vecchio signore
aveva un cavallo chiamato Johnny. E Johnny lavorava nel
mulino del vecchio signore, girando e girando in modo da
fare funzionare il mulino. Sta bene; ma ora viene il
tragico su Johnny. Un bel giorno il vecchio signore pensò
che gli sarebbe piaciuto andare in carrozza con la buona
società a una rivista militare nel parco.»
«Che Dio abbia misericordia dell'anima sua» disse zia
Kate, compassionevole.
«Amen» disse Gabriel. «Così il vecchio signore, come ho
detto, bardò Johnny e si mise il suo più bel cilindro e il
suo più bel colletto duro e uscì in pompa magna dalla
magione avita che era, credo, vicina a Back Lane.»
Tutti risero, persino la signora Malins, del modo di
raccontare di Gabriel e zia Kate disse:
«Oh, avanti, Gabriel, non abitava a Back Lane in realtà.
C'era solo il mulino lì».
«Dalla magione dei suoi avi» continuò Gabriel «uscì con
Johnny. E tutto procedette magnificamente finché Johnny
non giunse in vista della statua di re Billy: sia che si
innamorasse del cavallo su cui re Billy è seduto sia che
pensasse di essere tornato di nuovo al mulino, fatto sta
che cominciò a girare intorno alla statua.»
Gabriel si mise a girare in cerchio per l'ingresso in
galosce fra le risate degli altri.
«Girava e girava» disse Gabriel «e il vecchio signore, che
era un vecchio signore molto pomposo, era estremamente
indignato. "Avanti, signore! Ma cosa sta facendo,
signore? Comportamento dei più singolari! Non riesco a
capire questo cavallo!"»
Gli scrosci di risa che seguirono l'imitazione dell'episodio
fatta da Gabriel vennero interrotti da un bussare sonoro
alla porta d'ingresso. Mary Jane corse ad aprirla e fece
entrare Freddy Malins. Freddy Malins, con il cappello
bene indietro sulla testa e le spalle ingobbite dal freddo,
ansimava e sbuffava dopo le sue fatiche.
«Sono riuscito a trovare solo una vettura» disse.
«Oh, ne troveremo un'altra lungo il molo» disse Gabriel.


«Sì» disse zia Kate. «È meglio che la signora Malins non
stia in piedi nella corrente d'aria.»
La signora Malins venne aiutata a scendere i gradini della
facciata dal figlio e dal signor Browne e, dopo molte
manovre, issata sulla vettura. Freddy Malins si arrampicò
dietro di lei e passò molto tempo a sistemarla sul sedile,
mentre il signor Browne lo aiutava con i suoi consigli.
Alla fine fu sistemata comodamente e Freddy Malins
invitò il signor Browne a salire nella vettura. Dopo una
lunghissima conversazione confusa, il signor Browne
salì. Il vetturino si sistemò la coperta sulle ginocchia e si
chinò per l'indirizzo. La confusione aumentò e al
vetturino vennero date indicazioni diverse da Freddy
Malins e dal signor Browne, ciascuno con la testa fuori di
un finestrino della vettura. La difficoltà era sapere dove
fare scendere il signor Browne lungo la strada, e zia Kate,
zia Julia e Mary Jane aiutavano dalla soglia la discussione
con indicazioni contrastanti e contraddizioni e una gran
quantità di risate. Quanto a Freddy Malins era incapace di
parlare dal ridere. Ficcava la testa dentro e fuori il
finestrino ogni istante con grave pericolo per il suo
cappello e raccontava alla madre come progrediva la
discussione, finché alla fine il signor Browne urlò allo
sbalordito vetturino vincendo il baccano delle risate di
tutti:
«Sa dov'è Trinity College?».
«Sì, signore» disse il vetturino.
«Bene, vada dritto fino ai cancelli di Trinity College»
disse il signor Browne «e poi le diremo dove andare. Ha
capito adesso?»
«Sì, signore» disse il vetturino.
«Voli a Trinity College.»
«D'accordo, signore» disse il vetturino.
Il cavallo venne incitato con la frusta e la vettura partì
rumorosamente lungo il molo fra un coro di risa e di
addii.
Gabriel non era andato alla porta con gli altri. Era in una
parte scura dell'ingresso e teneva gli occhi fissi sulle
scale. C'era una donna in piedi vicino alla cima della
prima rampa, anche lei nell'ombra. Non ne vedeva il viso
ma vedeva i pannelli terra cotta e rosa salmone della
gonna che l'ombra faceva sembrare neri e bianchi. Era
sua moglie. Era appoggiata alla ringhiera e ascoltava
qualcosa. Gabriel era stupito della sua immobilità e tese
l'orecchio per ascoltare anche lui. Ma udiva poco tranne il
rumore di risa e di discussioni sui gradini della facciata,
qualche accordo suonato sul pianoforte e qualche nota di
una voce maschile che cantava.
Rimase immobile nel buio dell'ingresso, cercando di
afferrare l'aria che la voce cantava e tenendo gli occhi
fissi sulla moglie. C'era grazia e mistero
nell'atteggiamento di lei come se fosse un simbolo di
qualcosa. Si chiese di cosa è simbolo una donna in piedi
sulle scale nell'ombra, che ascolta una musica lontana.
Fosse stato un pittore l'avrebbe dipinta in
quell'atteggiamento, il cappello di feltro blu avrebbe
messo in risalto il bronzo dei capelli contro l'oscurità e i
pannelli scuri della gonna avrebbero messo in risalto i
chiari. Musica lontana avrebbe chiamato il quadro se
fosse stato un pittore.
La porta d'ingresso venne chiusa e zia Kate, zia Julia e
Mary Jane vennero avanti nell'ingresso, ridendo ancora:


«Be', non è terribile Freddy?» disse Mary Jane. «È
veramente terribile.»
Gabriel non disse niente, ma indicò le scale nella
direzione dov'era la moglie. Ora che la porta d'ingresso
era chiusa, la voce e il pianoforte si udivano più
chiaramente. Gabriel alzò la mano perché tacessero. La
canzone sembrava essere nell'antica tonalità irlandese e il
cantante sembrava incerto sia nelle parole sia nella voce.
La voce, resa lamentosa dalla lontananza e dalla
raucedine del cantante, illuminava debolmente il ritmo
dell'aria con parole che esprimevano dolore:


Cade la pioggia sui miei ricci grevi
E di rugiada son bagnata tutta,
Freddo giace il mio bimbo...


«Oh» esclamò Mary Jane. «È Bartell D'Arcy che canta, e
non ha voluto cantare tutta la sera. Ah, gli farò cantare
una canzone prima che se ne vada.»
«Oh, sì, Mary Jane» disse zia Kate.
Mary Jane passò davanti agli altri e corse verso la scala,
ma prima che la raggiungesse il canto si fermò e il
pianoforte venne chiuso bruscamente.
«Oh, che peccato! » gridò. «Sta scendendo, Gretta?»
Gabriel udì la moglie rispondere di sì e la vide scendere
verso di loro. A pochi passi la seguivano il signor Bartell
D'Arcy e la signorina O'Callaghan.
«Oh, signor D'Arcy» gridò Mary Jane «è una vera
cattiveria interrompersi così quando eravamo tutti in
estasi ad ascoltarla.»
«Gli sono stata dietro tutta la sera» disse la signorina
O'Callaghan «e la signora Conroy pure, e ci ha detto che
ha uno spaventoso raffreddore e che non può cantare.»
«Oh, signor D'Arcy» disse zia Kate «che grosse frottole
racconta.»
«Ma non vede che sono rauco come una cornacchia?»
disse il signor D'Arcy sgarbato.
Entrò nella dispensa in fretta e si infilò il cappotto. Gli
altri, presi alla sprovvista dalle parole scortesi, non
trovarono niente da dire. Zia Kate corrugò la fronte e fece
segno agli altri di cambiare argomento. Il signor D'Arcy,
in piedi, si avviluppava il collo accuratamente
aggrottando le ciglia.
«È il tempo» disse zia Julia, dopo una pausa.
«Sì, tutti hanno il raffreddore» disse zia Kate prontamente
«tutti.»
«Dicono» disse Mary Jane «che non abbiamo avuto una
neve simile da trent'anni, e ho letto stamattina nei giornali
che c'è neve in tutta l'Irlanda.»
«Amo tanto vedere la neve» disse zia Julia tristemente.
«Anch'io» disse la signorina O'Callaghan. «Secondo me
Natale non è mai veramente Natale se non c'è la neve.»
«Ma al povero signor D'Arcy la neve non piace» disse zia
Kate, sorridendo.
Il signor D'Arcy uscì dalla dispensa, completamente
avviluppato e abbottonato, e in tono pentito raccontò la
storia del suo raffreddore. Tutti gli dettero consigli e
dissero che era un gran peccato e lo esortarono a stare
molto attento alla sua gola nell'aria notturna. Gabriel
osservava la moglie, che non prendeva parte alla
conversazione. Stava in piedi proprio sotto la lunetta
polverosa e la fiamma del gas illuminava il bronzo vivido


dei capelli, che le aveva visto asciugare al fuoco qualche
giorno prima. L'atteggiamento era lo stesso e sembrava
inconsapevole della conversazione intorno a lei. Alla fine
si voltò verso di loro e Gabriel vide che aveva le guance
colorite e gli occhi lucidi. Dal cuore gli scaturì
un’improvvisa ondata di gioia.
«Signor D'Arcy» disse lei «come si chiama quella
canzone che stava cantando?»
«Si chiama La fanciulla di Aughrim» disse il signor
D'Arcy «ma non riuscivo a ricordarla bene. Perché? La
conosce?»
«La fanciulla di Aughrim» lei ripeté. «Non riuscivo a
ricordarne il nome.»
«È un'aria molto bella» disse Mary Jane. «Mi dispiace
che lei fosse giù di voce stasera.»
«Su, Mary Jane» disse zia Kate «non seccare il signor
D'Arcy. Non voglio che sia seccato.»
Vedendo che tutti erano pronti a partire li accompagnò
alla porta, dove si augurarono la buona notte.
«Bene, buona notte, zia Kate, e grazie per la piacevole
serata.»
«Buona notte, Gabriel. Buona notte, Gretta! »
«Buona notte, zia Kate, e grazie infinite. Buona notte, zia
Julia.»
«Oh, buona notte, Gretta, non ti avevo vista.»
«Buona notte, signor D'Arcy. Buona notte, signorina
O'Callaghan.»
«Buona notte, signorina Morkan.»
«Ancora buona notte.»
«Buona notte a tutti. Tornate a casa sani e salvi.»
«Buona notte. Buona notte.»
Il mattino era ancora buio. Un'opaca luce gialla covava
sopra le case e il fiume; e il cielo sembrava abbassarsi.
Per terra era fangoso, e sui tetti, sui parapetti del molo e
sulle ringhiere dei seminterrati c'erano solo strisce e
chiazze di neve. I lampioni mandavano ancora una luce
rossa nell'aria scura e, dall'altra parte del fiume, il palazzo
di giustizia si stagliava minaccioso contro il cielo
plumbeo.
Lei camminava davanti con il signor Bartell D'Arcy, con
le scarpe sottobraccio in un pacchetto marrone e le mani
che sollevavano la gonna dalla fanghiglia. Non aveva più
grazia di atteggiamento, ma gli occhi di Gabriel
brillavano ancora di felicità. Il sangue gli scorreva a balzi
nelle vene e i pensieri gli attraversarono in tumulto il
cervello, orgogliosi, allegri, teneri, pieni di valore.
Lei camminava davanti così agile e così dritta che moriva
dal desiderio di correrle dietro silenziosamente, afferrarla
per le spalle e dirle qualcosa di sciocco e di affettuoso
all'orecchio. Gli sembrava così fragile che desiderava
difenderla contro qualcosa e poi rimanere solo con lei.
Attimi della loro vita segreta insieme gli esplosero come
stelle nella memoria. Una busta colore eliotropio stava
accanto alla sua tazza della colazione e lui la carezzava
con la mano. Gli uccelli cinguettavano nell'edera e la
trama piena di sole della tenda mandava riflessi lungo il
pavimento: non riusciva a mangiare dalla felicità. Erano
in piedi sulla banchina affollata e lui le metteva un
biglietto nel palmo caldo del guanto. Era in piedi con lei
nel freddo, guardando attraverso la grata di una finestra
un uomo che faceva bottiglie in una fornace ruggente. Era
molto freddo. Il viso di lei, fragrante nell'aria fredda, era


molto vicino al suo e improvvisamente lui gridò all'uomo
alla fornace:
«È caldo il fuoco, signore?».
Ma l'uomo non poteva udire per via del rumore della
fornace. Tanto meglio. Avrebbe potuto rispondere
sgarbatamente.
Un'ondata di gioia ancora più tenera gli sfuggì dal cuore e
gli scorse come un caldo flusso nelle arterie. Come il
tenero fuoco di stelle attimi della loro vita insieme, di cui
nessuno sapeva o avrebbe mai saputo, si scagliarono sulla
sua memoria illuminandola. Desiderava rammentarle
quegli attimi, farle dimenticare gli anni della noiosa vita
in comune e ricordarle soltanto gli attimi di estasi. Perché
gli anni, sentiva, non avevano spento la sua anima o
quella di lei. I bambini, lo scrivere, le cure della famiglia
non avevano spento tutto il tenero fuoco delle loro anime.
In una lettera che le aveva scritto allora aveva detto:
«Come mai parole come queste mi sembrano tanto
fiacche e fredde? Forse perché non esiste per il tuo nome
parola abbastanza tenera?».
Le parole scritte anni prima gli giunsero dal passato come
una musica lontana. Moriva dal desiderio di rimanere
solo con lei. Quando, andati via gli altri, lui e lei
sarebbero stati nella loro camera in albergo, allora
sarebbero stati soli insieme. L'avrebbe chiamata
dolcemente:
«Gretta!»
Forse non avrebbe udito subito: si stava svestendo. Poi
qualcosa nella sua voce l'avrebbe colpita. Si sarebbe
voltata e lo avrebbe guardato...
All'angolo di via Winetavern trovarono una vettura. Era
contento del fracasso che faceva perché gli impediva di
conversare. Lei guardava fuori del finestrino e sembrava
stanca. Gli altri dissero solo poche parole, indicando
qualche edificio o strada. Il cavallo galoppava stracco
sotto lo scuro cielo mattutino, trascinandosi dietro gli
zoccoli la vecchia cassetta rumorosa, e Gabriel era di
nuovo in vettura con lei, galoppando per prendere la
nave, galoppando verso la loro luna di miele.
Mentre la vettura attraversava il ponte O'Connell, la
signorina O'CalIaghan disse:
«Dicono che non si attraversa mai il ponte O'Connell
senza vedere un cavallo bianco».
«Vedo un uomo bianco stavolta» disse Gabriel.
«Dove?» chiese il signor Bartell D'Arcy.
Gabriel indicò la statua, su cui c'erano chiazze di neve.
Poi la salutò familiarmente con un cenno della testa e
agitò la mano.
«Buona notte, Dan» disse allegro.
Quando la vettura si fermò davanti all'albergo, Gabriel
saltò giù e, malgrado le proteste del signor Bartell
D'Arcy, pagò il conducente.
Dette all'uomo uno scellino in più della tariffa. L'uomo
salutò e disse:
«Un felice anno nuovo, signore».
«Anche a lei» disse Gabriel cordialmente.
Lei si appoggiò un istante al suo braccio uscendo dalla
vettura e mentre stavano in piedi ai margini del
marciapiede, augurando agli altri la buona notte. Si
appoggiava leggera al suo braccio, leggera come quando
aveva ballato con lui poche ore prima. Si era sentito
orgoglioso e felice allora, felice che fosse sua, orgoglioso


della sua grazia e del suo portamento di moglie. Ma ora,
dopo il riaccendersi di tanti ricordi, il primo contatto con
quel corpo, armonioso e strano e profumato, gli trasmise
un'acuta fitta di sensualità. Con il pretesto del silenzio di
lei si strinse quel braccio contro il fianco e, mentre
stavano sulla porta dell'albergo, sentì che erano sfuggiti
alle loro vite e ai loro doveri, sfuggiti alla casa e agli
amici e scappati insieme con cuori selvaggi e radiosi
verso una nuova avventura.
Un vecchio sonnecchiava in una poltrona a cupola
nell'ingresso. Accese una candela nell'ufficio e li
precedette alle scale. Lo seguirono in silenzio, e i loro
piedi ricadevano con tonfi attenuati sulle scale coperte da
uno spesso tappeto. Lei salì le scale dietro il portiere,
chinando la testa mentre saliva, con le fragili spalle curve
come sotto un peso e la gonna che la fasciava stretta.
Avrebbe voluto circondarle i fianchi con le braccia
tenendola ferma, perché le braccia gli tremavano dal
desiderio di afferrarla e soltanto premendo le unghie
contro le palme della mano tenne a freno l'impulso
selvaggio del corpo. Il portiere si fermò sulle scale per
sistemare la candela che colava. Si fermarono anche loro,
sui gradini sotto. Nel silenzio Gabriel udiva cadere la cera
liquefatta nel piattino e il battere tumultuoso del proprio
cuore contro le costole.
Il portiere li guidò lungo un corridoio e aprì una porta.
Poi depose la candela instabile su un tavolo da toletta e
chiese a che ora volevano essere chiamati la mattina.
«Alle otto» disse Gabriel.
Il portiere indicò l'interruttore della luce elettrica e
cominciò a borbottare una scusa, ma Gabriel tagliò corto.
«Non abbiamo bisogno di luce. Abbiamo abbastanza luce
dalla strada. E senta» aggiunse, indicando la candela
«porti pure via quel bell'oggetto, da bravo. »
Il portiere riprese la sua candela, ma lentamente, perché
era stupito da un'idea così insolita. Poi mormorò buona
notte e uscì. Gabriel tirò il paletto.
Dalla strada la luce spettrale del lampione si estendeva in
una lunga lama da una finestra alla porta. Gabriel gettò
cappotto e cappello su un divano e attraversò la stanza in
direzione della finestra. Guardò giù nella strada in modo
da lasciare calmare un po' la sua emozione. Poi si volse
appoggiandosi a un cassettone con la schiena alla luce.
Lei si era tolta cappello e mantello e stava in piedi di
fronte a un grande specchio girevole, sganciandosi il
corpetto. Gabriel attese qualche istante, osservandola, poi
disse:
«Gretta! ».
Lei distolse lentamente gli occhi dallo specchio e
camminò lungo la lama di luce verso di lui. Il suo viso
sembrava così serio e stanco che le parole non vollero
uscire dalle labbra di Gabriel. No, non era ancora il
momento.
«Sembravi stanca» disse.
«Lo sono un poco» rispose.
«Ti senti male o debole?»
«No, stanca: ecco tutto.»
Continuò verso la finestra e rimase lì, guardando fuori.
Gabriel aspettò di nuovo, poi, temendo di essere
sopraffatto dalla sfiducia, disse bruscamente:
«A proposito, Gretta! ».
«Che c'è?»

«Sai quel povero diavolo di Malins?» disse rapidamente.
«Sì. Che gli succede?»
«Be', povero diavolo, è una brava persona, dopo tutto»
continuò Gabriel con voce falsa. «Mi ha restituito quella
sterlina che gli avevo prestato e non me l'aspettavo,
veramente è un peccato che non voglia stare alla larga da
quel Browne, perché non è un cattivo diavolo,
veramente.»
Tremava adesso dall'irritazione. Perché sembrava così
astratta? Non sapeva come cominciare. Era irritata, anche
lei, per qualcosa? Se solo si fosse voltata o fosse venuta
verso di lui spontaneamente! Prenderla com'era sarebbe
stato brutale. No, doveva vederle un po' d'ardore negli
occhi prima. Moriva dal desiderio di dominare quello
strano stato d'animo.
«Quando gli hai prestato la sterlina?» lei chiese, dopo una
pausa. Gabriel fece uno sforzo per trattenersi dallo
scoppiare in parole brutali su quell'ubriacone di Malins e
la sua sterlina. Moriva dal desiderio di gridarle dalla sua
anima, di schiacciare quel corpo contro il suo, di
dominarla. Ma disse:
«Oh, a Natale, quando ha aperto quel negozietto di
cartoncini natalizi, a via Henry».
Aveva addosso una tale febbre di rabbia e di desiderio
che non la udì venire dalla finestra. Rimase in piedi
davanti a lui per un istante, guardandolo in modo strano.
Poi, alzandosi improvvisamente sulla punta dei piedi e
appoggiandogli leggermente le mani sulle spalle, lo
baciò.
«Sei una persona molto generosa, Gabriel» disse.
Gabriel, tremando di gioia per l'improvviso bacio e la
singolarità della frase, le mise le mani sui capelli e
cominciò a lisciarglieli indietro, toccandoli appena con le
dita. La lavata li aveva resi fini e brillanti. Il cuore gli
traboccava di felicità. Proprio quando lo desiderava era
venuta da lui spontaneamente. Forse i pensieri di lei
avevano seguito lo stesso corso dei suoi. Forse aveva
sentito il suo violento desiderio e questo l'aveva resa
incline all'abbandono. Ora che gli aveva ceduto così
facilmente, si domandò il perché della sua sfiducia.
Rimase in piedi, tenendole la testa fra le mani. Poi,
facendole scivolare svelto un braccio intorno al corpo e
attirandola a sé, disse dolcemente:
«Gretta, cara, a che stai pensando?».
Non rispose né si abbandonò del tutto al suo braccio.
Disse di nuovo, dolcemente:
«Dimmi che c'è, Gretta. Credo di sapere cosa hai. Lo
so?».
Non rispose subito. Poi disse scoppiando in lacrime:
«Oh, sto pensando a quella canzone, La fanciulla di
Aughrim».
Gli sfuggì e corse al letto e, gettando le braccia sulla
spalliera di ferro, nascose il viso. Gabriel per lo stupore
rimase completamente immobile un attimo, poi la seguì.
Mentre passava davanti alla psiche si vide dalla testa ai
piedi, con lo sparato della camicia largo e ben teso, il viso
la cui espressione lo rendeva sempre perplesso quando la
vedeva in uno specchio e gli occhiali scintillanti dalla
montatura dorata. Si fermò a qualche passo da lei e disse:
«Perché la canzone? Come mai ti fa piangere?». Lei
sollevò la testa dalle braccia e si asciugò gli occhi con il
dorso della mano come una bambina. Nella sua voce si

insinuò una nota più gentile di quel che intendesse.
«Come mai, Gretta?» chiese.
«Sto pensando a una persona che tanto tempo fa cantava
quella canzone.»
«E chi era la persona di tanto tempo fa?» chiese Gabriel,
sorridendo.
«Era una persona che conoscevo a Galway quando
vivevo con la nonna» disse.
Il sorriso scomparve dal viso di Gabriel. Un'ira soffocata
ricominciò ad accumularglisi in fondo alla mente e i
fuochi soffocati della sensualità cominciarono ad
avvampargli irosi nelle vene.
«Qualcuno di cui eri innamorata?» chiese ironico.
«Era un ragazzo che conoscevo» rispose «che si
chiamava Michael Furey. Cantava quella canzone, La
fanciulla di Aughrim. Era molto delicato.»
Gabriel tacque. Non voleva pensasse che quel ragazzo
delicato lo interessava.
«Riesco a vederlo così chiaramente» lei disse, dopo un
attimo. «Che occhi aveva: occhi grandi, scuri! E con una
tale espressione... un'espressione!»
«Oh, allora eri innamorata di lui?» disse Gabriel.
«Uscivo a passeggio con lui» disse «quando stavo a
Galway.»
Un pensiero attraversò fulmineo la mente di Gabriel.
«Forse è per questo che volevi andare a Galway con
quella ragazza Ivors?» disse freddamente.
Lei lo guardò e chiese meravigliata: «Perché mai?».
Quegli occhi imbarazzarono Gabriel. Alzò le spalle e
disse: «Che ne so? Per vederlo, forse».
Lei in silenzio distolse lo sguardo da lui dirigendolo
lungo la lama di luce verso la finestra.
«È morto» disse alla fine. «È morto quando aveva solo
diciassette anni. Non è terribile morire così giovani?»
«Cos'era?» chiese Gabriel, ancora ironico.
«Era un operaio del gas» disse.
Gabriel si sentì umiliato dall'insuccesso della sua ironia e
dall'evocazione dal mondo dei morti di quella figura, un
ragazzo che era operaio del gas. Mentre lui era immerso
nei ricordi della loro vita segreta insieme, pieno di
tenerezza e gioia e desiderio, lei lo paragonava
mentalmente a un altro. Lo assalì una vergognosa
consapevolezza della propria persona. Si vide come una
figura ridicola, una specie di galoppino delle zie, un
sentimentale nervoso, bene intenzionato, che arringava
persone volgari e idealizzava la sua grossolana sensualità,
l'individuo pietoso e fatuo che aveva visto di sfuggita
nello specchio. Istintivamente volse ancora di più la
schiena alla luce per paura che lei potesse vedere la
vergogna che gli ardeva in fronte.
Cercò di mantenere il tono di freddo interrogatorio, ma la
sua voce quando parlò era umile e indifferente.
«Immagino che eri innamorata di questo Michael Furey,
Gretta» disse.
«Andavamo molto d'accordo» disse.
La voce era velata e triste. Gabriel, sentendo ora quanto
sarebbe stato vano cercare di condurla dove si era
proposto, le carezzò una mano e disse, anche lui
tristemente:
«E di che cosa è morto così giovane, Gretta? Di tisi?».
«Credo che sia morto per me» rispose.
Un vago terrore afferrò Gabriel a questa risposta, come

se, nell'ora in cui aveva sperato di trionfare, qualche
essere inafferrabile e vendicativo gli venisse contro,
radunando forze contro di lui nel suo mondo vago. Ma se
ne liberò con uno sforzo della ragione e continuò a
carezzarle la mano. Non la interrogò di nuovo, perché
sentiva che gli avrebbe parlato di se stessa. La mano era
calda e umida: non rispondeva al contatto, ma continuò a
carezzarla proprio come aveva carezzato la sua prima
lettera quella mattina di primavera.
«Era d'inverno» lei disse «press'a poco al principio
dell'inverno, quando stavo per partire da casa della nonna
e venire qui al convento. E a quel tempo era malato nel
suo appartamentino a Galway e non volevano lasciarlo
uscire, e avevano scritto ai suoi a Oughterard. Deperiva,
dissero, o qualcosa del genere. Non l'ho mai saputo
esattamente.»
Esitò un istante e sospirò.
«Poveretto» disse. «Mi voleva molto bene ed era un
ragazzo così dolce. Uscivamo insieme, a passeggio, sai,
Gabriel, come si usa in provincia. Avrebbe studiato canto
se non fosse stato per la sua salute. Aveva una bellissima
voce, povero Michael Furey.»
«Bene, e allora?» chiese Gabriel.
«E allora quando venne per me il momento di partire da
Galway e venire al convento, stava molto peggio e non
mi permisero di vederlo, così gli scrissi una lettera
dicendo che andavo a Dublino e sarei tornata in estate e
speravo che allora sarebbe stato meglio.»
Esitò un istante per dominare la voce, poi continuò:
«Allora la notte prima di partire, stavo in casa di mia
nonna a Nun's Island, facendo le valige, e udii gettare
ghiaia contro la finestra. La finestra era così bagnata che
non riuscivo a vedere, così corsi giù per le scale com'ero
e sgattaiolai fuori da dietro in giardino e lì c'era quel
poveretto in fondo al giardino, che rabbrividiva».
«E non gli hai detto di tornare a casa?»
«Lo supplicai di andare a casa subito e gli dissi che
sarebbe morto con quella pioggia. Ma lui disse che non
voleva vivere. Vedo i suoi occhi talmente bene! Era in
piedi in fondo al muro dove c'era un albero.»
«E andò a casa?» chiese Gabriel.
«Sì, andò a casa. Ed ero in convento solo da una
settimana quando morì e venne sepolto a Oughterard, di
dove erano i suoi. Oh, il giorno che lo seppi, che era
morto! »
Si fermò, soffocando per i singhiozzi e, sopraffatta
dall'emozione, si gettò a viso in giù sul letto,
singhiozzando nella trapunta. Gabriel le tenne la mano
ancora un attimo, indeciso, poi, timoroso di disturbarne il
dolore, la lasciò cadere gentilmente e si diresse piano alla
finestra.
Lei dormiva profondamente.
Gabriel, appoggiandosi al gomito, contemplò qualche
istante senza risentimento i capelli arruffati e la bocca
semiaperta, ascoltandone il respiro profondo. Così aveva
avuto quell'avventura romantica nella vita: un uomo era
morto per amore suo. Pensare ora quale ruolo modesto
lui, il marito, aveva interpretato in quella vita non lo
faceva quasi più soffrire. La osservò mentre dormiva,
come se non avessero mai vissuto insieme come marito e
moglie. Gli occhi curiosi si posarono a lungo su quel viso

e su quei capelli: e mentre pensava a cosa doveva essere
stata allora, al tempo della sua prima bellezza
adolescente, una strana, amichevole pietà per lei gli
penetrò nell'anima. Non voleva dire nemmeno a se stesso
che quel viso non era più bello, ma sapeva che non era
più il viso per cui Michael Furey aveva sfidato la morte.
Forse non gli aveva raccontato tutta la storia. Gli occhi si
spostarono verso la sedia sulla quale lei aveva gettato
parte dei vestiti. Il laccio di una sottoveste penzolava fino
al pavimento. Uno stivaletto stava dritto, con la parte
superiore floscia all'ingiù: l'altro giaceva su un fianco. Si
meravigliò del tumulto di emozioni di un'ora prima. Da
cosa era derivato? Dalla cena delle zie, dal suo discorso
sciocco, dal vino e dal ballo, dall'allegria di quando si
erano dati la buona notte nell'ingresso, dal piacere della
passeggiata nella neve lungo il fiume. Povera zia Julia!
Lei, pure, sarebbe stata presto un'ombra con l'ombra di
Patrick Morkan e del suo cavallo. Le aveva colto per un
istante quell'aria sofferente sul viso mentre cantava
Abbigliata per le nozze. Presto, forse, sarebbe stato
seduto in quello stesso salone, vestito di nero, con il
cappello di seta sulle ginocchia. Le tende sarebbero state
tirate e zia Kate, seduta vicino a lui, piangendo e
soffiandosi il naso, gli avrebbe raccontato come era morta
Julia. Avrebbe cercato qua e là nella mente qualche
parola che potesse consolarla, e ne avrebbe soltanto
trovate di fiacche e di inutili. Sì, sì: sarebbe accaduto
molto presto.
L'aria della stanza gli gelò le spalle. Si allungò
cautamente sotto le lenzuola stendendosi accanto alla
moglie. A uno a uno, stavano tutti diventando ombre.
Meglio entrare in quell'altro mondo con audacia,
nell'intensa gloria di una passione, che languire e
appassire tristemente con gli anni. Pensò a come colei che
gli giaceva accanto aveva custodito nel cuore per tanti
anni l'immagine degli occhi dell'innamorato, quando le
aveva detto che non desiderava vivere.
Gli occhi di Gabriel si riempirono di lacrime generose.
Non aveva mai provato niente di simile per nessuna
donna, ma sapeva che un sentimento come quello doveva
essere amore. Gli occhi gli si riempirono ancora più di
lacrime e nella parziale oscurità immaginò di vedere la
figura di un giovane in piedi sotto un albero gocciolante.
Altre figure erano vicine. La sua anima si era accostata a
quella regione dove dimorano le vaste schiere dei morti.
Era cosciente, pure non riuscendo a percepirla, della loro
esistenza capricciosa e guizzante. La sua identità svaniva
in un mondo grigio e inafferrabile: il mondo solido
stesso, che quei morti avevano eretto un tempo e in cui
avevano vissuto, si dissolveva e dileguava.
Pochi colpetti leggeri sul vetro lo fecero voltare verso la
finestra. Aveva ricominciato a nevicare. Guardò
assonnato i fiocchi, argentei e scuri, che cadevano
obliquamente contro la luce del lampione. Era venuto il
momento di mettersi in viaggio verso occidente. Sì, i
giornali avevano ragione: c'era neve in tutta l'Irlanda.
Cadeva dovunque sulla scura pianura centrale, sulle
colline senza alberi, cadeva dolcemente sulla palude di
Allen e, più a occidente, cadeva dolcemente nelle scure
onde ribelli dello Shannon. Cadeva anche dovunque nel
cimitero isolato sulla collina dove Michael Furey era
sepolto. Si posava in grossi mucchi sulle croci storte e

sulle lapidi, sulle lance del cancelletto, sugli sterili spini.
La sua anima si abbandonò lentamente mentre udiva la
neve cadere lieve nell'universo e lieve cadere, come la
discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e i morti.




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