martedì 7 febbraio 2012

DUE CAVALIERI


La grigia calda sera di agosto era scesa sulla città e una
mite aria calda, ricordo dell'estate, circolava nelle strade.
Le strade, con le saracinesche abbassate per il riposo
domenicale, brulicavano di una folla gaiamente colorata.
Come perle illuminate i lampioni splendevano dalla cima
degli alti pali sul tessuto vivo sotto, che, cambiando
forma e tinta incessantemente, faceva salire nella calda
aria grigia della sera un immutabile, incessante
mormorio.
Due giovani venivano giù per il colle di piazza Rutland.
Uno di loro stava proprio per concludere un lungo
monologo. L'altro, che camminava sull'orlo del
marciapiede ed era a volte costretto a scendere sulla
strada, a causa della maleducazione del compagno, aveva
una faccia divertita, attenta. Era tarchiato e rossiccio. Un
berretto da yacht era cacciato indietro lontano dalla
fronte, e il racconto che ascoltava faceva scaturire sulla
sua faccia dagli angoli del naso e degli occhi e della
bocca continue onde di espressione. Piccoli getti di riso
asmatico si susseguivano fuori del corpo contorto. Gli
occhi, scintillanti di furbo divertimento, lanciavano a ogni
istante sguardi al viso del compagno. Una o due volte
risistemò il leggero impermeabile che si era buttato sulla
spalla a mo' di torero. I calzoni, le scarpe bianche di
gomma e l'impermeabile portato disinvoltamente
esprimevano gioventù. Ma la figura gli si arrotondava alla
vita, i capelli erano radi e grigi e la faccia, quando le onde
di espressione erano passate, aveva un'aria devastata.
Quando fu proprio sicuro che il racconto era finito rise
silenziosamente per un buon mezzo minuto. Poi disse:
«Be'... questa sì che è buona!».
La voce sembrava spoglia di energia; e per dare forza alle
parole aggiunse con fare comico:
«È eccezionale, unica e, mi sia concesso di dirlo,
recherché!».
Detto questo divenne serio e silenzioso. Aveva la lingua
stanca, per avere parlato tutto il pomeriggio in un bar a
via Dorset. Molta gente riteneva Lenehan un parassita,
ma nonostante tale nomea, la sua abilità ed eloquenza
avevano sempre impedito agli amici di coalizzarsi contro
di lui. Aveva l'abitudine di avvicinarsi con audacia a un
gruppo di loro in un bar e di tenersi agilmente ai margini
della comitiva finché non veniva incluso fra i beneficiari
di un bicchierino. Era un vagabondo intraprendente
armato di una vasta scorta di storielle, limericks e
indovinelli. Era insensibile a ogni tipo di scortesia.
Nessuno sapeva come risolvesse il duro compito di
vivere, ma il suo nome era vagamente associato
all'ambiente delle corse.
«E dove l'hai pescata, Corley?» chiese.
Corley si passò rapidamente la lingua sul labbro
superiore.
«Una notte» disse «camminavo per via Dame e ti vedo
una bella sgualdrina sotto l'orologio di Waterhouse, e le
auguro buona notte, sai. Così siamo andati a fare una
passeggiata dalle parti del canale e lei mi ha detto che
faceva la serva in un casa di via Baggot. L'ho abbracciatae palpata un po' quella notte. Poi la domenica dopo le ho
dato appuntamento. Siamo andati a Donnybrook e l'ho
portata in un campo. Mi ha detto che un tempo andava
con un lattaio... È stato bello. Sigarette tutte le notti mi
portava e pagava il tram all'andata e al ritorno. E una
notte mi ha portato due sigari maledettamente buoni... oh,
di quelli veri, sai, che fumava il vecchio... avevo paura
che rimanesse incinta. Ma il fatto suo lo sa.»
«Forse pensa che la sposerai» disse Lenehan.
«Le ho detto che ero disoccupato» disse Corley. «Le ho
detto che stavo da Pim. Non sa come mi chiamo. Sono
troppo furbo per dirglielo. Ma crede che sia uno di una
certa classe, sai.»
Lenehan rise di nuovo, silenziosamente.
«Di tutte le buone storie che ho mai sentito» disse
«questa assolutamente è la migliore.»
Il passo di Corley accettò il complimento. L'oscillare del
corpo grande e grosso costrinse l'amico a saltellare dal
marciapiede alla strada e viceversa. Corley era figlio di
un ispettore di polizia e aveva ereditato la struttura e il
passo del padre. Camminava con le mani lungo i fianchi,
tenendosi dritto e facendo oscillare la testa da un parte
all'altra. La testa era grossa, sferica e oleosa; sudava con
tutti i tempi; e il largo cappello tondo, messovi sopra di
traverso, sembrava un bulbo nato da un altro. Teneva
sempre lo sguardo fisso dinanzi a sé come se fosse in
parata e, quando desiderava voltarsi a guardare qualcuno
per strada, doveva muovere il corpo dai fianchi.
Attualmente si dava alla bella vita. Tutte le volte che si
liberava un lavoro c'era sempre un amico pronto a fargli
la soffiata. Lo si poteva vedere spesso camminare con
poliziotti in borghese, parlando animatamente. Conosceva
i retroscena di tutto e gli piaceva , dare giudizi perentori.
Parlava senza ascoltare le parole dei compagni. La sua
conversazione riguardava soprattutto se stesso: cosa
aveva detto alla tale persona e così la tale persona aveva
detto a lui, e cosa aveva detto per regolare la questione.
Quando riferiva questi dialoghi aspirava la prima lettera
del suo nome come i fiorentini.
Lenehan offrì all'amico una sigaretta. Mentre i due
giovani camminavano fra la folla Corley di tanto in tanto
si voltava a sorridere a qualche ragazza che passava, ma
lo sguardo di Lenehan era fisso sulla grande luna pallida
circondata da un doppio alone. Osservava serio il velo
grigio del crepuscolo attraversarne la faccia. Alla fine
disse:
«Be'... dimmi, Corley, immagino che sarai in grado di
cavartela bene, eh?».
Corley come tutta risposta chiuse un occhio in modo
eloquente.
«Credi che lo farà?» chiese Lenehan con aria dubbiosa.
«Con le donne non si può mai sapere.»
«È una brava ragazza» disse Corley. «So come
convincerla. Ha perso un po' la testa per me.»
«Sei quello che si dice un seduttore» disse Lenehan. «E il
vero tipo del seduttore, anche!»
Una sfumatura di ironia alleggeriva il servilismo
dell'atteggiamento. Per salvarsi aveva l'abitudine di
lasciare che la sua adulazione potesse venire interpretata
come scherno. Ma la mente di Corley mancava di
sottigliezza.
«Niente vale una buona serva» affermò. «Segui il mioconsiglio.»
«Di uno che le ha provate tutte» disse Lenehan.
«Prima andavo con ragazze, sai» disse Corley, in vena di
confidenze «ragazze del South Circular. Le portavo fuori
in tram e pagavo il tram, o le portavo a un concerto della
banda o a una commedia a teatro, o compravo
cioccolatini e dolci o qualcosa del genere. Eh sì,
spendevo soldi per loro» aggiunse, in tono convincente,
come se si rendesse conto di non essere creduto.
Ma Lenehan poteva ben crederlo; annuì gravemente.
«Conosco il gioco» disse «ed è un gioco da tonti.»
«E non ne ho mai ricavato un accidenti» disse Corley.
«E io idem» disse Lenehan.
«Soltanto da una» disse Corley.
Si inumidì il labbro superiore passandoci sopra la lingua.
Il ricordo gli fece brillare gli occhi. Lui pure fissò il
pallido disco della luna, ora quasi velato, e sembrò
meditare.
«Era... tanto carina» disse con rimpianto. Tornò
silenzioso. Poi aggiunse:
«Fa la vita adesso. L'ho vista passare in carrozza per via
Earl una notte con due tipi».
«Immagino che la colpa sia tua» disse Lenehan.
«Altri le erano stati dietro prima di me» disse Corley
filosoficamente. Questa volta Lenehan tendeva a non
credergli. Scosse la testa avanti e indietro e sorrise.
«Sai che non riesci a farmi scemo, Corley» disse.
«Te lo giuro su Dio!» disse Corley. «Me l'ha detto lei
stessa, no?» Lenehan fece un gesto tragico.
«Vile traditore!» disse.
Mentre passavano lungo le cancellate di Trinity College,
Lenehan saltò sulla strada e alzò lo sguardo all'orologio.
«E venti» disse.
«C'è tutto il tempo» disse Corley. «Sarà lì di sicuro. La
faccio sempre aspettare un poco.»
Lenehan rise piano.
«Però! Sai come prenderle, Corley» disse.
«Li conosco tutti i loro trucchetti» Corley confessò.
«Ma dimmi» disse Lenehan di nuovo «sei sicuro di
riuscire davvero a farcela? Sai che è un lavoretto delicato.
Quando si tratta di quello non cacciano fuori niente.
Eh?... Cosa?»
Gli occhietti brillanti esaminarono il viso del compagno
in cerca di rassicurazione. Corley fece oscillare la testa
avanti e indietro come per mandare via un insetto
insistente e aggrottò la fronte.
«Me la caverò» disse. «Lascia fare a me, no?»
Lenehan non disse altro. Non desiderava mettere di
cattivo umore l'amico, essere mandato al diavolo e
sentirsi dire che i suoi consigli non erano richiesti. Era
necessario un po' di tatto. Ma la fronte di Corley si spianò
ben presto. I suoi pensieri seguivano un altro corso.
«E una gran brava e bella sgualdrina» disse, con stima
«ecco cos'è.»
Camminarono lungo via Nassau e poi voltarono in via
Kildare. Non lontano dal portico del circolo c'era un
arpista in mezzo alla strada, che suonava a un piccolo
cerchio di ascoltatori. Pizzicava le corde con noncuranza,
lanciando rapide occhiate di tanto in tanto al viso di ogni
nuovo venuto e di tanto in tanto, pure con aria annoiata,
al cielo. Anche la sua arpa, incurante che la fodera le
fosse caduta intorno alle ginocchia, sembrava annoiatacosì degli occhi estranei come delle mani del padrone.
Una mano suonava nei bassi la melodia di Silente, o
Moyle, mentre l'altra correva negli acuti dietro ogni
gruppo di note. Le note della melodia risuonavano
profonde e piene.
I due giovani proseguirono per la via senza parlare,
seguiti dalla musica triste. Quando giunsero al giardino di
S. Stefano attraversarono la strada. Qui il rumore dei
tram, le luci e la folla, li liberarono dal silenzio.
«Eccola! » disse Corley.
All'angolo di via Hume c'era una giovane donna.
Indossava un vestito blu e un cappello bianco alla
marinara. Stava in piedi sull'orlo del marciapiede,
facendo dondolare un parasole con una mano. Lenehan si
animò.
«Diamole un'occhiata, Corley» disse.
Corley guardò con la coda dell'occhio l'amico e sul suo
viso apparve un sorriso sgradevole.
«Stai cercando di soffiarmela?» chiese.
«Maledizione!» disse Lenehan coraggiosamente «non
voglio essere presentato. Voglio soltanto darle
un'occhiata. Non la mangerò.»
«Oh... un'occhiata ?» disse Corley, più amabilmente.
«Be'... faremo così. Io andrò a parlarle e tu puoi passarle
vicino.»
«D'accordo! » disse Lenehan.
Corley aveva già messo una gamba dall'altra parte delle
catenelle quando Lenehan gridò:
«E dopo? Dove ci ritroviamo?».
«Alle dieci e mezzo» rispose Corley, scavalcando con
l'altra gamba.
«Dove?»
«All'angolo di via Merrion. Saremo di ritorno.»
«Datti da fare adesso» disse Lenehan come addio.
Corley non rispose. Attraversò senza fretta la strada
facendo oscillare la testa da una parte all'altra. La figura
massiccia, il passo tranquillo e il suono fermo degli
stivali avevano qualcosa del conquistatore. Si avvicinò
alla giovane donna e, senza salutare, cominciò subito a
parlarle. L'ombrello prese a dondolare più rapidamente e
lei fece delle mezze giravolte sui tacchi. Uno o due volte
quando lui le parlò vicinissimo rise e chinò la testa.
Lenehan li osservò per qualche minuto. Poi si incamminò
rapido lungo le catenelle a una certa distanza e attraversò
la strada obliquamente. Mentre si avvicinava all'angolo di
via Hume sentì l'aria farsi fortemente profumata e i suoi
occhi scrutarono veloci e ansiosi l'aspetto della giovane.
Aveva il vestito buono della domenica. La gonna di saia
blu era stretta alla vita da una cintura di cuoio nero. La
grossa fibbia d'argento della cintura sembrava formarle
una depressione nel centro del corpo, afferrando come un
fermaglio la stoffa leggera della camicetta bianca.
Indossava una giacchetta nera corta con bottoni di madreperla
e un logoro boa nero. Gli orli del collettino di
tulle erano stati accuratamente scompigliati e un grosso
mazzo di fiori rossi era appuntato sul petto con i gambi
all'insù. Gli occhi di Lenehan notarono con approvazione
il corpo robusto piccolo e muscoloso. Una schietta buona
salute le risplendeva in faccia, sulle tonde guance rosse e
negli sfrontati occhi blu. I tratti erano rozzi. Aveva larghe
narici, una bocca irregolare aperta in un sorriso
soddisfatto e i due denti davanti sporgenti. Lenehan



passando si tolse il berretto e, dopo circa dieci secondi,
Corley salutò in risposta l'aria. Fece questo sollevando la
mano vagamente e cambiando soprappensiero angolo al
cappello.
Lenehan arrivò fino all'albergo Shelbourne, dove si fermò
ad aspettare. Dopo avere aspettato un po' li vide venire
verso di lui e, quando voltarono a destra, li seguì,
camminando leggero nelle scarpe bianche, giù per un lato
di piazza Merrion. Mentre proseguiva lentamente,
adeguando il suo passo al loro, guardava la testa di
Corley voltarsi a ogni istante verso la faccia della giovane
come una grossa palla che ruotasse su un perno. Non
perse di vista la coppia fino a quando non li ebbe visti
salire i gradini del tram per Donnybrook; allora si rigirò e
tornò indietro per la strada da cui era venuto.
Ora che era solo il suo viso aveva l'aria più vecchia.
L'allegria sembrò abbandonarlo e, quando giunse accanto
alle cancellate del prato del Duca, lasciò che una mano vi
corresse sopra. Il motivo suonato dall'arpista cominciò a
dirigere i suoi movimenti. I piedi morbidamente imbottiti
suonavano il tema mentre le dita dopo ogni gruppo di
note sfioravano pigre le sbarre con una scala di
variazioni.
Camminò svogliato intorno al giardino di S. Stefano e poi
giù per via Grafton. Sebbene gli occhi notassero molti
elementi della folla attraverso la quale passava, lo
facevano con aria scontenta. Trovava insignificante tutto
quanto avrebbe dovuto incantarlo e non rispose alle
occhiate che lo invitavano a farsi avanti. Sapeva che
avrebbe dovuto parlare molto, inventare e divertire, e
aveva il cervello e la gola troppo aridi per un simile
compito. Il problema di come passare le ore fino a
quando non avesse rivisto Corley lo preoccupava un
poco. Non riusciva a pensare a nessun modo di
trascorrerle se non continuando a camminare. Voltò a
sinistra quando giunse all'angolo di piazza Rutland e si
sentì meglio nella buia strada silenziosa il cui aspetto
tetro si addiceva al suo umore. Si fermò infine dinanzi a
una vetrina dall'aria misera sulla quale erano stampate a
lettere bianche le parole Bar Ristoro. Sul vetro c'erano
due iscrizioni svolazzanti: Ginger Beer e GingerAle. Un
prosciutto affettato era esposto su un grande vassoio blu,
mentre vicino ad esso su un piatto c'era un segmento di
dolce d'uva passa molto lievitato. Guardò con desiderio il
cibo per un po', poi, dopo avere lanciato occhiate
guardinghe su e giù per la strada, entrò rapidamente nel
locale.
Aveva fame, perché, salvo alcuni biscotti che aveva
chiesto a due baristi riluttanti di portarglieli, non aveva
mangiato niente dall'ora di colazione. Si sedette a uno
spoglio tavolo di legno di fronte a due operaie e a un
meccanico. Una ragazza sciatta gli si avvicinò.
«Quant'è un piatto di piselli?» chiese.
«Tre mezzi pennies, signore» disse la ragazza.
«Mi porti un piatto di piselli» disse «e una bottiglia di
ginger beer.»
Parlò sgarbatamente in modo da smentire l'apparenza
signorile, poiché alla sua entrata era seguita una pausa
nella conversazione. Aveva il viso in fiamme. Per
sembrare naturale si spinse indietro il berretto sulla testa e
piantò i gomiti sul tavolo. Il meccanico e le due operaie
lo esaminarono accuratamente prima di riprendere la lorocosì degli occhi estranei come delle mani del padrone.
Una mano suonava nei bassi la melodia di Silente, o
Moyle, mentre l'altra correva negli acuti dietro ogni
gruppo di note. Le note della melodia risuonavano
profonde e piene.
I due giovani proseguirono per la via senza parlare,
seguiti dalla musica triste. Quando giunsero al giardino di
S. Stefano attraversarono la strada. Qui il rumore dei
tram, le luci e la folla, li liberarono dal silenzio.
«Eccola! » disse Corley.
All'angolo di via Hume c'era una giovane donna.
Indossava un vestito blu e un cappello bianco alla
marinara. Stava in piedi sull'orlo del marciapiede,
facendo dondolare un parasole con una mano. Lenehan si
animò.
«Diamole un'occhiata, Corley» disse.
Corley guardò con la coda dell'occhio l'amico e sul suo
viso apparve un sorriso sgradevole.
«Stai cercando di soffiarmela?» chiese.
«Maledizione!» disse Lenehan coraggiosamente «non
voglio essere presentato. Voglio soltanto darle
un'occhiata. Non la mangerò.»
«Oh... un'occhiata ?» disse Corley, più amabilmente.
«Be'... faremo così. Io andrò a parlarle e tu puoi passarle
vicino.»
«D'accordo! » disse Lenehan.
Corley aveva già messo una gamba dall'altra parte delle
catenelle quando Lenehan gridò:
«E dopo? Dove ci ritroviamo?».
«Alle dieci e mezzo» rispose Corley, scavalcando con
l'altra gamba.
«Dove?»
«All'angolo di via Merrion. Saremo di ritorno.»
«Datti da fare adesso» disse Lenehan come addio.
Corley non rispose. Attraversò senza fretta la strada
facendo oscillare la testa da una parte all'altra. La figura
massiccia, il passo tranquillo e il suono fermo degli
stivali avevano qualcosa del conquistatore. Si avvicinò
alla giovane donna e, senza salutare, cominciò subito a
parlarle. L'ombrello prese a dondolare più rapidamente e
lei fece delle mezze giravolte sui tacchi. Uno o due volte
quando lui le parlò vicinissimo rise e chinò la testa.
Lenehan li osservò per qualche minuto. Poi si incamminò
rapido lungo le catenelle a una certa distanza e attraversò
la strada obliquamente. Mentre si avvicinava all'angolo di
via Hume sentì l'aria farsi fortemente profumata e i suoi
occhi scrutarono veloci e ansiosi l'aspetto della giovane.
Aveva il vestito buono della domenica. La gonna di saia
blu era stretta alla vita da una cintura di cuoio nero. La
grossa fibbia d'argento della cintura sembrava formarle
una depressione nel centro del corpo, afferrando come un
fermaglio la stoffa leggera della camicetta bianca.
Indossava una giacchetta nera corta con bottoni di madreperla
e un logoro boa nero. Gli orli del collettino di
tulle erano stati accuratamente scompigliati e un grosso
mazzo di fiori rossi era appuntato sul petto con i gambi
all'insù. Gli occhi di Lenehan notarono con approvazione
il corpo robusto piccolo e muscoloso. Una schietta buona
salute le risplendeva in faccia, sulle tonde guance rosse e
negli sfrontati occhi blu. I tratti erano rozzi. Aveva larghe
narici, una bocca irregolare aperta in un sorriso
soddisfatto e i due denti davanti sporgenti. Lenehan

passando si tolse il berretto e, dopo circa dieci secondi,
Corley salutò in risposta l'aria. Fece questo sollevando la
mano vagamente e cambiando soprappensiero angolo al
cappello.
Lenehan arrivò fino all'albergo Shelbourne, dove si fermò
ad aspettare. Dopo avere aspettato un po' li vide venire
verso di lui e, quando voltarono a destra, li seguì,
camminando leggero nelle scarpe bianche, giù per un lato
di piazza Merrion. Mentre proseguiva lentamente,
adeguando il suo passo al loro, guardava la testa di
Corley voltarsi a ogni istante verso la faccia della giovane
come una grossa palla che ruotasse su un perno. Non
perse di vista la coppia fino a quando non li ebbe visti
salire i gradini del tram per Donnybrook; allora si rigirò e
tornò indietro per la strada da cui era venuto.
Ora che era solo il suo viso aveva l'aria più vecchia.
L'allegria sembrò abbandonarlo e, quando giunse accanto
alle cancellate del prato del Duca, lasciò che una mano vi
corresse sopra. Il motivo suonato dall'arpista cominciò a
dirigere i suoi movimenti. I piedi morbidamente imbottiti
suonavano il tema mentre le dita dopo ogni gruppo di
note sfioravano pigre le sbarre con una scala di
variazioni.
Camminò svogliato intorno al giardino di S. Stefano e poi
giù per via Grafton. Sebbene gli occhi notassero molti
elementi della folla attraverso la quale passava, lo
facevano con aria scontenta. Trovava insignificante tutto
quanto avrebbe dovuto incantarlo e non rispose alle
occhiate che lo invitavano a farsi avanti. Sapeva che
avrebbe dovuto parlare molto, inventare e divertire, e
aveva il cervello e la gola troppo aridi per un simile
compito. Il problema di come passare le ore fino a
quando non avesse rivisto Corley lo preoccupava un
poco. Non riusciva a pensare a nessun modo di
trascorrerle se non continuando a camminare. Voltò a
sinistra quando giunse all'angolo di piazza Rutland e si
sentì meglio nella buia strada silenziosa il cui aspetto
tetro si addiceva al suo umore. Si fermò infine dinanzi a
una vetrina dall'aria misera sulla quale erano stampate a
lettere bianche le parole Bar Ristoro. Sul vetro c'erano
due iscrizioni svolazzanti: Ginger Beer e GingerAle. Un
prosciutto affettato era esposto su un grande vassoio blu,
mentre vicino ad esso su un piatto c'era un segmento di
dolce d'uva passa molto lievitato. Guardò con desiderio il
cibo per un po', poi, dopo avere lanciato occhiate
guardinghe su e giù per la strada, entrò rapidamente nel
locale.
Aveva fame, perché, salvo alcuni biscotti che aveva
chiesto a due baristi riluttanti di portarglieli, non aveva
mangiato niente dall'ora di colazione. Si sedette a uno
spoglio tavolo di legno di fronte a due operaie e a un
meccanico. Una ragazza sciatta gli si avvicinò.
«Quant'è un piatto di piselli?» chiese.
«Tre mezzi pennies, signore» disse la ragazza.
«Mi porti un piatto di piselli» disse «e una bottiglia di
ginger beer.»
Parlò sgarbatamente in modo da smentire l'apparenza
signorile, poiché alla sua entrata era seguita una pausa
nella conversazione. Aveva il viso in fiamme. Per
sembrare naturale si spinse indietro il berretto sulla testa e
piantò i gomiti sul tavolo. Il meccanico e le due operaie
lo esaminarono accuratamente prima di riprendere la loro

conversazione a bassa voce. La ragazza gli portò un
piatto di grossi piselli caldi, conditi con pepe e aceto, una
forchetta e il ginger beer. Mangiò con avidità trovandoli
così buoni che prese nota mentalmente del locale.
Quando ebbe mangiato tutti i piselli bevve il ginger beer
e rimase seduto per un po' pensando all'avventura di
Corley. Vedeva nella fantasia la coppia di innamorati
camminare lungo una strada buia, udiva la voce di Corley
dire complimenti sentiti ed energici, e rivide il sorriso
malizioso sulla bocca della giovane. La visione gli fece
sentire acutamente la sua povertà di borsa e di spirito. Era
stanco di fare vita randagia, di sapere dove il diavolo
tiene la coda, di espedienti e raggiri. A novembre avrebbe
avuto trentun anni. Non avrebbe mai ottenuto un buon
posto? Non avrebbe mai avuto una casa sua? Pensò come
sarebbe stato piacevole avere un fuoco caldo e un buon
pranzo davanti a cui sedersi. Aveva battuto i marciapiedi
abbastanza a lungo con amici e ragazze. Sapeva cosa
valevano quegli amici: conosceva pure le ragazze.
L'esperienza gli aveva inasprito il cuore contro il mondo.
Ma non aveva perso ogni speranza. Si sentiva meglio
dopo avere mangiato di quanto non si fosse sentito prima,
meno stufo della vita, meno vinto nello spirito. Forse
poteva ancora sistemarsi in qualche angolo tranquillo e
vivere felice se soltanto fosse riuscito a imbattersi in
qualche brava ragazza ingenua e con un po' di soldini.
Pagò due pennies e mezzo alla ragazza sciatta e uscì dal
bar per riprendere il suo vagabondaggio. Fece via Capel e
camminò in direzione del municipio. Poi voltò in via
Dame. All'angolo di via George incontrò due suoi amici e
si fermò a conversare con loro. Era contento di riposarsi
dopo tanto camminare. Gli amici gli chiesero se aveva
visto Corley e quale era l'ultima. Rispose che aveva
passato la giornata con Corley. Gli amici parlavano
pochissimo. Seguivano con sguardo vacuo alcune figure
nella folla e talvolta facevano commenti acidi. Uno disse
che aveva visto Mac un'ora prima a via Westmoreland. A
questo Lenehan disse che era stato con Mac la sera prima
da Egan. Il giovane che aveva visto Mac a via
Westmoreland chiese se era vero che Mac aveva vinto
qualcosetta su una partita di biliardo. Lenehan non lo
sapeva: disse che da Egan Holohan aveva offerto da bere.
Lasciò gli amici alle dieci meno un quarto e percorse via
George. Voltò a sinistra ai mercati e prese via Grafton. La
folla di ragazze e giovani si era assottigliata, e strada
facendo udì molti gruppi e coppie augurarsi la buona
notte. Arrivò fino all'orologio della Facoltà di chirurgia:
stavano per suonare le dieci. Si avviò svelto lungo il lato
nord del giardino, camminando in fretta per paura che
Corley tornasse in anticipo. Quando giunse all'angolo di
via Merrion si mise nell'ombra di un lampione, tirò fuori
una delle sigarette che aveva tenuto di riserva e l'accese.
Si appoggiò al sostegno del lampione e tenne lo sguardo
fisso dalla parte da cui si aspettava di vedere tornare
Corley e la giovane.
La sua mente ridivenne attiva. Si domandò se Corley
avesse avuto successo. Si domandò se glielo aveva già
chiesto o se avrebbe atteso fino all'ultimo. Patì tutte le
pene e le angosce della situazione dell'amico oltre a
quelle della sua. Ma il ricordo della testa lentamente
ruotante di Corley lo calmò un poco: era sicuro che
Corley se la sarebbe cavata bene. Tutto a un tratto locolpì l'idea che forse Corley l'aveva accompagnata a casa
per un'altra strada e se l'era svignata. Gli occhi
esaminarono la strada: di loro neanche l'ombra. Pure era
sicuramente passata mezz'ora da quando aveva visto
l'orologio della Facoltà di chirurgia. Era capace di una
cosa simile Corley? Accese l'ultima sigaretta e cominciò
a fumarla nervosamente. Aguzzava gli occhi ogni volta
che un tram si fermava all'angolo opposto della piazza.
Dovevano essere andati a casa da un'altra parte. La carta
della sigaretta si strappò e lui la scagliò nella strada con
un'imprecazione.
Improvvisamente li vide venire nella sua direzione.
Trasalì di gioia e, tenendosi vicino al suo lampione, cercò
di leggere il risultato nel loro modo di camminare.
Camminavano rapidamente, la giovane a passetti rapidi,
mentre Corley le stava accanto con il suo lungo passo.
Non sembravano parlarsi. Un presagio del risultato lo ferì
come la punta di uno strumento aguzzo. Lo sapeva che
Corley non ci sarebbe riuscito; lo sapeva che non c'era
niente da fare.
Voltarono giù per via Baggot, e li seguì subito, prendendo
l'altro marciapiede. Quando si fermarono si fermò anche
lui. Parlarono qualche istante, poi la giovane andò giù per
i gradini del seminterrato di una casa. Corley rimase in
piedi sull'orlo del marciapiede, a poca distanza degli
scalini della facciata. Passarono alcuni minuti. Poi la
porta d'ingresso venne aperta piano e con cautela. Una
donna scese gli scalini correndo e tossì. Corley si voltò e
si diresse verso di lei. La sua figura robusta nascose
quella di lei per qualche secondo e poi lei riapparve,
correndo su per gli scalini. La porta le si chiuse dietro e
Corley cominciò a camminare velocemente verso il
giardino di S. Stefano.
Lenehan si precipitò nella stessa direzione. Caddero
alcune gocce di pioggia lieve. Le prese come un
avvertimento e, voltandosi a dare un'occhiata alla casa
dove era entrata la giovane per assicurarsi di non essere
visto, attraversò la strada correndo agitato. L'ansietà e la
corsa veloce gli mozzarono il respiro. Chiamò forte:
«Ehi, Corley! ».
Corley girò la testa per vedere chi l'avesse chiamato, poi
continuò a camminare come prima. Lenehan gli corse
dietro, sistemandosi con una mano l'impermeabile sulle
spalle.
«Ehi, Corley! » gridò di nuovo.
Raggiunse l'amico e lo guardò attentamente in faccia.
Non gli riuscì di vederci niente.
«Allora?» disse. «Ce l'hai fatta?»
Erano arrivati all'angolo di piazza Ely. Sempre senza
rispondere, Corley deviò a sinistra e percorse la strada
laterale. I suoi tratti avevano un'espressione di calma
severa. Lenehan tenne dietro all'amico, respirando
affannosamente. Era sconcertato, e dalla sua voce trapelò
una nota di minaccia.
«Non puoi parlare?» disse. «Ci hai provato?»
Corley si fermò al primo lampione e guardò fisso dinanzi
a sé con aria torva. Poi con gesto solenne tese una mano
verso la luce e, sorridendo, l'aprì lentamente allo sguardo
del discepolo. Nella palma brillava una monetina d'oro.



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