sabato 28 gennaio 2012

ARABIA


    Dato che era un vicolo cieco, la North Richmond Street era tranquilla,
    eccetto che nell'ora in cui i Fratelli delle Scuole Cristiane,  finite
    le  lezioni,  lasciavano  uscire i ragazzi.  Una casa disabitata a due
    piani occupava il fondo cieco ed era separata dalle abitazioni  vicine
    da  un  quadrato  di  terreno.  Le altre case,  consapevoli della vita
    dignitosa che si viveva al loro interno,  si guardavano  l'un  l'altra
    con facce scure e imperturbabili.
    Il  precedente  inquilino della nostra casa,  un prete,  era morto nel
    salotto sul retro.  Un odore di  muffa  impregnava  tutte  le  stanze,
    rimaste chiuse per tanto tempo, e sul pavimento del ripostiglio dietro
    la  cucina erano sparpagliate vecchie carte inutili.  Tra queste avevo
    trovato alcuni libri:  "L'abate"  di  Walter  Scott,  "Il  comunicante
    devoto"  e  "Le  memorie  di  Vidocq".  Quest'ultimo in particolare mi
    attirava perchè aveva i  fogli  ingialliti.  Al  centro  del  giardino
    incolto,  posto dietro la casa, c'era un melo, e qua e là dei cespugli
    isolati,  sotto  uno  dei  quali  trovai  la  pompa  della  bicicletta
    dell'ultimo  inquilino,  tutta  arrugginita.  Era stato un prete molto
    caritatevole: nel testamento aveva lasciato  tutto  il  suo  denaro  a
    istituzioni pie e i mobili alla sorella.
    Nelle  brevi  giornate invernali faceva buio prima che avessimo finito
    di cenare, e, quando ci ritrovavamo nella strada, le case erano giù in
    ombra.  Lo squarcio di cielo sopra di noi era di  un  colore  violetto
    cangiante,  e  verso  di  esso  i  lampioni  alzavano  le  loro deboli
    lanterne.  L'aria fredda ci pungeva,  eppure  continuavamo  a  giocare
    finchè  ci  sentivamo  tutto  il  corpo  in  fiamme.  Le  nostre grida
    echeggiavano nella strada silenziosa,  e spesso  i  nostri  giochi  ci
    portavano per vicoli bui e fangosi dietro le case, dove ci scontravamo
    con la banda dei monellacci che abitavano nei villini, fino alle porte
    posteriori  dei  giardini  scuri  e pieni di umidità da cui emanava il
    lezzo degli immondezzai o alle scure stalle odorose, dove un cocchiere
    lisciava e spazzolava il suo cavallo o ne faceva tintinnare con  dolce
    suono  le  fibbie  dei  finimenti.  Quando tornavamo nella strada,  le
    finestre delle cucine  illuminate  avevano  giù  inondato  di  luce  i
    cortili.   Se  vedevamo  mio  zio  girare  l'angolo,  ci  nascondevamo
    nell'ombra finche non eravamo sicuri che fosse entrato in casa;  o  se
    la sorella di Mangan si affacciava alla porta per chiamare il fratello
    per  il  tè,  la osservavamo dal nostro nascondiglio guardare su e giù
    per la strada.  Stavamo a vedere se  restava  o  se  rientrava,  e  se
    rimaneva  ci  decidevamo  a  venir  fuori  e ci incamminavamo su per i
    gradini della casa di Mangan con aria rassegnata. Lei ci aspettava, la
    figura in risalto sullo  sfondo  di  luce  che  filtrava  dalla  porta
    semiaperta.  Suo  fratello  le  faceva  sempre  i  dispetti  prima  di
    obbedire, mentre io, appoggiato al cancello,  la stavo a guardare.  Il
    suo  abito  ondeggiava  a  ogni  movimento,  e  la morbida treccia dei
    capelli le oscillava da una parte e dall'altra.
    Ogni mattina mi sdraiavo sul pavimento del salotto d'ingresso e tenevo
    d'occhio la porta di casa sua.  Lasciavo le persiane abbassate fino  a
    pochi centimetri dal davanzale,  in modo che non mi si potesse vedere,
    e quando appariva sulla soglia il mio cuore faceva un  salto.  Correvo
    in anticamera, prendevo i libri e la seguivo. Non perdevo mai di vista
    la  sua  figuretta bruna e,  quando ci avvicinavamo al punto in cui le
    nostre strade si dividevano,  acceleravo il  passo  e  la  sorpassavo.
    Questo  succedeva  regolarmente  tutti  i  giorni.  Non  le  avevo mai
    parlato, se non per rivolgerle poche banali parole, eppure il suo nome
    era un richiamo per il mio sangue bollente.
    La sua  immagine  mi  accompagnava  anche  nei  posti  più  negati  al
    romanticismo.  Il sabato sera, quando la zia andava al mercato, dovevo
    andarci  anch'io  per  aiutarla  a  portare  un  po'   di   pacchetti.
    Camminavamo  per  le  strade  illuminate  tra  gli  spintoni di uomini
    ubriachi e di donne che contrattavano,  tra le bestemmie dei manovali,
    le  stridule  cantilene  dei  garzoni di guardia ai barili di carne di
    maiale in salamoia, la voce nasale dei cantastorie che intonavano inni
    su O'Donovan Rossa e ballate sui moti  patriottici.  Ma  tutti  questi
    rumori  convergevano in un'unica sensazione di vita per me: immaginavo
    di portare il mio calice in salvo attraverso una schiera di nemici. Il
    suo nome,  a volte,  mi saliva alle labbra in strane preghiere e  lodi
    che non capivo;  avevo spesso gli occhi pieni di lacrime (senza sapere
    perchè) e a volte l'ondata tumultuosa che si sprigionava dal mio cuore
    sembrava che mi si riversasse in petto.  Pensavo poco al  futuro.  Non
    sapevo se avrei mai trovato il coraggio di rivolgerle la parola e, nel
    caso  lo  avessi  fatto,  come  avrei potuto esprimerle la mia confusa
    adorazione.  Ma il mio corpo era come un'arpa e i gesti di lei come le
    dita che scorrono sulle corde.
    Una sera andai nel salotto sul retro,  dov'era morto il prete. Era una
    sera buia e piovosa, e il silenzio nella casa era assoluto. Attraverso
    un vetro rotto  sentivo  la  pioggia  battere  sul  terreno:  sottili,
    incessanti aghi di pioggia che si susseguivano,  quasi giocando, sulle
    aiuole impregnate d'acqua.  La luce di un lampione lontano  o  di  una
    finestra  illuminata  brillava  sotto  di  me;  ero contento che ci si
    potesse vedere tanto poco.  Tutti i miei sensi parevano desiderare  di
    nascondersi,  e,  sentendomi  sul punto di svenire,  premetti le palme
    delle mani una contro l'altra finchè tremarono,  mormorando più volte:
    "Amore! Amore!".
    Finalmente mi parlò. Quando mi rivolse le prime parole, mi sentii cosi
    confuso  da  non  sapere  cosa  rispondere.  Mi aveva chiesto se sarei
    andato all'Arabia.  Non ricordo se risposi sì o no.  Era uno splendido
    bazar; le sarebbe piaciuto andarci, disse.
    "E perchè non ci vai?" chiesi.
    Mentre parlava si rigirava un braccialetto d'argento intorno al polso.
    Non poteva andarci, rispose, perchè ci sarebbe stato un ritiro nel suo
    convento,  quella settimana.  Suo fratello e due altri ragazzi stavano
    cercando di portarsi via i berretti, e io ero solo vicino al cancello.
    Teneva con una mano una delle sbarre, mentre chinava la testa verso di
    me.  La luce del lampione di fronte si posava sulla candida curva  del
    suo  collo,  le  illuminava i capelli che le ricadevano immobili sulla
    nuca e, più in basso, cadeva sulla mano posata sulla sbarra.  Battendo
    di  lato sul vestito,  colpiva l'orlo bianco della sottana che la posa
    trascurata lasciava intravvedere.
    "Beato te che puoi andarci!" disse.
    "Be', se ci vado, ti porterò qualcosa" risposi.
    Quali innumerevoli follie mi turbarono la mente da quella sera in poi,
    sia  da  sveglio  che  dormendo!   Avrei  voluto   cancellare   quegli
    interminabili  giorni intermedi.  Trascurai lo studio.  Di notte nella
    mia camera da letto  e  di  giorno  in  classe,  la  sua  immagine  si
    frapponeva tra me e la pagina che mi sforzavo di leggere, e le sillabe
    della parola "Arabia" mi echeggiavano nel silenzio in cui la mia anima
    si  deliziava  di  rifugiarsi  e  gettavano  su  di  me un incantesimo
    orientale.  Alla fine chiesi il permesso di andare al bazar il  sabato
    sera.  La  zia fu sorpresa e si augurò che non si trattasse di qualche
    faccenda  di  frammassoni.   Risposi  male  in  classe,   quando   fui
    interrogato.  Vidi  il  volto dell'insegnante da amabile farsi severo:
    sperava che non diventassi negligente. Ma non ce la facevo a collegare
    i miei pensieri erranti.  Riuscivo appena,  con uno sforzo enorme,  ad
    applicarmi al serio lavoro della vita che,  ora che si interponeva tra
    me e il mio desiderio,  mi sembrava un gioco da ragazzi,  un brutto  e
    monotono gioco da ragazzi.
    Il  sabato  mattina ricordai allo zio che quella sera volevo andare al
    bazar.  Stava frugando vicino alla mensola in cerca della spazzola del
    cappello e mi rispose laconico:
    "Sì, sì, ragazzo mio, lo so."
    Poichè  c'era  lui  in  anticamera,  non  potevo  andare  nel  salotto
    d'ingresso e guardare fuori dalla finestra.  Sentii che a casa  tirava
    una  brutta  aria  e  perciò mi avviai lentamente verso la scuola.  Il
    vento mi sferzava senza pietà,  e il mio cuore era giù pieno di tristi
    presagi.
    Quando tornai a casa per pranzo,  lo zio non era ancora arrivato.  Era
    troppo presto. Mi sedetti e mi misi a fissare l'orologio per un po' e,
    quando il suo tictac cominciò a irritarmi, lasciai la stanza.
    Salii le scale e raggiunsi il piano superiore. Le alte, fredde, vuote,
    tetre stanze mi fecero passare il malumore,  e me  ne  andai  dall'una
    all'altra cantando.  Dalla finestra sul davanti vedevo i miei compagni
    giocare giù nella strada.  Le loro grida mi arrivavano  affievolite  e
    indistinte,  e,  con la fronte appoggiata al vetro freddo, guardavo la
    casa buia dove viveva lei.  Penso di essere  rimasto  là  per  un'ora,
    senza  vedere  nient'altro che la figuretta vestita di scuro rievocata
    dalla mia immaginazione,  con la luce del  lampione  che  batteva  con
    discrezione  sul  collo  sinuoso,  sulla mano appoggiata alla sbarra e
    sull'orlo della sottana.
    Ritornando dabbasso trovai la signora Mercer seduta accanto al  fuoco.
    Era  una  vecchia  petulante,  vedova di uno strozzino,  e raccoglieva
    francobolli usati per beneficienza. Durante il tè dovetti sopportare i
    soliti pettegolezzi.  Il pasto continuò per oltre un'ora,  e ancora lo
    zio  non  ritornava.  La  signora  Mercer  si  alzò per andarsene: era
    spiacente di non poter aspettare di più,  ma erano le otto passate,  e
    non  voleva  trovarsi  fuori  tanto  tardi perchè l'aria della sera le
    faceva male. Quando se ne fu andata,  mi misi a camminare su e giù per
    la stanza, stringendo i pugni. La zia mi disse:
    "Temo che dovrai rinunciare al bazar per questa sera."
    Alle nove sentii la chiave dello zio girare nella serratura. Lo sentii
    parlare  da  solo e avvertii l'oscillazione dell'attaccapanni sotto il
    peso del suo soprabito: tutti segni chiari per me.  Quando fu  a  metà
    della  sua  cena,  gli  chiesi i soldi per andare al bazar.  Se ne era
    dimenticato.
    "A quest'ora la gente dorme, e del primo sonno," dichiarò.
    Non sorrisi e la zia intervenne energica:
    "Non puoi darglieli questi  soldi  e  lasciarlo  andare?  Lo  hai  giù
    trattenuto abbastanza, tardi com'è!"
    Lo  zio  si disse dispiaciuto della dimenticanza.  Credeva nel vecchio
    proverbio secondo il quale a passar la vita a lavorare e basta  ci  si
    fossilizza; un po' di svago ci vuole! Mi chiese dove avessi intenzione
    di  andare  e,  quando glielo ripetei una seconda volta,  mi chiese se
    conoscevo "L'addio dell'arabo al suo  destriero".  Quando  lasciai  la
    cucina stava recitando i primi versi alla zia.
    Tenendo  stretto  un fiorino nella mano,  mi incamminai a grandi passi
    per Buckingham Street verso la stazione.
    La vista delle  strade,  affollate  di  compratori  e  illuminate  dai
    lampioni  a  gas,  mi  fece tornare in mente lo scopo del mio viaggio.
    Presi posto in un vagone di terza classe,  in un treno  deserto.  Dopo
    un'intollerabile  attesa  il treno si mosse lentamente dalla stazione.
    Avanzava strisciando tra case in rovina e sopra il fiume scintillante.
    A Westland Row una folla premette contro le portiere, ma i facchini la
    respinsero indietro dicendo che era un treno speciale  per  il  bazar.
    Rimasi solo nello scompartimento vuoto.  Pochi minuti dopo il treno si
    accostava a una  piattaforma  di  legno  improvvisata.  Uscendo  sulla
    strada, vidi sul quadrante luminoso di un orologio che mancavano dieci
    minuti  alle  dieci.  Di  fronte a me si ergeva un grande edificio che
    mostrava il magico nome.
    Non riuscii a trovare l'ingresso da sei pence e,  temendo che stessero
    per  chiudere,  mi  infilai velocemente in un'entrata girevole e diedi
    uno scellino a un uomo  dall'aria  stanca.  Mi  trovai  in  un  salone
    circondato  a  metà altezza da una galleria.  Quasi tutti i padiglioni
    erano chiusi,  e buona parte del  salone  era  immersa  nell'oscurità.
    C'era lo stesso silenzio, notai, che riempie una chiesa dopo la Messa.
    Avanzai  verso  il  centro del bazar timidamente.  Poche persone erano
    raccolte attorno ai padiglioni ancora aperti.  Davanti  a  una  tenda,
    sulla  quale  erano  scritte  con  lampadine  colorate le parole "CafŠ
    Chantant",  due uomini stavano contando  del  denaro  su  un  vassoio.
    Ascoltai il suono delle monete che cadevano.
    Ricordando a fatica perchè ero venuto, mi avvicinai a uno dei banchi e
    mi misi a guardare dei vasi di porcellana e dei servizi da tŠ a fiori.
    Sulla soglia del padiglione una ragazza chiacchierava e rideva con due
    giovanotti.   Mi   colpì   il   loro   accento  inglese,   e  ascoltai
    distrattamente la conversazione.
    "Non ho mai detto una cosa del genere!"
    "Ma sò che lo avete detto."
    "Non Š vero!"
    "Non l'ha detto forse?"
    "Sò. L'ho sentito io."
    "Macchè! E' una bugia."
    Scorgendomi la signorina venne verso di me e mi chiese  se  desideravo
    comprare  qualcosa.  Il  tono  della  sua  voce non era incoraggiante:
    sembrava che mi avesse rivolto la parola solo per un senso di  dovere.
    Guardai  umilmente  i  grandi vasi sistemati come guardie orientali ai
    due lati dell'entrata buia e mormorai:
    "No, grazie."
    La signorina cambiò di posto a un vasetto e ritornò ai due giovanotti.
    Ripresero lo stesso argomento.  Una volta o due la  ragazza  mi  diede
    un'occhiata da sopra la spalla.
    Indugiai  davanti  al  suo  banco,  perfettamente  consapevole che era
    inutile rimanere là, ma volevo far sembrare più reale il mio interesse
    per gli oggetti esposti.  Poi mi girai e mi incamminai verso il centro
    del salone. Feci scivolare in tasca le due monetine da un penny vicino
    a  quella  da  sei  pence.  Sentii  una  voce dal fondo della galleria
    gridare che non c'era più luce.  La parte superiore della sala era ora
    completamente al buio.
    Alzando lo sguardo nell'oscurità, mi vidi come una creatura trascinata
    e derisa dalla vanità, e gli occhi mi bruciarono di angoscia e d'ira.

UN INCONTRO


   Fu  Joe  Dillon  a  farci  conoscere  il Wild West.  Aveva una piccola
    biblioteca con dei vecchi numeri dell'"Union Jack",  del "Pluck" e del
    "Halfpenny Marvel".  Ogni sera,  dopo la scuola,  ci riunivamo nel suo
    giardino dietro la casa e organizzavamo battaglie di  indiani.  Lui  e
    quel ciccione del suo fratello minore, Leo, l'indolente, occupavano il
    fienile  della  stalla,  e  noi  cercavamo  di prenderlo d'assalto dal
    basso;  oppure combattevamo una vera e propria battaglia  campale  sul
    prato. Ma, benchè ce la mettessimo tutta, non riuscivamo mai a vincere
    nè   un  assedio  nè  una  battaglia,   e  le  nostre  lotte  finivano
    immancabilmente con la  danza  di  vittoria  di  Joe  Dillon.  I  suoi
    genitori  andavano  tutti  i  giorni alla Messa delle otto in Gardiner
    Street, e soprattutto in anticamera, aleggiava sempre il lieve profumo
    della signora Dillon. Lui però,  per noi che eravamo pi— piccoli e pi—
    timidi,  era  troppo  impetuoso  nel gioco.  Pareva proprio un indiano
    quando saltellava per il giardino con un vecchio copriteiera in testa,
    battendo su una latta con il pugno e urlando:
    "Ià, iaca, iaca, ià!"
    Restammo tutti increduli quando  si  diffuse  la  voce  che  aveva  la
    vocazione religiosa. Ma era proprio vero.
    Di  conseguenza  uno  spirito  di  ribellione si diffuse tra di noi e,
    sotto la sua influenza,  non facemmo più caso a diversità di cultura e
    di costituzione fisica.  Ci unimmo in una banda,  alcuni per baldanza,
    altri per scherzo e qualcuno quasi per paura: tra questi  ultimi,  gli
    indiani  riluttanti  che  avevano paura di essere giudicati sgobboni o
    gracili, c'ero anch'io.  Le avventure raccontate dalla letteratura del
    Wild  West erano lontane dalla mia natura,  ma per lo meno aprivano le
    porte all'evasione.  Preferivo certi racconti polizieschi,  nei  quali
    ogni  tanto  facevano  delle  rapide apparizioni belle ragazze fiere e
    scarmigliate.  E benchè non ci fosse niente di sconveniente in  questo
    genere  di  racconti,  che  a  volte  avevano  anzi  una certa pretesa
    letteraria, pure a scuola circolavano di nascosto.  Un giorno,  mentre
    Padre  Butler stava interrogando sulle solite quattro pagine di storia
    romana,  quello sciocco di  Leo  Dillon  fu  scoperto  con  una  copia
    dell'"Halfpenny Marvel".
    "Che pagina,  questa o quella?  Questa?  Su Dillon, alzati! ‘Il giorno
    era  appena....’   Avanti!   Quale  giorno?   'Il  giorno  era  appena
    spuntato...' Ma hai studiato? Che cosa hai là in tasca?"
    Ci  sentimmo  tutti battere il cuore,  mentre Leo Dillon consegnava il
    giornale e  prendemmo  un'aria  innocente.  Padre  Butler  si  mise  a
    sfogliare le pagine, corrugando le sopracciglia.
    "Che razza di roba è questa?" disse.  'Il capo degli Apache!' Ah! Ecco
    cosa leggete invece di studiare la storia romana!  Che non  trovi  mai
    più robaccia simile in classe!  Chi l'ha scritta doveva proprio essere
    uno di quei poveri disgraziati, che scribacchiano per guadagnarsi quel
    tanto che basta per andare all'osteria.  Mi meraviglia che dei ragazzi
    beneducati  come  voi leggano di queste cose.  Potrei anche capirlo se
    frequentaste... la scuola pubblica. In quanto a te, Dillon, ti avverto
    una volta per tutte: applicati seriamente al tuo lavoro o..."
    Questa ramanzina,  durante le serie ore di scuola,  spense buona parte
    della  gloria  del  Wild  West  ai  miei  occhi,  e  l'imbarazzo della
    rubiconda  faccia  di  Leo  Dillon  risvegliò  in  me  la  voce  della
    coscienza.  Ma  lontano  dall'influenza  moderatrice della scuola,  mi
    riprendeva la smania di sensazioni selvagge,  per l'evasione che  solo
    queste  cronache  di disordine sembravano offrirmi.  A lungo andare il
    finto combattimento  della  sera  diventò  per  me  noioso  quanto  la
    giornaliera routine della scuola, perchè volevo vivere delle avventure
    vere.  Ma  nella  realtà  le  avventure non capitano a chi se ne sta a
    casa: bisogna andarsele a cercare fuori.
    Le vacanze estive erano ormai vicine,  quando decisi di evadere  dalla
    monotonia della vita scolastica almeno per una volta. Con Leo Dillon e
    un ragazzo di nome Mahony ci mettemmo d'accordo per marinare la scuola
    per  un  giorno.  Ognuno  di  noi mise da parte sei pence.  Ci saremmo
    incontrati alle dieci del mattino sul Canal  Bridge.  La  sorella  più
    grande di Mahony gli avrebbe scritto una giustificazione, e Leo Dillon
    avrebbe fatto dire da suo fratello che era ammalato. Avevamo stabilito
    di  seguire  la  Wharf  Road  fino  alle  barche  e  là traghettare in
    "ferryboat" per andare a vedere la Pigeon House. Leo Dillon temeva che
    avremmo potuto incontrare Padre Butler o qualcun altro  della  scuola;
    ma  Mahony chiese,  con molto buon senso,  che cosa avrebbe mai dovuto
    andarci a fare Padre Butler alla Pigeon House.  Questa osservazione ci
    rassicur•,  e  io  portai  a  termine  la  prima  fase  del  complotto
    raccogliendo i sei pence degli altri due e facendo  veder  loro  nello
    stesso  tempo  che  anch'io  mettevo  la  mia quota.  La sera,  mentre
    prendevamo gli ultimi accordi,  eravamo  tutti  un  po'  eccitati.  Ci
    stringemmo la mano, ridendo, e Mahony disse:
    "A domani, camerati!"
    Quella  notte  dormii  male.  La  mattina  arrivai per primo al ponte,
    perchè ero quello che abitava più vicino.  Nascosi i  libri  nell'erba
    folta vicino all'immondezzaio,  in fondo al giardino,  dove non veniva
    mai nessuno,  e mi affrettai lungo l'argine del canale.  Si era  nella
    prima  settimana  di  giugno,  e il mattino era mite e soleggiato.  Mi
    sedetti sul parapetto del  ponte,  guardandomi  con  compiacimento  le
    leggere  scarpette  di  tela,  che avevo diligentemente pulito la sera
    prima col bianchetto,  e osservando i docili cavalli che  trascinavano
    su per la collina un omnibus carico di gente indaffarata. I rami degli
    alti alberi,  che fiancheggiavano il viale, davano un tocco di gaiezza
    con le loro foglioline verde brillante,  attraverso le quali  i  raggi
    del  sole  battevano  obliquamente  sull'acqua.  Il  granito del ponte
    cominciava a diventare caldo, e cominciai a battervi sopra con le mani
    al ritmo di un motivo che mi era venuto in mente. Ero al massimo della
    felicità.
    Dopo cinque o dieci minuti che me ne stavo seduto là,  vidi a distanza
    il  vestito grigio di Mahony.  Saliva per la collina,  sorridendo,  e,
    raggiuntomi,   si  arrampicò  sul  parapetto  vicino  a   me.   Mentre
    aspettavamo,  tirò  fuori  la  fionda  che  gli  sporgeva  dalla tasca
    interna, e mi spiego alcuni miglioramenti che vi aveva apportato.  Gli
    chiesi  perchè l'avesse presa con sè,  e mi rispose che lo aveva fatto
    per divertirsi a tirare  agli  uccelli.  Mahony  usava  frequentemente
    espressioni  di  gergo  e  parlava  di  Padre Butler come del "vecchio
    spilungone".  Aspettammo ancora per un  altro  quarto  d'ora,  ma  Leo
    Dillon non appariva all'orizzonte. Mahony, infine, saltò giù e disse:
    "Vieni via! Sapevo che il ciccione avrebbe avuto fifa."
    "E i suoi sei pence..." incominciai.
    "E' la multa," dichiarò Mahony.  "E tanto meglio per noi. Uno scellino
    e mezzo invece di uno scellino."
    Ci incamminammo per la North Strand Road fino all'altezza dei  Vitriol
    Works  e  poi  girammo a destra lungo la Wharf Road.  Mahony si mise a
    fare l'indiano non appena fummo fuori  vista.  Inseguì  un  gruppo  di
    ragazze  cenciose,  agitando  la fionda scarica e,  quando due ragazzi
    sbrindellati,  spinti  da  un  senso  di  cavalleria,  cominciarono  a
    prenderci  a  sassate,  propose  che  li  caricassimo.  Obiettai che i
    ragazzi erano troppo piccoli e così ce ne andammo,  mentre la banda di
    straccioni  ci gridava dietro: "Swaddlers!  Swaddlers!",  pensando che
    fossimo dei protestanti,  perchè Mahony,  che era di carnagione scura,
    portava  sul  berretto  il  distintivo d'argento di un'associazione di
    cricket.  Arrivati a Smoothing Iron,  organizzammo un assalto  che  si
    dimostrò  un  fallimento,  perchè  bisognava essere almeno in tre.  Ci
    vendicammo su Leo Dillon dandogli  del  fifone  e  immaginando  quante
    gliene avrebbe dette il signor Ryan alla lezione delle tre.
    E finalmente arrivammo al fiume.  Passammo molto tempo a camminare per
    le strade rumorose, fiancheggiate da alti muri di pietra;  osservavamo
    il lavoro delle gru e delle macchine,  attirandoci spesso i rimproveri
    dei conducenti di carri cigolanti per quel nostro restare là impalati.
    Era mezzogiorno quando arrivammo alla banchina e,  dato  che  sembrava
    che tutti i manovali se ne fossero andati a fare colazione,  comprammo
    due grosse ciambelle con l'uvetta e ci sedemmo a mangiarle su dei tubi
    di metallo vicino al fiume.  Ci divertimmo a osservare  lo  spettacolo
    del traffico di Dublino: le imbarcazioni segnalate da lontano dai loro
    pennacchi  di fumo denso,  le scure barche da pesca oltre il Ringsend,
    il grande veliero  bianco  che  stava  scaricando  sulla  banchina  di
    fronte.  Mahony  disse  che sarebbe stato molto bello potersene andare
    per i mari su quei grossi battelli e anch'io, guardando quegli alberi,
    vedevo,  o meglio immaginavo di vedere,  quella geografia,  che mi era
    stata  propinata in dosi tanto scarse a scuola,  prendere gradualmente
    sostanza sotto i miei occhi.  Scuola e casa  parvero  allontanarsi  da
    noi, e la loro influenza sembrò svanire.
    Attraversammo il Liffey in "ferryboat", pagando il pedaggio per essere
    trasportati  in  compagnia  di due operai e di un piccolo ebreo con un
    sacco. Eravamo tanto seri da sembrare solenni,  ma una volta,  durante
    il  breve  viaggio,  i  nostri  occhi si incontrarono,  e scoppiammo a
    ridere.  Arrivati a terra,  osservammo scaricare il bel tre alberi che
    avevamo notato dall'altra riva. Uno dei presenti disse che si trattava
    di una nave norvegese. Mi avvicinai alla poppa per cercare di leggerne
    il nome,  ma,  non essendoci riuscito,  tornai indietro ad esaminare i
    marinai stranieri per vedere se qualcuno tra di loro aveva  gli  occhi
    verdi,  perch‚  avevo delle nozioni confuse...  Ma li avevano azzurri,
    grigi,  e addirittura neri.  Il solo marinaio,  i cui  occhi  potevano
    dirsi  verdi,  era  un  uomo alto,  che divertiva la gente raggruppata
    sulla banchina, gridando allegramente ogni volta che le assi cadevano:
    "Bene! bene!"
    Quando fummo stanchi di questo spettacolo,  ci  avviammo  piano  piano
    verso  il Ringsend.  La giornata era diventata afosa e,  nelle vetrine
    delle drogherie, i biscotti ammuffiti si stavano scolorendo. Comprammo
    un po' di  biscotti  e  di  cioccolato,  che  continuammo  a  mangiare
    lentamente per tutto il tempo che girammo per le squallide strade dove
    vivevano  le  famiglie  dei  pescatori.  Non  riuscimmo  a trovare una
    latteria,  e quindi entrammo nel chiosco di un venditore  ambulante  e
    comprammo  una  bottiglia di sciroppo di lampone a testa.  Rinfrancato
    dalla bibita dissetante,  Mahony prese a inseguire una gatta lungo  un
    sentiero,  ma  la  gatta  fuggì in un campo.  Ci sentivamo tutti e due
    piuttosto stanchi e,  quando arrivammo al campo,  ci dirigemmo  subito
    verso una scarpata, dall'alto della quale potevamo vedere il Dodder.
    Era  troppo  tardi  ed  eravamo  troppo  stanchi  per  dare seguito al
    progetto di visitare la Pigeon House.  Dovevamo essere  a  casa  prima
    delle  quattro,  altrimenti  la  nostra avventura avrebbe rischiato di
    essere scoperta.  Mahony guardava con rimpianto la fionda,  e  dovetti
    proporgli  di  tornare  a casa in treno perchè riacquistasse un po' di
    allegria. Il sole sparò dietro le nuvole, lasciandoci ai nostri tristi
    pensieri e alle briciole delle nostre provviste.
    Non c'era nessun altro oltre a noi nel campo.  Eravamo là sdraiati  da
    un  po' senza parlare,  quando vidi un uomo avvicinarsi dall'estremità
    del campo.  Lo guardavo pigramente e intanto  masticavo  uno  di  quei
    verdi  steli sui quali le ragazze predicono la fortuna.  Veniva avanti
    lentamente lungo la scarpata.  Aveva una mano sul fianco e  nell'altra
    stringeva  un  bastone  col  quale batteva leggermente sull'erba.  Era
    vestito poveramente con un abito nero-verdastro e portava un  cappello
    a  cupola  alta,  un  po'  logorato.  Doveva essere piuttosto vecchio,
    perchè aveva i baffi grigio  cenere.  Passandoci  davanti,  ci  lanciò
    un'occhiata  di  sfuggita  e  poi  tirò  dritto per la sua strada.  Lo
    seguimmo con lo sguardo e lo vedemmo,  dopo aver fatto forse cinquanta
    passi,  girarsi  e  ritornare  indietro.  Avanzava  verso di noi molto
    piano,  sempre picchiettando il terreno col  bastone,  così  piano  da
    darmi l'impressione che stesse cercando qualcosa nell'erba.
    Si  fermò  vicino  a  noi  e  ci augurò il buongiorno.  Ricambiammo il
    saluto,  e lui si sedette accanto a noi sulla scarpata,  lentamente  e
    con  grande  cautela.  Cominciò a parlare del tempo: avremmo avuto una
    estate  molto  calda,  e  aggiunse  che  le  stagioni  erano  cambiate
    parecchio  da  quando era ragazzo lui,  tanto tempo fa.  Disse che gli
    anni più belli della nostra vita sono senza dubbio quelli della scuola
    e che avrebbe dato qualsiasi cosa per essere  giovane  ancora.  Mentre
    esprimeva questi sentimenti, che ci annoiavano un po', restammo zitti.
    Poi  cominciò  a  parlare di scuola e di libri.  Ci chiese se avessimo
    letto le poesie di Thomas Moore o le opere di Walter Scott e  di  Lord
    Lytton.  Gli feci credere di aver letto tutti i libri da lui citati, e
    così alla fine disse:
    "Ah,  vedo che sei un topo di  biblioteca  come  me.  Il  tuo  amico,"
    aggiunse  indicando  Mahony  che  ci  stava  guardando a bocca aperta,
    "invece Š diverso. A lui piace giocare."
    Disse che aveva a casa tutte le  opere  di  Walter  Scott  e  di  Lord
    Lytton, e che non si stancava mai di leggerle.
    "Naturalmente,"  osservò,  "ci  sono alcuni libri di Lord Lytton che i
    ragazzi non possono leggere."  Mahony  chiese  perchè  i  ragazzi  non
    potevano leggerli,  domanda che mi turbò e mi mise in imbarazzo per il
    timore che l'uomo potesse giudicarmi stupido quanto Mahony.  Ma l'uomo
    si limitò a sorridere e,  mentre sorrideva, notai parecchi spazi vuoti
    tra i suoi denti giallastri.  Poi ci chiese chi di noi due avesse  più
    innamorate. Mahony, senza starci tanto a pensare, disse di averne tre.
    Mi  chiese allora quante ne avessi io,  e gli risposi che non ne avevo
    nessuna.  Non mi credette: era sicuro che una dovevo avercela.  Restai
    zitto.
    "Be',  sentiamo  un  po'," chiese Mahony con impertinenza,  "quante ne
    avete voi?"
    L'uomo sorrise come prima e rispose che quando aveva la nostra età  ne
    aveva caterve.
    "Non c'Š ragazzo," affermò, "che non abbia la sua innamorata."
    Il  suo  modo  di  pensare su questo punto mi colpì perchè stranamente
    spregiudicato in un uomo della sua età  In cuor mio pensavo  che  era
    giusto  quello  che  diceva sui ragazzi e sulle innamorate,  ma non mi
    piacevano quelle parole in bocca a  lui  e  mi  meravigliai  vedendolo
    rabbrividire  una  o  due volte come se avesse paura di qualcosa o gli
    fosse venuto freddo all'improvviso.  Mentre  riprendeva  il  discorso,
    notai  che  aveva un buon accento.  Cominciò a parlarci delle ragazze,
    descrivendoci che bei capelli soffici e  che  morbide  mani  avessero;
    diceva  anche  che non erano così buone come sembravano a prima vista,
    se solo se ne approfondiva un po' la conoscenza.  Non c'era niente che
    gli  piacesse  tanto quanto guardare una ragazza giovane e carina,  le
    sue  bianche  mani  e  i  suoi  splendidi  capelli  soffici.  Mi  dava
    l'impressione  che stesse ripetendo qualcosa imparato a memoria o che,
    magnetizzato da certe parole del  suo  stesso  discorso,  il  pensiero
    continuasse  a  girargli  lentamente intorno ad una stessa orbita.  In
    certi momenti parlava come se stesse semplicemente alludendo  a  fatti
    conosciuti  a  tutti,  mentre  in  altri  momenti  abbassava la voce e
    parlava con aria di mistero,  come se  stesse  dicendoci  qualcosa  di
    segreto,  che non voleva che gli altri sentissero. Ripeteva e ripeteva
    le sue frasi, cambiandole e rigirandole con voce monotona. Continuai a
    tenere gli occhi fissi sul fondo della scarpata, mentre lo ascoltavo.
    Dopo un bel po' interruppe il monologo.  Si alzò  lentamente,  dicendo
    che  doveva lasciarci per un minuto o poco più,  e,  senza cambiare la
    direzione del mio sguardo,  lo vidi allontanarsi piano piano verso  il
    fondo del campo. Restammo in silenzio, quando se ne fu andato. Passato
    qualche minuto, sentii Mahony esclamare:
    "Ma tu... Guarda che sta facendo!"
    E poichè non rispondevo nè alzavo gli occhi, disse ancora:
    "Che strano tipo!"
    "Se  ci  chiede i nostri nomi," suggerii,  "ricordati che tu ti chiami
    Murphy e io Smith."
    Non ci dicemmo nient'altro.  Stavo ancora pensando se andarmene o  no,
    quando l'uomo tornò e si sedette di nuovo vicino a noi.  Si era appena
    seduto quando Mahony,  scorgendo improvvisamente la gatta che gli  era
    scappata,  saltò in piedi e cominciò a inseguirla per il campo. L'uomo
    e io osservammo la caccia. La gatta scappò ancora una volta,  e Mahony
    prese  a lanciare sassi contro il muro che l'animale aveva scavalcato;
    ma finì col rinunciarvi e si mise a gironzolare  verso  il  fondo  del
    campo senza scopo.
    Dopo una pausa l'uomo mi parlò.  Disse che il mio amico era un ragazzo
    maleducato e mi chiese se lo frustavano spesso a scuola. Mi sentii sul
    punto di replicare indignato che  non  eravamo  ragazzi  della  scuola
    pubblica  per essere frustati,  ma restai zitto.  Ricominciò a parlare
    dei  diversi  modi  di  punire  i  ragazzi.  Il  suo  pensiero,   come
    ipnotizzato  dal  nuovo  discorso,  cominciò a girare lentamente in un
    circolo vizioso intorno al nuovo centro. Ragazzi di quel tipo,  disse,
    dovevano essere frustati per bene; ai maleducati e agli indisciplinati
    niente poteva servire di più di una buona frustata. Colpi sulle mani e
    scappellotti  non sarebbero serviti: una buona e bruciante staffilata,
    ecco  cosa   ci   voleva.   Mi   sorpresero   questi   sentimenti,   e
    involontariamente  lo  guardai  in  faccia.  Così facendo incontrai lo
    sguardo di un paio di occhi verde  bottiglia,  che  mi  scrutavano  da
    sotto alla fronte contratta e distolsi i miei.
    L'uomo  continuò  il  suo  monologo.  Sembrava aver dimenticato il suo
    liberalismo di poco prima.  Disse che se mai avesse trovato un ragazzo
    a  parlare  con una ragazza o uno che avesse l'innamorata,  lo avrebbe
    frustato a sangue: così avrebbe imparato a lasciar stare le ragazze. E
    se, pur avendo l'innamorata,  lo avesse nascosto,  gliene avrebbe date
    tante  come  nessuno  al mondo ne aveva mai prese.  Niente gli sarebbe
    piaciuto di più. Mi descrisse come avrebbe frustato un ragazzo simile,
    come se stesse spiegando un complicato mistero.  Gli sarebbe  piaciuto
    enormemente,  disse,  più  di qualsiasi altra cosa al mondo,  e la sua
    voce,  mentre mi guidava monotonamente attraverso il mistero,  diventò
    quasi appassionata e sembrò implorarmi di capirlo.
    Aspettai un'altra pausa del suo monologo.  Poi mi alzai di scatto. Nel
    timore di tradire la mia agitazione aspettai qualche  minuto  fingendo
    di allacciarmi meglio una scarpa e poi,  prendendo la scusa che dovevo
    andare, gli augurai il buongiorno. Risalii pian piano la scarpata,  ma
    il  cuore  mi  batteva forte per la paura che potesse prendermi per le
    caviglie. Quando arrivai in cima mi girai e, senza guardarlo,  chiamai
    ad alta voce verso il campo:
    "Murphy!"
    La  mia  voce  aveva  un tono di forzata spavalderia e mi vergognai di
    quello stratagemma meschino.  Dovetti chiamare ancora una volta  prima
    che  Mahony  mi  vedesse  e  mi  rispondesse con un richiamo.  Come mi
    batteva il cuore,  mentre correva verso di me per  il  campo!  Correva
    come  per  portarmi  aiuto.  E provai rimorso,  perchè in fondo al mio
    cuore lo avevo sempre disprezzato un pochino.