X
Quando il cameriere entrò, lo
osservò attentamente domandandosi se avesse mai pensato di dare un'occhiata
dietro il paravento. L'uomo
attendeva i suoi ordini assolutamente impassibile. Dorian accese una sigaretta,
si avvicinò
allo specchio e guardò. Vedeva alla
perfezione il riflesso del viso di Victor: era una placida maschera di
servilismo.
Nulla da temere da quella parte.
Comunque era meglio stare in guardia.
Parlando molto lentamente gli disse
di riferire alla governante che voleva vederla e di andare poi dal corniciaio
per chiedergli di mandare subito due
uomini. Gli sembrò che il cameriere allontanandosi muovesse lo sguardo in
direzione del paravento. Ma forse
era solo la sua immaginazione.
Poco dopo entrò affannosamente nella
biblioteca la signora Leaf, con il suo vestito di seta nero e i vecchi
mezzi guanti di filo sulle mani
rugose. Le chiese di dargli la chiave dello studio.
«Il vecchio studio, signor Dorian?»
esclamò. «Ma è pieno di polvere. Devo farlo pulire e mettere a posto prima
che lei entri. Non è assolutamente
presentabile, signore. Proprio no.»
«Non voglio che venga pulito,
signora Leaf. Voglio solo la chiave.»
«Bene, signore, si coprirà tutto di
ragnatele quando entrerà. È chiuso da quasi cinque anni, da quando è morto
sua signoria.»
Dorian Gray trasalì sentendo
accennare al nonno: ne aveva un ricordo odioso. «Non importa,» rispose. «Voglio
semplicemente dare un'occhiata al
locale, nient'altro. Mi dia la chiave.»
«Eccola, signore,» disse la vecchia
donna cercando nel mazzo con mani incerte e tremanti. «Ecco la chiave. La
tolgo subito dal mazzo, ma non
penserà di vivere lassù, signore? Sta così bene qui.»
«No, no,» esclamò lui irritato.
«Grazie signora Leaf. Basta così.»
La donna indugiò ancora un poco
diffondendosi su alcuni particolari dell'andamento di casa. Dorian sospirò e
le disse di fare come meglio
credeva. La donna lasciò la stanza tutta sorrisi.
Appena la porta si chiuse, Dorian
infilò la chiave in tasca e si guardò in giro. Lo sguardo gli cadde su un
grande copriletto di seta color
porpora, dai ricchi ricami in oro, uno splendido lavoro del tardo settecento
veneziano che
il nonno aveva trovato in un
convento vicino a Bologna. Sì, l'avrebbe usato per coprire quell'orribile cosa.
Forse era
stato impiegato spesso come drappo
funebre, adesso avrebbe nascosto qualche cosa che aveva una sua corruzione
peggiore della corruzione della
morte stessa: qualche cosa che avrebbe nutrito orrori e tuttavia non sarebbe
mai morta.
Quello che i vermi sono per i
cadaveri, lo sarebbero stati i suoi peccati per l'immagine dipinta sulla tela.
Avrebbero
sfigurato la sua bellezza,
rosicchiato la sua grazia. L'avrebbero contaminata e resa disgustosa. E
tuttavia la cosa avrebbe
continuato a vivere. Sarebbe sempre
stata viva.
Rabbrividì e per un attimo rimpianse
di non aver rivelato a Basil il vero motivo per cui desiderava nascondere
il ritratto. Basil lo avrebbe
aiutato a resistere all'influenza di Lord Henry, e a quella ancor più dannosa
che gli veniva dal
suo stesso carattere. L'amore che
gli portava - poiché proprio di amore si trattava - non aveva in sé nulla di
men che
nobile e intellettuale. Non era
quella semplice ammirazione fisica per la bellezza che nasce dai sensi e muore
quando i
sensi sono esauriti. Era quell'amore
che avevano conosciuto Michelangelo, Montaigne, Winckelmann e lo stesso
Shakespeare. Sì, Basil avrebbe
potuto salvarlo, ma ormai era troppo tardi. Era sempre possibile annientare il
passato,
bastavano il rimpianto, il rifiuto,
l'oblìo, ma il futuro era inevitabile. C'erano in lui passioni che avrebbero
trovato il loro
terribile sfogo, sogni che avrebbero
dato realtà all'ombra del loro peccato.
Tolse dal divano il grande tessuto
oro e porpora che lo copriva e, reggendolo in mano, passò dietro il
paravento. Il volto sulla tela era
diventato ancora più ignobile? Gli pareva che non fosse cambiato e tuttavia
provava un
disgusto ancora più intenso. I
capelli d'oro, gli occhi azzurri, le labbra vermiglie: c'erano ancora. Soltanto
l'espressione
era alterata, orribile nella sua crudeltà.
Come erano stati superficiali i rimproveri di Basil per Sibyl Vane, di fronte
alla
censura e al biasimo che vedeva nel
quadro! Quanto leggeri e irrilevanti! Dalla tela, la sua stessa anima lo
fissava e lo
chiamava a giudizio. Un'espressione
di sofferenza gli passò in viso; gettò il manto sontuoso sul ritratto. Proprio
in
quell'attimo bussarono alla porta.
Si allontanò dal quadro mentre il cameriere entrava.
«Sono arrivati gli uomini, signore.»
Sentì che doveva sbarazzarsi subito
di quell'uomo. Non doveva sapere dove sarebbe stato portato il ritratto.
C'era qualche cosa di subdolo in lui
e lo sguardo era attento e infido. Sedette alla scrivania e scarabocchiò un
biglietto
per Lord Henry, chiedendo di
mandargli qualche cosa da leggere e ricordandogli che avevano appuntamento
quella sera
alle otto e un quarto.
«Aspetti la risposta,» disse
porgendogli il biglietto, «e faccia entrare gli uomini.»
Due o tre minuti dopo bussarono
nuovamente e il signor Hubbard in persona, il celebre camiciaio di South
Adler Street, entrò accompagnato da
un giovane aiutante dall'aspetto un po' rozzo. Il signor Hubbard era un ometto
florido, dalle basette rossicce, la
cui ammirazione per l'arte era considerevolmente raffreddata dall'inveterata
insolvibilità di quasi tutti gli
artisti con cui aveva a che fare. Di regola, non si allontanava mai dal
negozio. Aspettava
che la gente andasse da lui ma per
Dorian Gray faceva sempre un'eccezione. C'era in Dorian qualche cosa che
affascinava chiunque. Era un piacere
il solo fatto di vederlo.
«Che cosa posso fare per lei, signor
Gray?» domandò strofinandosi le mani grassocce e coperte di lentiggini.
«Ho voluto aver l'onore di venire
personalmente. Mi è appena capitata tra le mani una cornice che è una bellezza,
signore. L'ho trovata a un'asta.
Stile fiorentino antico. Viene da Fonthill, penso. È l'ideale per un soggetto
religioso,
signor Gray.»
«Mi dispiace che lei si sia
disturbato a venire, signor Hubbard. Farò certamente un salto per dare
un'occhiata
alla cornice, anche se in questo momento
l'arte religiosa non mi interessa molto, ma oggi volevo far portare un quadro
all'ultimo piano. È piuttosto
pesante e così ho pensato di chiederle un paio dei suoi uomini.»
«Assolutamente nessun disturbo,
signor Gray. Sono contentissimo di poterle fare un piacere. Qual è l'opera,
signore?»
«Questa,» disse Dorian, allontanando
il paravento. «Potete trasportarlo così com'è, con la copertura e tutto.
Non vorrei che si graffiasse
salendo.»
«Nessuna difficoltà, signore,» disse
il gioviale corniciaio, cominciando con l'aiuto dell'assistente a staccare il
quadro dalle lunghe catene di ottone
che lo reggevano. «E adesso dove lo dobbiamo portare, signore?»
«Le farò strada, signor Hubbard, se
sarà così gentile da seguirmi. O forse è meglio che vada avanti lei. Mi
dispiace che sia proprio all'ultimo
piano. Saliremo per la scala principale che è più larga.»
Tenne aperta la porta per farli
passare in anticamera, poi cominciarono a salire. La ricchezza della cornice
appesantiva moltissimo il quadro e
ogni tanto, nonostante le ossequiose proteste del signor Hubbard che, con la
mentalità del vero mercante, non
sopportava assolutamente di vedere un gentiluomo fare qualche cosa di utile,
Dorian
dava una mano per aiutarli.
«Un bel carico da portare, signore,»
ansimò l'ometto, asciugandosi la fronte lucida di sudore, quando
raggiunsero l'ultimo pianerottolo.
«Temo proprio che sia piuttosto
pesante,» mormorò Dorian aprendo la stanza che avrebbe custodito il
singolare segreto della sua vita e
che avrebbe nascosto la sua anima agli occhi degli uomini.
Non vi entrava da più di quattro
anni, dal tempo in cui, bambino, la usava come stanza da giuochi e poi, più
grandicello, da studio. Era un
locale vasto, di belle proporzioni. Il defunto Lord Kelso lo aveva costruito
appositamente
per il nipote che, per la strana
rassomiglianza con la madre e per altri motivi, aveva sempre odiato e cercato
di tenere
lontano, A Dorian sembrò poco
cambiata. C'era l'enorme cassone italiano con i pannelli fantasticamente
dipinti e le
modanature d'oro annerito nel quale
si era nascosto tante volte, da piccolo. C'era lo scaffale di legno lucido con
i libri di
scuola gualciti. Sulla parete,
dietro, era appeso il lacero arazzo fiammingo dove un re e una regina sbiaditi
giocavano a
scacchi in un giardino mentre lì
vicino una brigata di falconieri cavalcava reggendo sul polso guantato alcuni
uccelli
incappucciati. Come ricordava ogni
particolare! Mentre si guardava in giro, gli ritornava in mente ogni momento
della
sua infanzia solitaria. Ricordò la
purezza senza macchia della sua fanciullezza e gli parve orribile che proprio
qui
dovesse essere nascosto quel fatale
ritratto. Quanto poco aveva pensato, in quei giorni ormai passati, a tutto ciò
che lo
attendeva!
Ma nella casa nessun posto era
altrettanto sicuro da sguardi indiscreti. La chiave era nelle sue mani e nessun
altro poteva entrare. Sotto il manto
purpureo il volto dipinto sulla tela poteva diventare bestiale, disfatto,
sozzo: che
importanza aveva? Nessuno l'avrebbe
potuto vedere. Neppure lui. Perché vedere la disgustosa corruzione della sua
anima? Avrebbe conservato la
giovinezza: questo bastava. E dopotutto non avrebbe potuto diventare migliore?
Non
c'era nessun motivo per cui il
futuro dovesse essere così vergognoso. Avrebbe potuto incontrare un amore che
lo
avrebbe purificato e protetto da
quei peccati che già sembrava gli si agitassero nello spirito e nella carne:
quegli strani
peccati privi di forma che proprio
dal loro mistero traevano il loro fascino e la loro elusività. Forse, un
giorno,
l'espressione crudele sarebbe
scomparsa da quelle labbra sensuali e scarlatte e lui avrebbe potuto mostrare
al mondo il
capolavoro di Basil Hallward.
No, era impossibile. Un'ora dopo
l'altra, una settimana dopo l'altra, la cosa sulla tela sarebbe invecchiata.
Poteva sfuggire l'orrore del
peccato, ma l'avrebbe attesa l'orrore della vecchiaia. Le guance sarebbero
divenute incavate
o cascanti, gialle zampe di gallina
si sarebbero allargate intorno agli occhi scoloriti rendendoli disgustosi. I
capelli
avrebbero perso la lucentezza, la
bocca sarebbe divenuta larga e cadente, sciocca e volgare, come sono le bocche
dei
vecchi. Avrebbe avuto il collo
grinzoso, le mani fredde con l'azzurro delle vene in rilievo, come le ricordava
in quel
nonno così severo durante la sua
infanzia. Non c'era scampo, bisognava nascondere il quadro.
«Lo porti dentro, per favore, signor
Hubbard,» disse stancamente voltandosi. «Mi dispiace - di averla fatta
aspettare tanto tempo. Stavo
pensando ad altro.»
«Un po' di riposo fa sempre piacere,
signor Gray,» rispose il corniciaio che ansimava ancora. «Dove dobbiamo
metterlo, signore?»
«Oh, in un posto qualsiasi. Qui
andrà bene. Non lo voglio appeso. Basta che lo appoggi al muro. Grazie.»
«È possibile dare un'occhiata
all'opera, signore?»
Dorian sobbalzò. «Non le
interesserebbe, signor Hubbard,» disse, tenendogli gli occhi addosso. Si
sentiva
pronto ad assalirlo e a gettarlo a
terra se avesse osato sollevare il prezioso drappo che nascondeva il segreto
della sua
vita. «Non la disturberò oltre. Le
sono molto grato, è stato molto gentile a venire.»
«Non è nulla, non è nulla, signor
Gray. Sempre ai suoi ordini, signore.» E il signor Hubbard scese
pesantemente giù per le scale,
seguito dall'aiutante che si voltò a guardare Dorian con un'espressione di
timida
meraviglia sul volto rozzo e brutto.
Non aveva mai visto un uomo così meraviglioso.
Quando il rumore dei loro passi si
spense, Dorian chiuse la porta e infilò la chiave in tasca. Adesso si sentiva
sicuro, nessuno avrebbe visto
quell'orribile cosa. Nessuno sguardo, eccetto il suo, avrebbe visto la sua
vergogna.
Rientrando in biblioteca si accorse
che erano appena passate le cinque e il tè era già stato preparato. Su un
tavolino di legno scuro profumato,
dai ricchi intarsi di madreperla - un regalo di Lady Radley moglie del suo
tutore, una
graziosa malata di professione che
aveva trascorso al Cairo l'inverno precedente - era posato un biglietto di Lord
Henry
e, accanto, un libro rilegato in
carta gialla con la copertina leggermente consumata e macchiata sul bordo. Sul
vassoio
del tè era posata una copia della
terza edizione della St. James's Gazette. Evidentemente Victor era
tornato. Si chiese se
avesse incontrato gli uomini nel
vestibolo mentre se ne andavano e fosse riuscito a carpire loro quello che
avevano
fatto. Si sarebbe accorto certamente
della mancanza del quadro, anzi doveva già essersene accorto mentre preparava
il
tè. Il paravento non era stato
rimesso a posto e sul muro si notava uno spazio vuoto. Forse lo avrebbe
scoperto una notte
nell'atto di scivolare di sopra per
forzare la porta della stanza. Era una cosa terribile avere una spia nella
propria casa.
Aveva sentito di persone ricche
ricattate per tutta la vita da un servo che aveva letto una lettera, oppure
ascoltato di
nascosto una conversazione, raccolto
l'indirizzo scritto su un biglietto da visita, trovato un fiore appassito o un
brandello
di pizzo gualcito sotto un cuscino.
Sospirò e, dopo essersi versato il
tè, aprì il biglietto di Lord Henry. Gli diceva semplicemente che gli mandava
il giornale della sera e un libro
che avrebbe potuto interessarlo. Si sarebbe trovato al club alle otto meno un
quarto. Aprì
pigramente il giornale e lo scorse.
Lo sguardo fu attratto da un segno a matita rossa in quinta pagina.
Indicava questo trafiletto:
INCHIESTA SULLA MORTE DI UN'ATTRICE.
Questa mattina a Bell Tavern, in Oxton Road, il signor
Danby, procuratore distrettuale, ha
svolto un'inchiesta sulla morte di Sibyl Vane, una giovane attrice da poco
assunta al
Royal Theatre, Holborn. L'inchiesta
si è conclusa con un verdetto di morte accidentale. Molta simpatia è stata
dimostrata alla madre della defunta
signorina, profondamente commossa durante la propria deposizione e durante
quella
del dottor Birrel che ha praticato
la necroscopia della salma.
Si accigliò e, stracciato in due il
giornale, attraversò la stanza e lo gettò via. Com'era sgradevole tutto ciò. E
come questa sgradevolezza rendeva
terribilmente vere le cose. Era leggermente irritato con Lord Henry che gli
aveva
fatto avere la notizia. Ed era stato
davvero sciocco da parte sua segnarla a matita rossa. Victor avrebbe potuto
leggerla.
Sapeva anche troppo bene l'inglese
per poterlo fare.
Forse l'aveva letta e aveva
cominciato a sospettare qualche cosa. Ma che cosa importava? Che cosa aveva a
che
fare Dorian Gray con la morte di
Sibyl Vane? Nulla da temere. Dorian Gray non l'aveva uccisa.
Lo sguardo gli cadde sul libro dalla
copertina gialla che Lord Henry gli aveva fatto avere. Si domandò di che
cosa si trattasse. Andò verso il
piccolo scaffale ottagonale color perla, che gli era sempre sembrato il lavoro
di una
strana specie di api egiziane dedite
a lavori in argento e, preso il volume, sprofondò in una poltrona e cominciò a
sfogliarlo. Dopo pochi minuti era
preso dalla lettura. Era il libro più strano che avesse mai letto.
Gli pareva che tutti i peccati del
mondo, in abiti squisiti e al dolce suono del flauto, gli passassero davanti in
muta processione. Cose che aveva
appena debolmente sognato divennero reali. Cose che non aveva mai sognato gli
si
rivelarono a poco a poco.
Era un romanzo senza intreccio e con
un solo personaggio, la pura analisi psicologica di un giovane parigino
che aveva trascorso la vita cercando
di realizzare nel diciannovesimo secolo tutte le passioni e le idee di ogni
altro
secolo fuorché del suo, e di
riassumere in sé, per così dire, i vari stati d'animo che lo spirito del mondo
aveva
attraversato, amando per la loro
artificiosità sia quelle rinunce prive di saggezza che gli uomini hanno
scioccamente
chiamato virtù, sia quelle naturali
ribellioni cui i saggi tuttora danno il nome di peccato. Lo stile in cui era
scritto era
quel curioso stile prezioso, a un
tempo vivido e oscuro, pieno di argot e di arcaismi, di espressioni
tecniche e di
elaborati giri di parole, proprio
delle opere di alcuni dei migliori esponenti della scuola francese dei symbolites.
Vi
erano metafore mostruose come
orchidee e dal colore altrettanto elusivo. La vita dei sensi veniva descritta
nel
linguaggio della filosofia mistica.
A volte era difficile capire se si leggevano le estasi spirituali di un santo
medioevale o
le morbose confessioni di un moderno
peccatore. Era un libro velenoso. Il greve odore dell'incenso pareva esalare
dalle
sue pagine e turbare la mente. Il
ritmo puro delle frasi, la monotonia sottile della loro musica, così ricca di
complicati
ritornelli e di movimenti
minuziosamente ripetuti, producevano nella mente del giovane, intento a
leggerne un capitolo
dopo l'altro, una specie di
fantasticheria, una sognante malattia, che gli impedì di accorgersi che il
giorno era alla fine e
che cominciavano a salire le ombre.
Senza nubi, trafitto da un'unica
stella solitaria, un cielo verderame luceva oltre le finestre. Continuò a
leggere a
questa debole luce finché non vide
più. Poi, quando il cameriere gli ebbe ricordato più volte che era tardi, si
alzò, andò
nella stanza vicina, posò il libro
sul piccolo tavolo fiorentino che aveva sempre accanto al letto e cominciò a
vestirsi per
il pranzo.
Erano quasi le nove quando raggiunse
il club, dove trovò Lord Henry seduto solo nel salone di soggiorno con
un'aria molto annoiata.
«Mi dispiace moltissimo, Harry,»
esclamò, «ma in realtà è tutta colpa tua. Quel libro che mi hai mandato mi ha
talmente affascinato che ho lasciato
passare il tempo senza accorgermi.»
«Sì, immaginavo che ti sarebbe
piaciuto,» rispose l'ospite alzandosi.
«Non ho detto che mi è piaciuto,
Harry. Ho detto che mi ha affascinato. C'è una grande differenza.»
«Ah, te ne sei accorto?» mormorò
Lord Henry. E passarono nella sala da pranzo.
XI
Per anni Dorian Gray non riuscì a
liberarsi dall'influenza di questo libro. O forse sarebbe più esatto dire che
non cercò mai di liberarsene. Fece
arrivare da Parigi non meno di nove copie di lusso della prima edizione e le
fece
rilegare in diversi colori perché si
intonassero ai suoi vari stati d'animo e alle mutevoli fantasie di una natura
sulla quale
a volte pareva aver perso ogni
controllo. Il protagonista, il meraviglioso giovane parigino nel quale il
temperamento
romantico e quello scientifico si
erano così stranamente fusi, divenne per lui una sorta di suo precursore. E, in
realtà,
tutto il libro gli pareva contenere
la storia della sua vita, scritta prima che lui l'avesse vissuta.
In un punto fu più fortunato del
fantastico protagonista del romanzo. Non conobbe mai, in realtà non ebbe
nessun motivo per conoscerlo, quel
terrore un po' grottesco per gli specchi, per le superfici lucide di metallo,
per l'acqua
calma, che aveva colto il giovane
parigino fin dalla giovinezza, provocato dall'improvviso decadimento di una
bellezza
un tempo davvero notevole. Con una
gioia quasi crudele, forse in ogni gioia, e certo in ogni piacere, la crudeltà
ha la
sua parte, era solito leggere
l'ultima parte del libro, con il tragico anche se un po' ridondante resoconto
del dolore e della
disperazione dell'uomo che aveva
perso ciò che più apprezzava negli altri e nella vita.
Infatti la meravigliosa bellezza che
aveva così affascinato Basil Hallward, e molti altri con lui, sembrava non
abbandonarlo mai. Anche quelli che
avevano sentito dire le peggiori cose sul suo conto, e di tanto in tanto strane
voci
sul suo modo di vivere si
diffondevano per Londra e diventavano argomento di chiacchiere nei club, quando
lo
vedevano non potevano credere a
nulla di disonorevole su di lui. Aveva sempre l'aspetto di una persona che non
si è
lasciata macchiare dal mondo. Uomini
che facevano discorsi osceni tacevano immediatamente quando appariva Dorian
Gray. Nella purezza del suo viso
c'era qualcosa che pareva rimproverarli. Bastava la sua presenza per
risvegliare in loro
il ricordo dell'innocenza che
avevano macchiato. Si domandavano come un essere così affascinante e pieno di
grazia
avesse potuto sfuggire alla vergogna
di un'epoca tanto sordida quanto sensuale.
Spesso, di ritorno da una di quelle
sue assenze misteriose e prolungate che facevano nascere così strane
congetture tra quelli che erano i
suoi amici, o che credevano di esserlo, saliva di soppiatto fino alla stanza
chiusa, apriva
la porta con la chiave che non
lasciava mai e, con lo specchio, si poneva davanti al ritratto di Basil
Hallward. Guardava
ora il volto malvagio e invecchiato
sulla tela, ora quello giovane e gentile che gli sorrideva dalla liscia
superficie di
vetro e la violenza del contrasto
acuiva il suo piacere. Era sempre più innamorato della sua bellezza e sempre
più
interessato alla corruzione della
sua anima. Esaminava con cura minuziosa, e a volte con una mostruosa terribile
soddisfazione, le rughe ripugnanti
che marcavano la fronte avvizzita, o avanzavano lentamente intorno alla bocca
pesante e sensuale, chiedendosi a
volte se fossero più orribili i segni del peccato o quelli dell'età. Poneva le
sue mani
bianche accanto a quelle ruvide e
tumefatte del quadro e sorrideva. Rideva di scherno verso quel corpo sformato e
quelle membra indebolite.
Di notte, in verità, quando giaceva
insonne nella sua camera delicatamente profumata, o nella sordida stanza di
una piccola taverna malfamata vicino
ai Docks che era solito frequentare travestito e sotto falso nome, c'erano momenti
in cui pensava alla rovina in cui
aveva precipitato la sua anima con una pietà tanto più cocente in quanto
puramente
egoistica. Ma simili momenti erano
rari. Quella curiosità per la vita che per primo Lord Henry aveva risvegliato
in lui
mentre erano seduti insieme nel
giardino del loro amico sembrava aumentare quanto più veniva soddisfatta.
Quanto più
sapeva tanto più desiderava sapere.
Aveva folli appetiti che quanto più venivano soddisfatti tanto più si facevano
ingordi.
Ma tutto ciò non lo spingeva affatto
ad essere trascurato, perlomeno nei rapporti sociali. Un paio di volte al
mese durante l'inverno, o tutti i
mercoledì durante la season, apriva la sua bella casa e i più celebri
musicisti del mondo
affascinavano i suoi ospiti con i
prodigi della loro arte. Le sue cenette intime, che organizzava sempre
assistito da Lord
Henry, erano celebri sia per
l'accurata scelta degli ospiti e per l'intelligente disposizione dei posti a
tavola, che per il
gusto squisito mostrato nella
decorazione della tavola, con sottili armonie di fiori esotici, di tessuti
ricamati, di antico
vasellame d'argento e d'oro. Erano
molti, in realtà, specialmente tra i giovanissimi quelli che vedevano, o
immaginavano di vedere, in Dorian
Gray la personificazione di un tipo umano spesso sognato ai tempi di Oxford o
di
Eton, un tipo che univa in sé
qualche cosa della vera cultura dello studioso con tutta la grazia, la
distinzione e la
perfezione di modi del cittadino del
mondo. Dorian Gray appariva loro, uno di quelli che Dante dice che hanno
cercato
di «rendersi perfetti adorando la
bellezza». Come Gauthier, era uno di coloro per i quali «il mondo visibile
esiste».
E certo per lui la vita stessa era
la prima e la maggiore delle arti, quella per cui tutte le altre non erano che
un'introduzione. La moda, che per un
attimo rende universali le cose più fantastiche, e il dandismo che a suo modo è
un
tentativo di asserire l'assoluta
modernità della bellezza, naturalmente avevano per lui il loro fascino. Il suo
modo di
vestire, lo stile personalissimo che
di tanto in tanto ostentava, avevano una marcata influenza sui giovani
raffinati dei
balli di Mayfair e delle vetrine dei
club di Pall Mall, che lo copiavano in ogni suo gesto e che cercavano di
ripetere il
fascino casuale delle sue eleganti,
anche se per lui non troppo serie, affettazioni
Infatti, pur accettando con molta
prontezza la posizione che gli era stata immediatamente offerta non appena
raggiunta la maggiore età, e pur
provando, in verità, un sottile piacere all'idea di poter essere per la Londra
dei suoi
tempi ciò che per la Roma di Nerone
era stato l'autore del Satyricon, tuttavia nell'intimo desiderava essere
qualche cosa
di più che un semplice arbiter
elegantiarum a cui chiedere consigli sul modo di portare un gioiello, di annodare
una
cravatta, di tenere un bastone.
Cercava, invece, di elaborare un nuovo stile di vita, con la sua filosofia
ragionata e i suoi
principi ordinati, uno stile che
nella spiritualizzazione dei sensi trovasse la sua più alta realizzazione.
L'adorazione dei sensi spesso e
molto giustamente è caduta in discredito perché gli uomini provano un istintivo
terrore verso le sensazioni e le
passioni più forti di loro che sanno di dividere con forme di esistenza meno
organizzate.
Ma a Dorian Gray pareva che nessuno
avesse mai compreso la vera natura dei propri sensi e che essi fossero rimasti
animaleschi e selvaggi solo perché
l'umanità aveva tentato di soggiogarli o di mortificarli attraverso la
sofferenza invece
di proporsi di farne elementi di
nuova spiritualità, la cui caratteristica dominante avrebbe dovuto essere un
raffinato
istinto del bello. Quando si voltava
a guardare il cammino dell'uomo nella storia, un senso di perdita lo
ossessionava. A
quante cose si era rinunciato! E per
un così misero fine! Si erano viste folli rinunce dettate dall'ostinazione,
forme
mostruose di autopunizione e di
abnegazione nate dalla paura e finite in forme di degradazione infinitamente
più
terribili di tutte quelle presunte
degradazioni da cui, nella loro ignoranza, gli uomini avevano cercato di
fuggire. La
natura, nella sua meravigliosa
ironia, spingeva l'anacoreta a nutrirsi insieme agli animali selvaggi del
deserto e dava
come compagni all'eremita gli
animali dei campi.
Sì, come aveva preannunciato Lord
Henry, sarebbe sorto un nuovo edonismo che avrebbe ricreato la vita e
l'avrebbe salvata dal duro e
sgradevole puritanesimo che ai giorni nostri conosce un singolare risveglio.
Questo
edonismo avrebbe dovuto certamente
appoggiarsi all'intelletto ma non avrebbe mai accettato teorie o sistemi
implicanti
la rinuncia a qualunque esperienza
emotiva. Suo scopo infatti avrebbe dovuto essere l'esperienza stessa e non i
suoi
frutti, dolci o amari che fossero.
Avrebbe ignorato sia l'ascetismo che mistifica i sensi, sia la volgare dissolutezza
che li
assopisce. Avrebbe invece insegnato
agli uomini a concentrarsi negli attimi di una vita che è essa stessa solo un
attimo.
A pochi di noi non è mai capitato di
svegliarsi prima dell'alba, sia dopo una di quelle notti senza sogni che
quasi ci fanno innamorare della
morte, che dopo una di quelle notti di orrore e di gioia mostruosa quando nelle
regioni
della mente passano fantasmi più
terribili della realtà stessa, fantasmi imbevuti di quella vita ricca di colore
che si
nasconde nelle cose grottesche e che
dà all'arte gotica la sua duratura vitalità, essendo quest'arte, si potrebbe
pensare,
propria di chi ha avuto la mente
turbata dal malanno della reverie. A poco a poco, bianche dita si
insinuano attraverso le
cortine e paiono tremare. Ombre mute
dalle nere forme fantastiche strisciano negli angoli della stanza e vi si
acquattano.
Fuori, gli uccelli si agitano tra le
fronde, si sentono i rumori degli uomini che vanno al lavoro, o i sospiri e i
singhiozzi
del vento che scende dai monti e si
aggira intorno alla casa solitaria come se temesse di svegliare chi dorme e
tuttavia
costretto a evocare il sonno dalla
sua purpurea caverna. I soffici veli di nebbia si sollevano a uno a uno, a
gradi le cose
riacquistano forma e colore, e noi
vediamo l'alba che restituisce al mondo l'antico aspetto. I pallidi specchi
riprendono la
loro vita di imitazione. I
candelabri senza fiamma sono dove li abbiamo lasciati. Accanto, c'è il libro a
metà intonso che
stavamo studiando o il fiore,
sostenuto dal filo di ferro, che portavamo al ballo, la lettera che, per
timore, non abbiamo
letto o che abbiamo letto troppe
volte. Nulla ci appare cambiato. Dalle ombre della notte esce di nuovo la vita
che
conosciamo. Dobbiamo riprenderla
dove l'abbiamo lasciata e a questo punto, pian piano, ci pervade la terribile
sensazione di dover continuare a
impiegare energia nello stesso monotono circolo di abitudini stereotipate, o
anche il
desiderio sfrenato che una mattina i
nostri occhi si possano aprire su un mondo che nell'oscurità si è rinnovato per
il
nostro piacere, un mondo dove le
cose abbiano nuove forme e colori, siano diverse o abbiano altri segreti, un
mondo in
cui il passato abbia poca o nessuna
importanza, o comunque sopravviva in forme ignare del dovere o del rimpianto:
anche il ricordo della gioia,
infatti, possiede una sua amarezza e quello del piacere una sua pena.
La creazione di simili mondi pareva
a Dorian Gray il vero scopo, o uno dei veri scopi, della vita; e nella sua
ricerca di sensazioni a un tempo
nuove e piacevoli, provviste di quegli elementi insoliti così essenziali per lo
spirito
romantico, adottava spesso modi di
pensiero che sapeva essere del tutto estranei alla sua natura. Si abbandonava
alla
loro sottile influenza, e poi, dopo
averne per così dire afferrato il colore e dopo aver soddisfatto la sua
curiosità
intellettuale, li lasciava perdere
con quella curiosa indifferenza che non è incompatibile con un temperamento
ardente,
ma che anzi, secondo alcuni
psicologi moderni, spesso ne è una condizione.
Una volta si sparse la voce che
stesse per convertirsi al cattolicesimo, e certamente il rito romano aveva
sempre
avuto per lui un grande fascino. Il
sacrificio quotidiano, più terribile di tutti i sacrifici del mondo antico, lo
commuoveva sia per il suo superbo rifiuto
dell'evidenza dei sensi che per la primitiva semplicità dei suoi elementi e per
l'eterno pathos della tragedia umana
che vorrebbe rappresentare. Gli piaceva inginocchiarsi sul freddo pavimento di
marmo e guardare il sacerdote nei
suoi rigidi paramenti fioriti quando scostava lentamente con le bianche mani il
velo
del tabernacolo o sollevava
l'ostensorio tempestato di gemme simile di forma a una lanterna, con quella
pallida ostia che
a volte si direbbe volentieri sia
davvero il panis coelestis, il pane degli angeli; o quando, indossando
le vesti della
passione di Cristo, spezzava l'ostia
nel calice battendosi il petto per i suoi peccati. I turiboli fumanti, agitati
nell'aria
come grandi fiori dorati da ragazzi
severi vestiti di pizzi e porpora, avevano su di lui un sottile fascino. Mentre
usciva
era solito guardare con un senso di
meraviglia i confessionali bui e sedeva a lungo nell'ombra profonda ascoltando
uomini e donne che sussurravano
attraverso la grata consunta la storia vera della loro vita.
Ma non commise mai l'errore di
arrestare il suo sviluppo intellettuale accettando formalmente un credo o un
sistema, o di confondere con la casa
dove si vive una locanda adatta solo per il sonno di una notte o per le poche
ore di
una notte senza stelle in cui la
luna si mostra a fatica. Il misticismo, con il suo meraviglioso potere di
renderci insolite le
cose banali, e il sottile
antinomismo che pare accompagnarlo sempre, lo interessarono per un breve
periodo; per un
altrettanto breve periodo si dedicò
alle dottrine del movimento darwinista tedesco, e provò un singolare piacere
nel far
risalire i pensieri e le passioni
degli uomini a qualche perlacea cellula cerebrale, o a qualche bianco nervo del
corpo,
divertendosi all'idea dell'assoluta
dipendenza dello spirito da determinate condizioni fisiche, sane o malate,
normali o
morbose. Tuttavia, come già si è
detto, nessuna teoria della vita gli pareva avere qualche importanza se
paragonata alla
vita stessa. Era acutamente
consapevole di quanto sia sterile ogni speculazione intellettuale quando è
separata
dall'azione e dall'esperienza.
Sapeva che i sensi non meno dell'anima hanno i loro misteri spirituali da
rivelare.
Per questo volle studiare i profumi
e i segreti della loro fabbricazione distillando olii odorosi e bruciando
resine
profumate provenienti dall'Oriente.
Si rese conto che non vi era nessuno stato d'animo che non avesse una
controparte
nella vita dei sensi e tentò di
scoprire i loro veri legami, domandandosi perché l'incenso spinge al
misticismo, perché
l'ambra grigia eccita le passioni,
le violette evocano il ricordo di spente passioni, il muschio turba
l'intelletto e la
magnolia colora l'immaginazione.
Numerosi furono i tentativi di elaborare un'autentica psicologia dei profumi e
di
valutare le molteplici influenze
delle radici dall'aroma dolce e dei fiori ricchi di polline profumato, dei
balsami
aromatici, dei legni scuri e
fragranti, dello spiganardo nauseante, dell'ovenia che fa impazzire, dell'aloe
che, dicono,
scaccia la malinconia dall'anima.
In un altro periodo si dedicò
totalmente alla musica, e in una lunga stanza dalle finestre inferriate con il
soffitto
rosso e oro e pareti di lacca verde
oliva, era solito tenere strani concerti, in cui zingari appassionati
strappavano musiche
selvagge da piccole cetre, o gravi
tunisini dai gialli barracani pizzicavano le corde di enormi liuti, mentre
negri
sorridenti battevano con monotonia
su tamburi di rame e, rannicchiati su tappeti scarlatti, sottili indiani in
turbante
soffiavano in lunghi pifferi di canna
o di ottone e incantavano, o fingevano di incantare, grandi serpenti dal
cappuccio e
orribili vipere cornute. I tempi
discordanti e le acute dissonanze della musica primitiva a volte lo
commuovevano,
quando ormai la grazia di Schubert,
la bella malinconia di Chopin e le possenti armonie dello stesso Beethoven non
ridestavano più il suo interesse.
Raccolse da tutte le parti del mondo i più strani strumenti che era possibile
trovare sia
nelle tombe di popoli scomparsi, che
tra le poche tribù selvagge sopravvissute al contatto con la civiltà
occidentale, e
amava toccarli e provarli. Possedeva
il misterioso juruparis degli indios del Rio Negro, che le donne non
devono mai
vedere, e sul quale nemmeno i
giovani possono posare lo sguardo se non dopo una prova di digiuno e di
flagellazione,
le giare di terracotta degli indiani
che hanno un suono acuto come grida di uccelli; flauti di ossa umane come
quelli che
Alfonso de Ovalle udì in Cile, i
sonori diaspri verdi che si trovano nella zona di Cuzco e che emettono note di
singolare
dolcezza. Aveva zucche dipinte,
piene di sassolini che crepitavano quando erano scosse; il lungo clarino
messicano nel
quale l'aria non viene soffiata ma
aspirata dal suonatore; l'aspro ture delle tribù amazzoniche suonato
dalle sentinelle
che siedono tutto il giorno su alti
alberi e che si dice possa essere udito alla distanza di tre leghe; il teponazil
che ha due
linguette vibranti di legno e viene
percosso con bastoncini ricoperti da una gomma elastica tratta dalla linfa
lattiginosa
delle piante; le campane yotl degli
aztechi riunite in grappoli come l'uva; un enorme tamburo cilindrico coperto
dalla
pelle di grossi serpenti come quello
che Bernal Diaz vide quando andò con Cortés nel tempio messicano e del cui
suono
pieno di tristezza ci lasciò una
così vivida descrizione. Il carattere fantastico di questi strumenti lo
affascinava e provava
uno strano piacere al pensiero che
l'arte, come la natura, ha i suoi mostri, esseri di forma bestiale e dalle
orribili voci.
Tuttavia dopo qualche tempo se ne
stancò e, nel suo palco all'Opera, solo o in compagnia di Lord Henry, ascoltava
con
gioia rapita il Tannhäuser,
ritrovando nel preludio di questa grande opera d'arte la rappresentazione della
tragedia della
sua anima.
In un certo periodo si dedicò allo
studio dei gioielli e apparve a un ballo nel costume di Anne de Joyeuse,
ammiraglia di Francia, con un
vestito coperto di cinquecentosessanta perle. Questa passione lo dominò per
anni interi, e
in verità bisogna dire che non lo
abbandonò mai. Spesso trascorreva l'intera giornata ordinando e riordinando nei
loro
astucci le varie pietre della sua
collezione, come il crisoberillo verde oliva che diviene rosso sotto la luce
artificiale, il
cimofano striato da un filo
d'argento, il crisolito color pistacchio, i topazi rosa o ambrati come il vino,
i carbonchi
dall'intenso colore scarlatto e
dalle tremule stelle a quattro raggi, i cinnami rosso fiamma, le spinelle
arancioni o violette
e le ametiste con i loro strati
alternati di zaffiro e rubino. Amava l'oro rosso dell'arenaria, la bianchezza
perlacea della
pietra lunare, lo spezzato
arcobaleno dell'opale lattea. Fece arrivare da Amsterdam tre smeraldi di
dimensioni
straordinarie e di colore
intensissimo e si procurò una turchese de la vieille roche che tutti gli
intenditori gli
invidiavano.
Sui gioielli scoprì anche storie
meravigliose. Nella Clericalis Disciplina di Alfonso si menzionava un
serpente
dagli occhi di vero giacinto, e
nell'avventurosa storia di Alessandro, il conquistatore di Ematia, si diceva che
avesse
trovato nella valle del Giordano
serpenti «con collane di autentici smeraldi che spuntavano sul loro dorso».
Filostrato
riferisce che il cervello di un
drago conteneva una gemma e che «mostrandogli lettere d'oro e una tunica
scarlatta» fu
possibile far cadere il mostro in un
sonno magico e ucciderlo. Secondo il grande alchimista Pierre de Boniface, il
diamante rende invisibili e l'agata
indiana eloquenti. La corniola calma la collera, il giacinto favorisce il sonno
e
l'ametista dissipa i fumi del vino.
Il granato scaccia i demoni e l'opale ha tolto alla luna il suo colore. La
selenite cresce
o cala a seconda della luna e solo
il sangue di capretto può macchiare il meloceo che rivela i ladri. Leonardo
Camillus
aveva visto una pietra bianca tolta
dal cervello di un rospo appena ucciso e che era un antidoto sicuro contro i
veleni. Il
bezoar, che si trova nel cuore del
daino arabo, è un amuleto contro la peste. Nei nidi degli uccelli d'Arabia si
trova
l'aspilate, che secondo Democrito
protegge chi lo porta dai pericoli del fuoco.
Durante la cerimonia
dell'incoronazione, il re di Ceylon attraversa a cavallo la città tenendo in
mano un grosso
rubino. Le porte del palazzo del
Prete Gianni erano «di sardio e portavano incastonate le corna dell'aspide
cornuta, onde
nessuno potesse entrare portando
veleni». Sul frontone c'erano «due mele d'oro, nelle quali erano incastonati
due
carbonchi», perché di giorno
scintillasse l'oro e i carbonchi di notte. Nello strano romanzo di Lodge Una
margherita in
America, si afferma che nella stanza della
regina si potevano osservare «tutte le caste donne del mondo, cesellate in
argento, che vedevano con limpidi
occhi di crisalidi, carbonchi, zaffiri e verdi smeraldi». Marco Polo aveva
visto gli
abitanti del Cipango porre perle rosa
nella bocca dei morti. Un mostro marino si innamorò di una perla che un
pescatore
portò al re Perozes, uccise il
ladro, e pianse per sette lune la perdita della sua amata. Quando gli Unni
attirarono il re
nella grande fossa - è Procopio che
lo racconta - egli la gettò via e non la ritrovò più nonostante l'imperatore
Anastasio
avesse offerto cinque libbre d'oro
per averla. Il re del Malabar aveva mostrato a un veneziano un rosario di
trecentoquattro perle, una per
ognuno degli dei che adorava.
Quando il duca Valentino, figlio di
Alessandro VI, fece visita a Luigi XII di Francia, montava, secondo
Brantôme, un cavallo coperto di
piastre d'oro e portava un cappello ornato da un doppio giro di rubini che
emettevano
intensi bagliori. Carlo
d'Inghilterra cavalcava con staffe sospese a cinghie ornate da
quattrocentoventun diamanti.
Riccardo II aveva un mantello
coperto di rubini valutato trentamila marchi. Hall descrive Enrico VII mentre
si reca alla
Torre di Londra prima
dell'incoronazione, «con un farsetto a ricami d'oro, la piastra pettorale
ricamata con diamanti e
altre pietre preziose e intorno al
collo una grande gorgera tempestata di enormi rubini». I favoriti di Giacomo I
portavano orecchini di smeraldi
avvolti in filigrana d'oro. Edoardo II regalò a Piers Gaveston un'armatura di
oro rosso
tempestata di giacinti, un collare
di rose d'oro con turchesi e un elmo parsemé di perle. Enrico II portava
guanti
ingioiellati lunghi fino al gomito e
aveva un guanto da falcone ornato con dodici rubini e cinquantadue grandi perle
orientali. Il cappello ducale di
Carlo il Temerario, ultimo duca di Borgogna della sua casata, era ornato di
perle a goccia
e di zaffiri.
Com'era raffinata la vita d'un
tempo! Com'erano fastosi la sua pompa e i suoi ornamenti! Perfino la letteratura
sul lusso dei morti era
meravigliosa.
Poi rivolse l'attenzione ai ricami e
agli arazzi che, nelle gelide stanze delle regioni nordiche, sostituiscono gli
affreschi. Mentre si dedicava a
questo studio - ebbe sempre la straordinaria capacità di lasciarsi
completamente
assorbire dalla cosa che lo
interessava in quel momento, qualunque fosse - provò un'infinita tristezza al
pensiero della
rovina che il tempo infliggeva alle
cose belle e meravigliose. A questa rovina, comunque, lui era sfuggito. Le
estati si
susseguivano, le gialle giunchiglie
fiorivano e morivano, notti d'orrore ripetevano la storia della loro vergogna,
ma
Dorian Gray non subiva nessun
cambiamento. L'inverno non deformava il suo volto, né segnava il suo incarnato
fresco
come un fiore. Com'era diversa la
sorte delle cose materiali! Dov'erano andate? Dov'era la grande veste color del
croco,
per la quale gli dei avevano
combattuto contro i giganti, che brune fanciulle avevano tessuto per il piacere
di Atena?
Dov'era l'immenso velario che Nerone
aveva teso sopra il Colosseo a Roma, quella titanica vela di porpora sulla
quale
era raffigurato il cielo stellato e
Apollo che conduceva un carro tirato da bianchi cavalli dai finimenti d'oro?
Avrebbe
desiderato vedere le singolari
tovaglie tessute per il Sacerdote del Sole, sulle quali erano esposti i piatti
e le leccornie
più squisiti che si potessero
desiderare a una festa; il sudario del re Cilperico, con le sue trecento api
d'oro; le vesti
fantastiche che avevano suscitato
l'indignazione del vescovo del Ponto e che portavano figure di «leoni, pantere,
orsi,
cani, foreste, rocce, cacciatori:
tutto ciò che in realtà un pittore può copiare dalla natura»; il mantello
indossato una
volta da Carlo d'Orléans, sulle cui
maniche erano ricamati i versi di una canzone che cominciava con «Madame,
je suis
tout joyeux» mentre il pentagramma dell'accompagnamento
musicale era lavorato in filo d'oro e ogni nota, di forma
quadrata come allora si usava, era
composta da quattro perle. Aveva letto della stanza nel palazzo di Reims
preparata
per la regina Giovanna di Borgogna,
decorata con «milletrecentoventun pappagalli ricamati, recanti il blasone del
re, e
cinquecentosessantun farfalle dalle
ali parimenti adorne del blasone della regina, il tutto lavorato in oro».
Caterina de'
Medici si era fatta fare una coltre
da lutto di velluto nero cosparso di mezzelune e di soli. Le cortine dei
baldacchino di
damasco erano ornate di ghirlande e
intrecci di foglie su fondo oro e argento, e i bordi frangiati di ricami di
perle; il
letto era in una stanza dalle pareti
tappezzate da una fila di stemmi della regina fatte con appliques di velluto
nero su
tessuto d'argento. Luigi XIV aveva
nel suo appartamento delle cariatidi ricamate in oro alte cinque metri. Il
letto da
cerimonia di Sobieski, re di
Polonia, era di broccato d'oro di Smirne sul quale, con turchesi, erano
ricamati versetti del
Corano. I sostegni d'argento dorato
erano meravigliosamente cesellati e adorni di medaglioni di smalto e pietre
preziose.
Era stato catturato nel campo turco
davanti a Vienna e, sotto i tremuli bagliori d'oro del baldacchino, era stato
innalzato
lo stendardo di Maometto.
Così, per un anno intero, cercò di
accumulare i più squisiti esemplari di tessuti e ricami che poté trovare:
delicate mussole di Delhi finemente
intessute di palme dalle foglie d'oro e trapunte con ali iridescenti di
scarabei; garze
di Dacca che per la loro trasparenza
sono conosciute in Oriente con il nome di «aria filata», «acqua corrente»,
«rugiada
della sera»; strani tessuti a figure
di Giava; elaborate tappezzerie cinesi; libri rilegati in raso fulvo o in seta
azzurro
pallido intessuta di fleurs de
lys, di uccelli e figure; veli li lacis lavorati a punto ungherese;
broccati siciliani e rigidi
velluti spagnoli; tessuti georgiani
ricamati con monete d'oro, e fukusa giapponesi dalle sfumature color
verde oro e dagli
uccelli riccamente piumati.
Aveva anche una particolare passione
per le vesti ecclesiastiche, come del resto per tutto ciò che aveva a che
fare con il culto cattolico. Nelle
lunghe cassapanche di cedro, allineate nella galleria settentrionale della sua
casa, aveva
riposto rari e splendidi esemplari
di quello che in realtà è l'abbigliamento della sposa di Cristo, obbligata a
indossare
porpora, gioielli e lini raffinati
per nascondere il corpo pallido e macerato, consunto dalle sofferenze volute e
ferito dal
volontario martirio. Possedeva un
magnifico piviale di seta cremisi e di damasco intessuto d'oro, con un disegno
ripetuto di melograni d'oro tra
fiori stilizzati a sei petali e, sui due lati, un motivo di ananas in grani di
perla. Gli
orphreys erano divisi in pannelli che
rappresentavano scene della vita della Vergine mentre sul cappuccio era
raffigurata, con ricami di seta
colorata, la sua Incoronazione. Era un lavoro italiano del XV secolo. Un altro
piviale era
di velluto verde ricamato a mazzi di
fiori d'acanto in forma di cuore dai quali spuntavano bianchi fiori dal lungo
stelo,
resi a rilievo con filo d'argento e
pietre colorate. Il fermaglio portava una testa di serafino di filigrana d'oro
in rilievo.
Gli orphreys erano tessuti in
seta rossa e oro, abbellita da vari medaglioni di santi e martiri tra i quali
San Sebastiano.
Aveva anche pianete di seta color
dell'ambra, di seta azzurra e broccato d'oro, di seta gialla damascata e
intessuta d'oro
con scene della passione e della
crocifissione di Cristo, ricamate con leoni e pavoni e altri emblemi;
dalmatiche di seta
bianca e di seta rossa di Damasco,
decorata con tulipani e delfini e fleurs de lys; paliotti d'altare di
velluto cremisi e di
lino blu; e corporali e veli di
calice e sudari. C'era qualcosa, nei mistici uffici in cui questi oggetti
venivano impiegati,
che gli faceva correre la fantasia.
Questi tesori, infatti, così come
tutte le cose che raccoglieva nella sua bella casa, gli servivano per
dimenticare,
gli davano la possibilità di
sfuggire per un certo periodo alla paura che, a volte, gli sembrava
insopportabile. Sulla
parete della chiusa stanza solitaria
in cui aveva trascorso tanta parte della sua infanzia, aveva appeso con le
proprie
mani il terribile ritratto le cui
mutevoli fattezze gli mostravano la vera degenerazione della sua vita, e sul
quale aveva
drappeggiato come un sipario il
manto porpora e oro. Per settimane intere non entrava in quella camera,
dimenticava
l'orrenda cosa dipinta e ritrovava
la serenità, la sua meravigliosa gaiezza, la sua dedizione appassionata al puro
fatto di
esistere. Poi, improvvisamente, una
notte usciva di casa, si recava in posti orribili dalle parti di Blue Gate
Fields e
restava là giorni e giorni finché ne
veniva scacciato. Al ritorno, sedeva di fronte al ritratto a volte provando un
profondo
schifo per il quadro e per se
stesso, ma altre volte colmo di quell'orgoglio individualistico che dà al
peccato metà del
suo fascino e sorrideva,
segretamente compiaciuto, all'ombra deforme costretta a portare un peso che
avrebbe dovuto
essere suo.
Dopo qualche anno, non riusciva a
restare per molto tempo lontano dall'Inghilterra. Aveva ceduto la villa di
Trouville che divideva con Lord
Henry e la piccola casa di Algeri dalle bianche mura dove aveva trascorso più
di un
inverno. Odiava separarsi dal quadro
che aveva una parte così importante nella sua vita e inoltre temeva che,
durante la
sua assenza, qualcuno potesse
entrare nella stanza nonostante il complicato sistema di catenacci che aveva
fatto mettere
alla porta.
Sapeva benissimo che questo non
significava nulla. Certo, il ritratto conservava ancora, sotto la perfida
bruttezza del volto, una marcata
somiglianza con lui, ma questo che cosa avrebbe potuto suggerire? Avrebbe riso
di
chiunque cercasse di accusarlo. Non
l'aveva dipinto lui. Per quanto potesse essere ignobile e vergognoso, che
rapporto
aveva con lui? Chi gli avrebbe
creduto anche se gli avesse rivelato il suo segreto?
Tuttavia aveva paura. A volte quando
si trovava nella sua grande casa del Nottinghamshire, in compagnia dei
giovani eleganti del suo ceto che
solitamente frequentava, stupendo la contea con il lusso sfrenato e con il
fastoso
splendore del suo stile di vita,
abbandonava improvvisamente gli ospiti e ritornava in gran fretta in città per
assicurarsi
che la porta non fosse stata forzata
e che il quadro fosse sempre al suo posto. Che cosa sarebbe successo se lo
avessero
rubato? La sola idea lo
agghiacciava. Senza dubbio tutti avrebbero conosciuto il suo segreto. Forse già
lo sospettavano.
Infatti, anche se affascinava molta
gente, non pochi diffidavano di lui. Per poco non era stata respinta la sua
candidatura a un club del West End
cui per nascita e posizione sociale avrebbe avuto pieno diritto di appartenere,
e si
diceva che una volta, mentre un
amico lo accompagnava nella sala del Churchill, il duca di Berwich e un altro
gentiluomo si erano ostentatamente
alzati ed erano usciti. Dopo il suo venticinquesimo compleanno, strane storie
cominciarono a diffondersi sul suo
conto. Correva la voce che lo avessero visto azzuffarsi con dei marinai
stranieri in
un'infima bettola nella zona più
lontana di Whitechapel, che frequentasse ladri e falsari e conoscesse i misteri
dei loro
traffici. Le sue strane assenze
divennero di dominio pubblico e quando riappariva in società, la gente
sussurrava negli
angoli, gli passava accanto con un
sorriso di scherno, oppure lo fissavano con un freddo sguardo indagatore come
se
fossero decisi a scoprire il suo
segreto.
Naturalmente lui non si curava di
queste insolenze e di questi tentativi di provocazione e, nell'opinione dei
più,
i suoi modi franchi e privi di
affettazione, il fascino del suo sorriso fanciullesco e la grazia infinita di
quella
meravigliosa gioventù che sembrava
non lasciarlo mai, erano di per se stessi una risposta sufficiente alle
calunnie -
perché tali le ritenevano - che
circolavano sul suo conto. Fu notato comunque che alcuni di coloro che erano
stati in
grande intimità con lui, dopo
qualche tempo sembravano evitarlo. Si vedevano donne che lo avevano adorato
alla follia
e che per lui avevano sfidato ogni
censura sociale e messo da parte tutte le convenzioni, impallidire di vergogna
o di
orrore quando Dorian Gray appariva.
Tuttavia, questi scandali di cui si
sussurrava, agli occhi di molti non facevano che aumentare il suo singolare e
pericoloso fascino. La sua grande
ricchezza era un elemento rassicurante. La società, quella civilizzata almeno,
non
crede mai troppo facilmente a ciò che
potrebbe danneggiare chi è ricco e affascinante. Sente istintivamente che
l'educazione è più importante della
morale e, nella sua opinione, la più specchiata rispettabilità vale molto meno
del
fatto di avere un buon chef.
E, alla fine dei conti, è una molto magra consolazione venire a sapere che chi
ci ha fatto
servire un pessimo pranzo o un vino
scadente, è irreprensibile nella vita privata. Nemmeno le virtù cardinali
possono far
perdonare delle entrées troppo
fredde, come fece notare una volta Lord Henry, durante una discussione
sull'argomento;
e probabilmente vi sono molte cose
da dire a favore di questa tesi. I canoni della buona società, infatti, sono, o
dovrebbero essere, gli stessi
dell'arte: per essi la forma è assolutamente essenziale. Dovrebbero avere la
dignità di una
cerimonia e, insieme, la sua
irrealtà, dovrebbero unire l'ipocrisia delle commedie romantiche allo spirito e
alla bellezza
che ce le rendono piacevoli. È
davvero così terribile l'insincerità? Io non credo: è semplicemente un metodo
che ci
permette di moltiplicare la nostra
personalità.
Questa, almeno, era l'opinione di
Dorian Gray. Era solito meravigliarsi della psicologia superficiale di coloro
che ritengono che l'Io dell'uomo sia
una cosa semplice, stabile, sicura e dotata di una sola essenza. Secondo lui,
l'uomo
era un essere con miriadi di vite e
miriadi di sensazioni, era una creatura multiforme e complessa che portava in
sé
strane eredità di pensiero e di
passione, una creatura la cui carne era corrotta dalle mostruose malattie della
morte. Gli
piaceva aggirarsi nella cupa e
fredda galleria della sua casa di campagna e osservare i ritratti di coloro il
cui sangue gli
fluiva nelle vene. Ecco Philip
Herbert, descritto da Francis Osborne nelle sue Memorie del Regno della
Regina
Elisabetta e di re Giacomo come un uomo «benvoluto a corte per
il bel volto, che non gli tenne a lungo compagnia».
Forse il giovane Herbert aveva
condotto la vita che a volte lui stesso conduceva? Forse qualche strano germe
velenoso
era passato di corpo in corpo finché
era giunto nel suo? Era forse il fievole senso di quella bellezza distrutta
che, così
improvvisamente e quasi senza
motivo, nello studio di Basil Hallward lo aveva spinto a quella folle preghiera
che aveva
cambiato radicalmente la sua vita?
Ecco, con il giustacuore rosso ricamato in oro, il mantello ingioiellato, il
colletto e i
polsini orlati d'oro, Sir Anthony
Sherard con l'armatura lucente e brunita ai suoi piedi. Qual era l'eredità che
gli aveva
lasciato? Forse l'amante di Giovanna
di Napoli gli aveva trasmesso un'eredità di vergogna e di peccato? Le sue
azioni
erano forse sogni che quegli uomini
defunti non avevano avuto il coraggio di attuare? E qui, dalla tela sbiadita,
sorrideva Lady Elizabeth Devereux,
nel velo di mussola, con il corsetto ricamato di perle e le maniche rosa a
spacchi
verticali. Nella destra teneva un
fiore e nella sinistra un collare smaltato di rose bianche e damascate.
Accanto, su un
minuscolo tavolo, erano posati un
mandolino e una mela. Sulle scarpine appuntite c'erano grosse rosette.
Conosceva la
sua vita e le strane storie che si
raccontavano sui suoi amanti: aveva in sé qualche cosa del suo temperamento?
Quegli
occhi a mandorla dalle palpebre
pesanti parevano fissarlo curiosi. E che dire di George Willoughby, con quei
suoi
capelli incipriati e i nèi bizzarri?
Che aria perversa! Il volto era scuro e mesto, le labbra sensuali parevano
piegarsi in
una smorfia sprezzante. Delicati
merletti cadevano sulle sue mani gialle e sottili, sovraccariche di anelli. Era
stato una
delle persone più eleganti del
diciottesimo secolo e, in gioventù, l'amico di Lord Ferrars. Che dire poi del
secondo Lord
Beckenham, compagno del Principe
Reggente durante il suo periodo più sfrenato, nonché uno dei testimoni al suo
matrimonio con la signora
Fitzherbert? Com'era bello e altero con quei riccioli castani e la posa
insolente! Quali
passioni gli aveva trasmesso? Il
mondo lo aveva considerato infame perché aveva diretto le orge di Carlton
House. Sul
petto gli scintillava la stella
della Giarrettiera. Accanto al suo, era appeso il ritratto della moglie, una
donna pallida dalle
labbra sottili, vestita di nero.
Anche il sangue di lei gli scorreva nelle vene. Come era strano! E sua madre,
con quel suo
volto da Lady Hamilton e le labbra
come stillanti vino. Sapeva che cosa aveva preso da lei: la bellezza e l'amore
per la
bellezza altrui. Gli sorrideva nel
suo abito da baccante. Aveva foglie di vite nei capelli e vino purpureo cadeva
dalla
coppa che teneva in mano. I garofani
del quadro avevano perduto il colore, ma gli occhi erano ancora meravigliosi,
profondi e brillanti di colore.
Sembravano seguirlo in ogni suo movimento.
Ma si possono anche avere antenati
nella letteratura, come nella propria stirpe, antenati forse ancor più vicini
nel tipo e nel temperamento e,
certo, con influenze di cui siamo più profondamente consapevoli. A volte
sembrava a
Dorian Gray che tutta la storia
fosse solo un racconto della sua vita, non come l'aveva vissuta in realtà, ma
come l'aveva
creata nella sua fantasia, come si
era svolta nella sua mente e nelle sue passioni. Sentiva di averli conosciuti
tutti, quei
singolari terribili personaggi che
erano passati sulla scena del mondo e avevano commesso peccati così
meravigliosi e
così sottili malvagità. Gli sembrava
che, in qualche modo misterioso, la loro vita fosse stata la sua.
Anche l'eroe del meraviglioso
racconto che aveva tanto influenzato la sua vita aveva avuto la stessa
fantasticheria. Nel settimo capitolo
raccontava di quando, incoronato di alloro perché il fulmine non potesse
colpirlo, si
era seduto come Tiberio in un
giardino di Capri a leggere l'infame libro di Elefantide, mentre nani e pavoni
gli si
aggiravano intorno pieni di sussiego
e il suonatore di flauto derideva il ragazzo che agitava l'incensiere. Come
Caligola
aveva gozzovigliato nelle scuderie
con i fantini in tunica verde e aveva preso il cibo nella mangiatoia d'avorio
insieme
al cavallo che aveva la fronte cinta
di gioielli. Come Domiziano si era aggirato in un corridoio rivestito di
specchi di
marmo, guardandosi intorno con occhi
stravolti alla ricerca del riflesso della spada che avrebbe posto fine ai suoi
giorni,
malato di quell'ennui, di
quel terribile taedium vitae che assale coloro che hanno tutto dalla
vita. Aveva guardato,
attraverso un limpido smeraldo, i
rossi massacri del circo e poi, in una lettiga di porpora e perle tirata da
mule dai ferri
d'argento, si era fatto portare
attraverso la via dei Melograni verso la Domus Aurea e aveva udito gli uomini
gridare al
suo passaggio il nome di Nerone
Cesare. Come Eliogabalo, si era dipinto il volto, aveva preso la conocchia
insieme alle
donne, aveva trasportato la Luna da
Cartagine per offrirla al Sole in mistico matrimonio.
Dorian Gray era solito leggere e
rileggere di continuo questo fantastico capitolo e i due immediatamente
successivi, in cui come in arazzi
singolari o in smalti abilmente lavorati, erano raffigurate le forme orrende e
bellissime
di coloro che il vizio, il sangue e
la noia avevano reso mostruosi o folli: Filippo, duca di Milano, che assassinò
la moglie
e le dipinse le labbra con veleno
scarlatto perché l'amante suggesse la morte dando l'ultimo bacio alla morta;
Pietro
Barbi, veneziano, conosciuto con il
nome di Paolo II, che spinse la sua vanità fino ad assumere il titolo di Formosus
e la
cui tiara valutata duecentomila
fiorini fu comperata a prezzo di un terribile peccato; Gian Maria Visconti, che
usava i
segugi per cacciare l'uomo, e il cui
corpo assassinato fu ricoperto di rose da una prostituta che lo amava; il
Borgia con il
Fratricidio che gli cavalcava a
fianco e il mantello macchiato del sangue di Perotto; Pietro Riario, il giovane
cardinale
arcivescovo di Firenze, figlio
favorito di Sisto IV, la cui bellezza era pari solo alla dissolutezza, che
ricevette Leonora
d'Aragona in un padiglione di seta
bianca e cremisi, pieno di ninfe e centauri, e fece dorare un fanciullo perché
alle feste
gli servisse da Ganimede o da Hylas;
Ezzelino, la cui malinconia era alleviata solo dallo spettacolo della morte, e
che
amava il rosso sangue, come altri
amavano il rosso vino: figlio del demonio, era ritenuto, e aveva truffato il
padre
giocando con lui l'anima a dadi;
Giambattista Cybo che per beffa prese il nome di Innocenzo e nelle cui torpide
vene un
medico ebreo trasfuse il sangue di
tre giovinetti; Sigismondo Malatesta, amante di Isotta e signore di Rimini, che
venne
bruciato in effigie a Roma perché
nemico di Dio e dell'uomo, che strangolò Polissena con un tovagliolo, offrì il
veleno a
Ginevra d'Este in una coppa di
smeraldo e, in onore di una vergognosa passione, costruì una chiesa pagana per
il culto
cristiano; Carlo VI, così
violentemente preso dalla cognata che un lebbroso lo avvertì che sarebbe presto
impazzito e
che, quando il cervello fu colto
dalla malattia e cominciò a sragionare, si calmava solo vedendo le carte
saracene dipinte
con le immagini dell'amore, della
morte, e della follia; e - nel farsetto attillato, il berretto ornato di gemme,
i riccioli
come foglie di acanto - Grifonetto
Baglioni, che assassinò Astorre insieme alla moglie e Simonetto con il suo
paggio, un
giovane di tale bellezza che, quando
giacque morente sulla gialla piazza di Perugia, coloro che lo odiavano non
poterono impedirsi di piangere, e
Atalanta, che lo aveva maledetto, lo benedisse.
C'era un orribile fascino in tutti
questi personaggi. Li vedeva di notte e gli turbavano l'immaginazione durante
il giorno. Il rinascimento conosceva
strani modi per uccidere di veleno: con un elmo o con una torcia accesa, con un
guanto ricamato d'oro e con una
catenella d'ambra. Dorian Gray era stato avvelenato da un libro. In certi
momenti
considerava il male solo un mezzo
mediante il quale realizzare la sua concezione della bellezza.
XII
Era il nove di novembre, il giorno
del suo trentottesimo compleanno, come ricordò più volte in seguito.
Tornava a casa verso le undici di
sera, dopo aver pranzato da Lord Henry, avvolto in una pesante pelliccia
perché la notte era fredda e
nebbiosa. All'angolo di Grosvenor Square con South Adley Street un uomo in un ulster
grigio col bavero alzato, lo superò
muovendosi rapido nella nebbia. Teneva in mano una valigia. Dorian Gray lo
riconobbe: era Basil Hallward. Si
sentì assalire da uno strano, inspiegabile senso di paura. Finse di non
riconoscere il
pittore e proseguì in fretta verso
casa.
Hallward però lo aveva visto. Dorian
lo udì dapprima fermarsi sul marciapiedi, poi corrergli dietro. Pochi
momenti dopo la mano di lui gli si
posava su un braccio.
«Dorian! Che colpo di fortuna! Ti ho
aspettato nella tua biblioteca fin dalle nove. Alla fine la stanchezza del
tuo cameriere mi ha impietosito e me
ne sono andato dicendogli di andare a letto. Parto per Parigi con il treno di
mezzanotte: ci tenevo molto a
vederti prima di partire. Ho pensato che fossi tu, o meglio la tua pelliccia,
nel passarti
accanto, ma non ne ero affatto
sicuro. Non mi hai riconosciuto?»
«Con questa nebbia, mio caro Basil?
Non riesco nemmeno a riconoscere Grosvenor Square. Credo che la mia
casa sia da queste parti, ma non ne
sono affatto sicuro. Mi dispiace che tu stia partendo, non ti vedo da secoli.
Ma
immagino che tornerai presto.»
«No, rimarrò via dall'Inghilterra
per sei mesi.
Ho intenzione di prendere uno studio
a Parigi e di rinchiudermi dentro finché non avrò finito un grande quadro
che ho in mente. Comunque, non era
di me che volevo parlare. Eccoci alla porta di casa tua: fammi entrare un
momento, ho qualcosa da dirti.»
«Con molto piacere, ma non perderai
il treno?» domandò pigramente Dorian Gray mentre saliva i gradini e
apriva la porta.
La luce del lampione penetrava a
fatica la nebbia e Hallward diede un'occhiata all'orologio. «Ho un sacco di
tempo,» rispose. «Il treno parte
alle dodici e quindici e sono appena le undici. Stavo proprio andando al club a
cercarti
quando ti ho incontrato. Come vedi,
non ho bagagli ingombranti: ho già spedito le cose più pesanti. Ho solo questa
borsa e posso comodamente arrivare
alla Victoria Station in venti minuti.»
Dorian lo guardò e sorrise. «Che
modo di viaggiare per un famoso pittore! Una borsa Gladstone e un ulster!
Entra, altrimenti la nebbia mi viene
in casa. E ricordati di non dirmi nulla di serio. Non c'è nulla di serio in
questi tempi,
o, almeno, non dovrebbe esserci.»
Hallward entrò scuotendo il capo e
seguì Dorian in biblioteca. Un allegro fuoco di legna ardeva nel grande
camino. Le lampade erano accese e un
portaliquori olandese d'argento ancora aperto era posato, insieme ad alcuni
sifoni
di soda e a grandi bicchieri di
cristallo molato, su un minuscolo tavolino intarsiato.
«Come vedi, il tuo cameriere mi
aveva messo a mio agio. Mi ha dato tutto quello che desideravo, comprese le
tue sigarette dal bocchino dorato. È
una persona davvero ospitale. Mi piace molto di più di quel francese che avevi
una
volta. A proposito, che cosa è
successo di lui?»
Dorian scrollò le spalle. «Credo che
abbia sposato la cameriera di Lady Radley e l'abbia portata a Parigi come
sarta inglese. Ho sentito che l'anglomanie
è molto di moda, laggiù. È stupido da parte dei francesi, non ti pare? Ma
non
era affatto un cattivo cameriere,
sai? Non mi era simpatico, ma non potevo lamentarmene. Spesso immaginiamo delle
cose completamente assurde. In
realtà, mi era molto devoto e mi sembrò molto dispiaciuto quando se ne andò.
Vuoi un
altro brandy con soda? O preferisci
uno Hockheim al seltz? Io lo prendo sempre. Devo averne, nella stanza vicina.»
«Grazie, non voglio altro,» disse il
pittore levandosi cappello e cappotto e gettandoli sulla borsa che aveva
posato in un angolo. «E ora, mio
caro amico, devo parlarti seriamente. Non fare quella faccia scura. Mi rendi le
cose
molto più difficili.»
«Di che cosa si tratta?» esclamò
Dorian Gray, con la sua aria insolente, lasciandosi cadere su un divano.
«Spero non di me. Stasera sono
stanco di me, mi piacerebbe essere qualcun altro.»
«Si tratta di te,» rispose il pittore
con la sua voce grave e profonda, «e te lo devo dire. Ti prenderà solo
mezz'ora.»
Dorian sospirò e accese una
sigaretta. «Mezz'ora!» mormorò.
«Non è chiederti molto, Dorian, e
parlo nel tuo esclusivo interesse. Penso sia bene che tu sappia che a Londra
si dicono le cose più tremende sul
tuo conto.»
«Non desidero saperne nulla. Amo gli
scandali che riguardano gli altri, ma quelli che riguardano me non mi
interessano. Non hanno il fascino
della novità.»
«Devono interessarti, Dorian. Ogni
gentiluomo ha interesse al suo buon nome. Non vorrai che la gente parli di
te come di un personaggio vile e
vizioso. Naturalmente ci sono la tua posizione, la tua ricchezza e via dicendo,
ma
posizione e ricchezza non sono
tutto. Bada che non credo assolutamente a queste voci, o almeno, quando ti vedo
non
posso crederci. Il peccato è una
cosa che si stampa sulla faccia di un uomo: non lo si può nascondere. A volte
la gente
parla di vizi segreti, ma cose
simili non esistono. Se un disgraziato ha un vizio, lo manifesta nella linea
della bocca,
nelle palpebre cadenti, persino
nella forma delle mani. L'anno scorso venne da me un tizio - non voglio fare il
suo
nome, ma lo conosci - per farsi fare
il ritratto. Non lo avevo mai visto e fino a quel momento non avevo mai sentito
dire
nulla sul suo conto, anche se in
seguito ho saputo un bel po' di cose. Mi offrì una somma sbalorditiva.
Rifiutai. C'era
qualche cosa nella forma delle sue
dita che mi disgustava. Adesso so che le cose immaginate sul suo conto erano
assolutamente vere: conduce una vita
spaventosa. Ma tu, Dorian, con quel tuo viso puro, luminoso, innocente, con la
tua
meravigliosa giovinezza intatta...
non posso pensare nulla contro di te. Tuttavia ti vedo molto di rado e ormai
non vieni
più nel mio studio; così, quando
sono lontano e sento queste cose disgustose che la gente mormora sul tuo conto,
non so
che cosa dire. Perché, Dorian, un
uomo come il duca di Berwick lascia la sala di un club quando entri tu? Come
mai qui
a Londra tanti gentiluomini non
vengono a casa tua né ti invitano a casa loro? Un tempo eri amico di Lord
Staveley.
L'ho incontrato la settimana scorsa
a pranzo. Durante la conversazione saltò fuori il tuo nome a proposito delle
miniature che hai prestato per la
mostra del Dudley. Staveley fece una smorfia e disse che potevi avere il gusto
artistico
più squisito, ma che non si dovrebbe
permettere a nessuna ragazza casta di conoscerti e a nessuna donna onesta di
rimanere dove ci sei anche tu. Gli
ricordai che ero tuo amico e gli chiesi di spiegarsi. Lo fece, lo fece così,
davanti a
tutti. Una cosa orribile. Perché la
tua amicizia è così fatale ai giovani? C'è stato quel disgraziato giovanotto
delle
guardie che si è suicidato. Eri suo
grande amico. C'è stato Lord Henry Ashton che ha dovuto lasciare l'Inghilterra
con il
nome macchiato. Eravate
inseparabili. E che dire di Adrian Singleton e della sua terribile fine? Che
dire dell'unico figlio
di Lord Kent e della sua cameriera?
Ho incontrato il padre ieri, in St. James's Street: sembrava distrutto dalla vergogna
e
dal dolore. Che dire del giovane
duca di Perth? Che vita conduce adesso? Qual è il gentiluomo che lo
frequenterebbe?»
«Smettila, Basil. Parli di cose di
cui non sai nulla,» disse Dorian Gray mordendosi le labbra e con una nota di
infinito disprezzo nella voce. «Mi
chiedi come mai Berwick lascia la stanza quando entro io: perché io so tutto
della sua
vita e non perché lui sa qualche
cosa della mia. Con il sangue che gli scorre nelle vene, come potrebbe avere un
passato
pulito? Mi chiedi di Henry Ashton e
del giovane Perth. Sono stato io ad insegnare all'uno i suoi vizi e all'altro
la sua
depravazione? E se quell'imbecille
del figlio di Kent prende in moglie una che batte il marciapiede, che cosa
c'entro io?
Se Adrian Singleton firma una
cambiale con il nome di un amico, sono io il suo tutore? Le conosco le
chiacchiere che si
fanno in Inghilterra. I borghesi
sciorinano i loro pregiudizi morali davanti a enormi tavole imbandite e parlano
a bassa
voce di quelle che chiamano le
dissolutezze delle classi superiori per dimostrare di far parte della buona
società e di
essere in confidenza con quelli che
calunniano. In questo paese basta che un uomo sia un po' diverso e abbia una
certa
intelligenza perché ogni lingua
mediocre si agiti contro di lui. E che tipo di vita conducono questi che si
atteggiano a
moralisti? Mio caro amico,
dimentichi che qui siamo nella patria dell'ipocrisia.»
«Dorian,» esclamò Hallward, «non è
questo il problema. In Inghilterra ci sono moltissime cose che non vanno
e la società inglese è completamente
sbagliata. Ma proprio per questo vorrei che tu fossi diverso. E invece non lo
sei
stato. Si ha il diritto di giudicare
un uomo dall'influenza che esercita sugli amici. I tuoi pare abbiano perduto
ogni senso
dell'onore, della bontà, della
purezza. Hai instillato in loro la frenesia del piacere e loro sono caduti fino
in fondo. Ce li
hai portati tu, sì, ce li hai
portati tu, e tuttavia puoi sorridere come sorridi adesso. Ma c'è anche di
peggio. So che tu e
Harry siete inseparabili. Non fosse
che per questo, non avresti dovuto permettere che il nome di sua sorella fosse
sulla
bocca di tutti.»
«Attento, Basil. Stai andando un po'
troppo oltre.»
«Devo parlare e tu devi ascoltarmi e
mi ascolterai. Quando hai conosciuto Lady Gwendolin, non l'aveva
sfiorata nemmeno l'ombra di uno
scandalo. E, adesso c'è forse una sola donna come si deve disposta a farsi
vedere in
carrozza con lei al Park? Ma se
nemmeno ai suoi figli si permette di vivere con lei. Poi corrono altre voci: si
dice che sei
stato visto sgusciare all'alba da
case infami ed entrare travestito nelle più sozze taverne di Londra. È vero?
Può essere
vero? La prima volta che le ho
sentite, ne ho riso. Quando le sento adesso, mi fanno venire i brividi. E la
tua casa di
campagna e quello che succede
laggiù? Dorian, non sai quello che si dice sul tuo conto. Non voglio dirti che
non
intendo farti una predica. Ricordo
quel che Harry ha detto una volta: chiunque decida di fare per un po' il curato
dilettante, comincia sempre col dire
questa frase, e subito dopo rompe la promessa. Io voglio proprio farti una
predica.
Voglio che tu conduca una vita che
ti permetta di essere rispettato da tutti. Voglio che il tuo nome e la tua
reputazione
siano senza macchia. Voglio che ti
sbarazzi della gente orribile che ti sta intorno. Non alzare le spalle in
questo modo,
non essere così indifferente. Tu hai
una straordinaria influenza: fa che spinga al bene e non al male. Dicono che tu
corrompa tutti coloro che divengono
tuoi intimi amici e che basta che tu entri in una casa, perché ne segua qualche
cosa
di vergognoso. Non so se è vero o
no. Come potrei saperlo? Ma queste sono le voci che circolano sul tuo conto. Mi
hanno detto cose di cui sembra
impossibile dubitare. Lord Gloucester era uno dei miei migliori amici a Oxford.
Mi ha
fatto vedere una lettera che gli ha
scritto sua moglie quando era in fin di vita, sola, nella sua villa di Mentone.
Nella più
terribile confessione che io abbia
mai letto era coinvolto il tuo nome. Gli dissi che era assurdo, che ti
conoscevo a fondo
e che non saresti stato capace di
cose simili. Conoscerti? Mi domando se ti conosco. Prima di poter rispondere
dovrei
vedere la tua anima.»
«Vedere la mia anima!» balbettò
Dorian Gray balzando in piedi bianco di paura.
«Sì,» rispose gravemente Hallward,
con un tono di profonda sofferenza nella voce, «vedere la tua anima. Ma
solo Dio può farlo.»
Un'amara risata di scherno eruppe
dalle labbra di Dorian Gray. «La vedrai tu stesso. Stasera!» esclamò
afferrando una lampada sul tavolo.
«Andiamo: l'hanno fatta le tue mani. Perché non dovresti vederla? Dopo, se
vorrai,
potrai raccontarlo a tutti. Nessuno
ti crederà. E se ti credessero piacerai loro ancor di più. Conosco la nostra
epoca
meglio di te, anche se tu ne vai
cianciando in modo così noioso. Vieni, ti dico. Hai parlato abbastanza di
corruzione:
adesso la guarderai in faccia.»
In ogni parola pronunciata c'era la
follia dell'orgoglio. Pestò un piede a terra in quel suo modo insolente e
infantile. Provava una gioia
terribile al pensiero che un altro avrebbe diviso il suo segreto e che l'autore
del ritratto
all'origine di tutta la sua vergogna
avrebbe portato per il resto della vita l'ignobile ricordo di quel che aveva
fatto.
«Sì,» proseguì venendogli vicino e
guardandolo fisso negli occhi severi, «ti farò vedere la mia anima. Vedrai
quello che, a tuo avviso, solo Dio
può vedere.»
Hallward arretrò. «Questa è una
bestemmia, Dorian!» gridò. «Non devi dire cose simili. Sono orribili e non
significano niente.»
«Lo credi davvero?» disse e rise
nuovamente.
«Ne sono certo. E per quanto
riguarda le cose che ti ho detto stasera, le ho dette per il tuo bene. Sai che
sono
sempre stato un amico leale.»
«Non toccarmi. Finisci quel che hai
da dire.»
Un lampo contorto di sofferenza
passò sul viso del pittore. Tacque per un momento e un profondo senso di
pietà lo assalì. Dopotutto che
diritto aveva di spiare nella vita di Dorian Gray? Se aveva commesso solo un
decimo di
quello che si raccontava, quanto
doveva aver sofferto! Poi si raddrizzò, si diresse verso il caminetto, e rimase
immobile
a guardare i ceppi ardenti, coperti
da una brina di cenere e da palpitanti cuori di fiamma.
«Sto aspettando, Basil,» disse il
giovane con voce chiara e dura.
Basil si voltò. «Quel che ho da dire
è questo,» esclamò. «Devi rispondere in qualche modo alle terribili accuse
che ti si fanno. Se mi dici che sono
assolutamente false, dalla prima all'ultima, ti crederò. Negale, Dorian,
negale! Non
vedi cosa sto passando? Mio Dio! Non
dirmi che sei malvagio, corrotto, infame.»
Dorian Gray sorrise. Le labbra erano
piegate in un'espressione sprezzante. «Vieni di sopra, Basil,» disse con
voce tranquilla, «tengo un diario
della mia vita, giorno per giorno: non esce mai dalla stanza in cui viene
scritto. Te lo
farò vedere se vieni con me.»
«Verrò, Dorian, se lo desideri. Vedo
che ho perso il treno. Non importa, posso partire domani. Ma non
chiedermi di leggere nulla, stasera.
Voglio solo una semplice risposta alla mia domanda.»
«Ti verrà data di sopra. Non posso
dartela qui.
XIII
Uscì dalla stanza e cominciò a
salire; Basil Hallward lo seguiva da vicino. Camminavano adagio, come si fa
istintivamente di notte. La lampada
gettava ombre fantastiche sul muro e sulle scale. Un soffio di vento fece
vibrare
rumorosamente qualche finestra.
Giunti all'ultimo pianerottolo,
Dorian posò la lampada sul pavimento e, presa la chiave, la girò nella
serratura.
«Vuoi proprio sapere, Basil?»
domandò a bassa voce.
«Sì.»
«Ne sono felice,» assentì
sorridendo. Poi aggiunse, con una certa asprezza: «Sei l'unica persona al mondo
che
abbia il diritto di sapere tutto di
me. Nella mia vita hai avuto un'influenza maggiore di quello che pensi.» Prese
la
lampada, aprì la porta ed entrò. Una
fredda corrente d'aria li investì e, per un momento, la fiamma si ridusse a una
scura
lingua arancione. Rabbrividì.
«Chiudi la porta,» sussurro posando la lampada sul tavolo.
Hallward si guardò intorno
perplesso. La stanza sembrava abbandonata da anni. Un arazzo fiammingo, un
quadro coperto da un drappo, un
vecchio cassone italiano, una libreria quasi vuota: non sembrava che ci fosse
altro,
salvo un tavolo e una sedia. Mentre
Dorian Gray accendeva una candela mezzo consumata posta sulla mensola del
caminetto, vide che tutto era
coperto di polvere e che il tappeto era pieno di buchi. Un topo scappò con un
guizzo dietro
i pannelli che rivestivano le
pareti. C'era un umido odore di muffa.
«Dunque credi che solo Dio possa
vedere l'anima, Basil? Togli quel drappo e vedrai la mia.»
La voce era fredda e crudele. «Sei
pazzo, Dorian, oppure stai recitando,» mormorò Hallward, accigliato.
«Non vuoi? Allora lo farò io,» disse
il giovane. Strappò il drappo dalla bacchetta e lo lasciò cadere sul
pavimento.
Un grido di orrore sfuggì dalle
labbra del pittore appena vide, sotto la debole luce, il volto orrendo che gli
ghignava dalla tela. C'era in
quell'espressione qualche cosa che lo riempiva di nausea e di disgusto. Santo
cielo! Stava
guardando il volto di Dorian Gray!
Qualche cosa di orrendo, qualunque ne fosse la causa, non aveva ancora
completamente distrutto la sua meravigliosa
bellezza. C'era ancora dell'oro nei capelli radi e un'ombra scarlatta sulle
labbra sensuali. Gli occhi acquosi
avevano mantenuto un poco del loro bel colore azzurro, le curve perfette non
avevano
ancora abbandonato le narici
cesellate e il collo scultoreo. Sì, era proprio Dorian. Ma chi lo aveva
dipinto? Gli parve di
riconoscere la sua tecnica e anche
la cornice era quella che lui aveva disegnato. L'idea era assurda, ma gli
faceva
ugualmente paura. Afferrò la candela
accesa e la avvicinò al quadro. Nell'angolo sinistro c'era il suo nome
tracciato a
lunghe lettere di vermiglio
brillante.
Era una sconcia parodia, una satira
ignobile e infame. Non aveva mai fatto nulla di simile. E tuttavia il quadro
era suo. Lo riconobbe e gli parve
che, in un attimo, il sangue gli si fosse tramutato da fuoco in una densa
poltiglia di
ghiaccio. Il suo quadro? Che cosa
significava questo? Perché si era alterato? Si voltò e fissò Dorian Gray con
uno
sguardo nauseato. Le labbra gli
tremavano e gli pareva che la lingua arida non riuscisse più ad articolare
parola. Si
passò una mano sulla fronte: era
madida di un sudore viscido.
Il giovane era appoggiato alla
mensola del caminetto e lo osservava con quella strana espressione che si nota
sul viso di chi è avvinto da uno spettacolo
nel momento in cui recita un grande artista. Non sembrava né vera gioia né
vero dolore: solo la passione dello
spettatore e, forse, negli occhi, un bagliore di trionfo. Aveva tolto il fiore
dalla giacca
e lo odorava, o fingeva di farlo.
«Che cosa significa?» gridò infine
Hallward. La sua stessa voce gli suonò strana e stridula all'orecchio.
«Anni fa, quando ero ragazzo,» disse
Dorian Gray, stritolando il fiore tra le dita, «mi hai incontrato, mi hai
colmato di adulazioni e mi hai
insegnato a essere vanitoso della mia bellezza. Un giorno mi presentasti un
amico che mi
spiegò il prodigio della giovinezza
e finisti il ritratto che mi rivelò il prodigio della bellezza. In un momento
di follia,
che persino ora non so se
rimpiangere o meno, espressi un desiderio; forse tu lo chiameresti una
preghiera...»
«Ricordo! Oh, come me ne ricordo
bene! No! È impossibile. La stanza è umida, la muffa ha aggredito la tela. I
colori che ho usato contenevano
qualche disgraziata sostanza velenosa. Ti dico che è impossibile.»
«Ah, che cosa è impossibile?»
mormorò il giovane, andando alla finestra e appoggiando la fronte al vetro
appannato.
«Mi hai detto che lo avevi
distrutto.»
«Sbagliavo: ha distrutto me.»
«Non credo che sia il mio quadro.»
«Non riesci a vederci il tuo ideale?»
disse Dorian con voce amara.
«Il mio ideale, come tu lo
chiami...»
«Come tu lo chiamavi.»
«Non aveva in sé nulla di malvagio,
nulla di vergognoso. Tu per me rappresentavi un ideale che non troverò
mai più. Questo è il volto di un
satiro.»
«È il volto della mia anima.»
«Cristo! Che cosa devo avere
adorato! Ha gli occhi di Un demonio.»
«In ciascuno di noi, sono presenti
l'inferno e il paradiso, Basil,» esclamò Dorian con un gesto incontrollato di
disperazione.
Hallward si voltò di nuovo verso il
quadro e lo esaminò. «Mio Dio, se tutto questo è vero,» esclamò, «e se
questo è ciò che hai fatto della tua
vita, allora devi essere anche peggiore di quel che immagina chi parla male di
te!»
Sollevò ancora la candela,
avvicinandola alla tela, ed esaminò il dipinto. La superficie pareva intatta,
come quando
l'aveva finita. Evidentemente quella
vergogna e quell'orrore venivano dall'interno. Per un singolare moto di vita
interiore la lebbra del peccato
stava lentamente mangiandosi il quadro. La putrefazione di un cadavere in una
tomba
piena d'acqua non era così
spaventosa.
La mano gli tremò, la candela cadde
dal bocciolo arrestandosi sul pavimento con un crepitio. Hallward la
premette sotto il piede e la spense.
Poi si lasciò cadere nella sedia traballante accanto al tavolo e seppellì il
viso tra le
mani.
«Buon Dio, Dorian, che lezione! Che
tremenda lezione!» Non ottenne risposta, ma sentiva il giovane
singhiozzare accanto alla finestra.
«Prega, Dorian, prega,» mormorò. «Che cosa ci hanno insegnato a dire durante
l'infanzia? "Non indurci in
tentazione, perdona le nostre colpe e liberaci dal male." Ripetiamolo
insieme. La preghiera
del tuo orgoglio è stata ascoltata.
Sarà ascoltata anche la preghiera del tuo pentimento. Ti ho adorato troppo, e
tutti e
due siamo stati puniti.»
Dorian Gray si voltò lentamente e lo
guardò con occhi bagnati di lacrime. «È troppo tardi, Basil,» disse
balbettando.
«Non è mai troppo tardi, Dorian.
Inginocchiamoci e cerchiamo di ricordare una preghiera. Non c'è un verso
che dice, "anche se i tuoi
peccati sono scarlatti, io li renderò bianchi come neve"?»
«Queste parole non significano più
nulla per me.»
«Zitto! Non dire queste cose. Hai
fatto abbastanza male nella vita. Mio Dio! Non vedi quella maledetta cosa
che ci guarda?»
Dorian Gray lanciò un'occhiata al
quadro e improvvisamente fu assalito da un incontrollabile sentimento di
odio nei confronti di Basil
Hallward, come se glielo avesse suggerito l'immagine sulla tela, come se glielo
avessero
sussurrato quelle labbra ghignanti.
Sentì agitarsi dentro di sé la selvaggia emozione di un animale inseguito e
odiò
l'uomo seduto al tavolo come non
aveva mai odiato nessuno. Si guardò intorno con una luce selvaggia nello
sguardo.
Qualche cosa riluceva sul cassettone
dipinto che aveva di fronte. L'occhio vi cadde sopra. Sapeva che cosa era. Era
un
coltello che, qualche giorno prima,
aveva preso con sé per tagliare un pezzo di spago, dimenticando poi di
riportarlo via.
Vi si avvicinò lentamente, passando
accanto a Basil. Appena fu giunto alle sue spalle, lo afferrò e si voltò.
Hallward si
mosse sulla sedia come se volesse
alzarsi. Dorian Gray si precipitò su di lui e piantò il coltello nella grossa
vena dietro
l'orecchio, premendogli la testa sul
tavolo e colpendolo ancora ripetutamente.
Si udì un rantolo soffocato e
l'orribile gorgoglio di un uomo che soffoca nel sangue. Per tre volte Hallward
alzò
le braccia tese, agitando
grottescamente le mani irrigidite. Lo colpì altre due volte, ma l'uomo non si
mosse. Qualche
cosa cominciò a gocciolare sul
pavimento. Attese un momento sempre tenendo la testa premuta sul tavolo. Poi
gettò il
coltello sul tavolo e ascoltò.
Sentiva solo lo stillicidio del
sangue sul tappeto logoro. Aprì la porta e uscì sul pianerottolo. La casa era
del
tutto tranquilla. Non si sentiva nessuno.
Rimase qualche secondo chino sulla balaustra scrutando nel nero pozzo di
oscurità ribollente. Poi tolse la
chiave dalla serratura, ritornò nella stanza e vi si chiuse.
La cosa era sempre seduta sulla
sedia, distesa sul tavolo a testa china, la schiena curva e le lunghe braccia
irreali. Se non fosse stato per lo
squarcio rosso e slabbrato sul collo e per la chiazza nera e grumosa che si
allargava
lentamente sul tavolo, si sarebbe
detto che l'uomo dormisse semplicemente.
Come era successo tutto in fretta!
Si sentiva stranamente calmo e, avvicinatosi alla finestra, la aprì e uscì sul
balcone. Il vento aveva disperso la
nebbia e il cielo era simile a un'enorme coda di pavone, costellata da miriadi
di occhi
d'oro. Guardò in basso e vide il
poliziotto di ronda dirigere il lungo raggio della lanterna sulle porte delle
case
silenziose. La macchia cremisi di
una carrozza in cerca di clienti luccicò all'angolo, poi scomparve. Una donna
avvolta
in uno scialle svolazzante scivolava
lentamente, barcollando, vicino alla cancellata; ogni tanto si fermava e si
guardava
alle spalle. Poi cominciò a cantare
con voce rauca. Il poliziotto le si avvicinò e le disse qualche cosa. Lei si
allontanò a
passi incerti, ridendo. Una fredda
folata di vento spazzò la piazza. Le fiamme dei lampioni a gas tremolarono e
assunsero un colore blu, gli alberi
spogli agitarono i rami di nero acciaio. Rientrò rabbrividendo e chiuse la
finestra
dietro di sé.
Giunto alla porta, girò la chiave e
aprì. Non lanciò neppure un'occhiata all'uomo assassinato. Sentiva che il
segreto stava nel non rendersi conto
della situazione L'amico, che aveva dipinto quel fatale ritratto responsabile
di tutte
le sue miserie era uscito dalla sua
vita. Questo bastava.
Poi ricordò la lampada. Era un
singolare esempio di artigianato moresco, in argento massiccio intarsiato con
arabeschi di acciaio brunito e
tempestato di turchesi grezze. Forse il cameriere ne avrebbe notato la mancanza
e avrebbe
fatto delle domande. Esitò un
attimo, poi tornò indietro e la prese dal tavolo. Non poté fare a meno di
vedere la cosa
morta. Com'era immobile! E quelle
lunghe mani orribilmente pallide! Assomigliava ad una spaventosa figura di
cera.
Dopo aver chiuso la porta alle sue
spalle, scese cautamente. Il legno scricchiolava e pareva emettere gemiti di
sofferenza. Si fermò diverse volte e
attese. No: tutto era tranquillo. Era solo il rumore dei suoi passi.
Quando fu nella biblioteca, vide in
un angolo la borsa ed il soprabito. Bisognava nasconderli. Aprì un
ripostiglio segreto nel rivestimento
a pannelli, dove teneva nascosti i suoi strani travestimenti, e li ripose. Poi
estrasse
l'orologio: erano le due meno venti.
Sedette e cominciò a pensare. Tutti
gli anni, quasi ogni mese, in Inghilterra venivano impiccati uomini per
avere commesso quello che lui aveva
fatto. Era passata nell'aria una follia omicida? Forse qualche stella rossa era
passata troppo vicino alla terra...
E tuttavia quali erano le prove contro di lui? Basil Hallward aveva lasciato la
casa alle
undici. Nessuno lo aveva visto
rientrare. Quasi tutti i domestici erano a Selby Royal. Il suo cameriere era
andato a
letto... Parigi! Sì, Basil era
andato a Parigi con il treno di mezzanotte, come aveva deciso. Con le sue
strane abitudini
riservate, sarebbero passati mesi
prima che nascessero sospetti. Mesi! Era possibile distruggere tutto molto
prima.
Un'idea improvvisa lo colpì. Indossò
la pelliccia e il cappello e uscì nel vestibolo. Qui si fermò, sentendo il
passo lento e pesante del poliziotto
sul lastricato all'esterno e vedendo il raggio della lanterna cieca riflettersi
nelle
finestre. Attese trattenendo il
respiro.
Pochi momenti dopo, aprì il
chiavistello e scivolò fuori chiudendo delicatamente la porta alle sue spalle.
Poi
cominciò a suonare il campanello.
Circa cinque minuti dopo il suo cameriere apparve, semivestito e molto
assonnato.
«Mi dispiace di averti fatto alzare,
Francis,» disse, entrando, «ma ho dimenticato la chiave. Che ora è?»
«Le due e dieci, signore,» rispose
il cameriere, guardando l'orologio e socchiudendo gli occhi.
«Le due e dieci. È terribilmente
tardi. Devi svegliarmi domani alle nove. Ho alcune cose da fare.»
«Benissimo, signore.»
«Mi ha cercato qualcuno, questa
sera?»
«Il signor Hallward, signore. È
rimasto qui fino alle undici, poi è andato a prendere il treno.»
«Oh, mi dispiace di non averlo
visto. Ha lasciato detto qualche cosa?»
«No, signore, solo che le avrebbe
scritto da Parigi se non l'avesse trovata al club.»
«Va bene, Francis. Non dimenticare
di svegliarmi alle nove.»
«No, signore»
L'uomo si allontanò lungo il
corridoio ciabattando.
Dorian Gray gettò sul tavolo
pelliccia e cappello ed entrò in biblioteca. Per un quarto d'ora camminò avanti
e
indietro nella stanza, mordendosi le
labbra e riflettendo. Poi da uno degli scaffali prese il libro azzurro e
cominciò a
sfogliarlo.
«Alan Campbell, 152 Hertford Street, Mayfair». Sì, questo era l'uomo di cui aveva bisogno.
XIV
Il mattino dopo, alle nove, il
cameriere entrò con una tazza di cioccolata su un vassoio e aprì le imposte.
Dorian dormiva pacificamente sul
fianco destro, con una mano sotto la guancia. Sembrava un ragazzo che si fosse
stancato giocando o studiando.
Il cameriere dovette toccarlo due
volte sulla spalla prima che si svegliasse. Mentre apriva gli occhi, un debole
sorriso gli sfiorò le labbra, come
se si fosse smarrito in un sogno delizioso. In realtà non aveva sognato
affatto. La notte
non era stata turbata da immagini di
piacere o di dolore. Ma la gioventù sorride senza motivo: è una delle sue
principali
attrattive.
Si voltò e, appoggiandosi sul
gomito, cominciò a sorseggiare la cioccolata. Il dolce sole di novembre
inondava
la stanza. Il cielo era limpido e
nell'aria c'era un piacevole tepore. Pareva quasi un mattino di maggio.
Un poco alla volta gli eventi della
notte precedente si insinuarono nella sua mente con piedi bagnati di sangue
e, pezzo a pezzo, ripresero forma,
terribilmente precisi. Trasalì, ricordando quanto aveva sofferto, e per un
momento
tornò in lui quello strano
sentimento di odio per Basil Hallward che lo aveva spinto a ucciderlo mentre
era là seduto. Si
sentì raggelare dall'emozione. Il
morto era ancora là, sulla sedia, nella luce del sole. Che cosa orribile!
Queste orribili
cose erano fatte per la notte, non
per il giorno.
Sentì che, se avesse continuato a
rimuginare su quello che aveva passato, si sarebbe sentito male o sarebbe
impazzito. Vi sono peccati il cui
fascino sta più nel ricordo che nell'atto; strane vittorie che gratificano più
l'orgoglio che
le passioni e che danno
all'intelletto un più vivo senso di piacere, superiore a qualunque piacere esse
diano, o possano
dare, ai sensi. Ma questo era
diverso, era una cosa da scacciare dalla mente, da addormentare con l'oppio, da
soffocare
per non venirne soffocati.
Quando batté la mezza, si passò una
mano sulla fronte, si alzò in fretta e si vestì con più cura del solito,
scegliendo con molta attenzione la
cravatta e la spilla e cambiando più volte gli anelli. Indugiò anche sulla
colazione,
assaggiando i vari piatti, parlando
con il cameriere di certe nuove livree che intendeva far fare per la servitù di
Selby e
scorrendo la corrispondenza. Alcune
lettere lo fecero sorridere, tre lo annoiarono, una la rilesse diverse volte e
infine la
strappò con una leggera espressione
di fastidio. «Che cosa incredibile, la memoria di una donna!» come aveva detto
una
volta Lord Henry.
Dopo aver bevuto una tazza di caffè
nero, si asciugò lentamente le labbra con un tovagliolo, ordinò con un
cenno al cameriere di attendere,
sedette alla scrivania e scrisse due lettere. Una la infilò in tasca, l'altra
la consegnò al
cameriere.
«Francis, portala al 152 di Hertford
Street e, se il signor Campbell è fuori città, fatti dare il suo indirizzo.»
Rimasto solo, accese una sigaretta e
cominciò a fare degli schizzi su un foglio di carta, disegnando prima fiori,
poi particolari architettonici,
infine volti umani. Improvvisamente notò che ogni volto disegnato pareva avere
un'incredibile rassomiglianza con
Basil Hallward. Si accigliò e, alzatosi, si avvicinò a uno scaffale dove prese
un libro a
caso. Era deciso a non pensare
all'accaduto finché non fosse assolutamente necessario.
Dopo essersi sdraiato sul divano,
guardò il titolo del libro. Erano gli Émaux et Camées di Gauthier,
nell'edizione Charpentier in carta
giapponese con le acqueforti di Jacquemart. Era rilegato in pelle verde limone,
con
impresso un motivo di losanghe in
oro e di melograni. Glielo aveva regalato Adrian Singleton. Mentre lo
sfogliava,
l'occhio gli cadde sulla poesia che
parla della mano di Lacenaire, la fredda mano gialla «du supplice
encore mal lavée»,
con la liscia peluria rossa e le «doigts
de faune». Si guardò le bianche dita affusolate e, suo malgrado,
rabbrividì. Passò
oltre finché giunse a queste belle
strofe su Venezia:
Sur une gamme chromatique
Le sein de perles ruisselant,
La Vénus de l'Adriatique,
Sort de l'eau son corps rose et
blanc.
Les dômes,
sur l'azur des ondes
Suivant la phrase au pur contour,
S'enflent
comme des gorges rondes
Que soulève
un soupir d'amour.
L'esquif
aborde et me dépose
Jetant son
amarre au pilier,
Devant une façade rose,
Sur le marbre d'un escalier.
Che versi squisiti! Leggendoli
pareva di navigare lungo i verdi canali della città di rosa e di perla, seduti
in una
nera gondola dalla prua d'argento e
dalle cortine fluttuanti. I singoli versi gli ricordavano quelle linee rette
azzurro
turchesi che ci seguono quando si
prende il largo in direzione del Lido. Gli improvvisi lampi di colore gli
ricordavano lo
splendore degli uccelli dalla gola
color dell'opale e dell'iris che frullano intorno all'alto campanile a forma di
alveare, o
che camminano con grazia così
maestosa sotto gli archi scuri e polverosi. Disteso a occhi socchiusi,
continuava a
ripetere tra sé:
Devant une façade rose,
Sur le marbre d'un escalier.
Tutta Venezia era in questi due versi.
Ricordò l'autunno che vi aveva passato e un amore meraviglioso che lo
aveva spinto ad appassionate,
deliziose follie. Lo spirito romantico si trova ovunque, ma Venezia, come
Oxford, aveva
conservato lo scenario, e per un
romantico lo scenario è tutto, o quasi tutto. Basil era stato con lui per, un
po' di tempo
ed era impazzito per il Tintoretto.
Povero Basil! Che morte orribile, la sua!
Sospirò, riprese in mano il libro e
cercò di dimenticare. Lesse delle rondini che volano dentro e fuori dal
piccolo caffè di Smirne, dove gli
Hagi siedono sgranando i loro rosari di ambra e i mercanti in turbante fumano
le
lunghe pipe infiocchettate e parlano
gravemente tra loro; lesse dell'obelisco di Place de la Concorde che piange
lacrime
di granito nel suo esilio solitario
e senza sole e desidera ritornare sul caldo Nilo coperto di loto dove sono le
sfingi, gli
ibis rosso rosati, i bianchi
avvoltoi dagli artigli d'oro e i coccodrilli dai piccoli occhi di berillo che
strisciano sul verde
fango fumante; cominciò a meditare
su quei versi che, traendo musica dal marmo consunto dai baci, parlano della
singolare statua da Gauthier
paragonata a una voce di contralto: il «monstre charmant» che riposa
nella camera di
porfido del Louvre. Ma dopo un poco
il libro gli cadde dalle mani. Si innervosì e fu colto da un tremendo accesso
di
terrore. Che cosa sarebbe successo
se Alan Campbell non fosse stato in Inghilterra? Sarebbero trascorsi giorni
prima
che potesse ritornare. Forse avrebbe
rifiutato di venire. Che cosa avrebbe potuto fare in questo caso? Ogni istante
era di
importanza vitale. Un tempo, cinque
anni prima, erano stati grandi amici, quasi inseparabili. Poi la loro intimità
era
improvvisamente finita. Quando si
incontravano in società solo Dorian Gray sorrideva: Alan Campbell mai.
Era un giovane estremamente
intelligente, anche se non apprezzava veramente le arti figurative e quel poco
di
sensibilità estetica per la poesia
lo aveva preso tutto da Dorian. La passione intellettuale che lo dominava era
la scienza.
A Cambridge, aveva trascorso la
maggior parte del tempo nel lavoro di laboratorio e aveva ricevuto un ottimo
punteggio nel concorso di scienze
naturali del suo anno. Lo studio della chimica l'interessava ancora, e aveva un
suo
laboratorio nel quale era solito
chiudersi per tutta la giornata con grande dispiacere della madre che sarebbe
stata felice
di vederlo presentarsi candidato al
Parlamento e aveva la vaga idea che i chimici fossero una specie di farmacisti.
Tuttavia, era anche un eccellente
musicista e suonava il piano e il violino meglio di molti dilettanti. Proprio
la musica li
aveva avvicinati: la musica e
quell'indefinibile attrazione che Dorian sembrava capace di esercitare quando
voleva, e
che infatti esercitava, spesso senza
saperlo. Si erano incontrati da Lady Berkshire la sera in cui aveva suonato
Rubinstein e da allora si erano
visti sempre insieme all'Opera o ovunque si desse buona musica. La loro
intimità era
durata diciotto mesi. Campbell era
sempre a Selby Royal o a Grosvenor Square. Per lui, come per altri, Dorian Gray
era
il modello di tutto ciò che vi è di
meraviglioso e di affascinante nella vita. Nessuno seppe mai se tra loro fosse
sorto un
litigio o meno ma, improvvisamente,
la gente cominciò a notare che, quando si incontravano, si parlavano appena e
che
Campbell pareva abbandonare presto
ogni party in cui era presente Dorian Gray. Inoltre era cambiato: a volte era
stranamente malinconico, sembrava
quasi che non gli piacesse più ascoltare la musica. Non suonava più: quando lo
pregavano di farlo si scusava
dicendo che la scienza lo assorbiva a un punto tale che non aveva più tempo per
tenersi in
esercizio. Ed era certamente vero:
sembrava interessarsi sempre di più alla biologia e qualche volta il suo nome
appariva su riviste scientifiche a
proposito di strani esperimenti.
Questo era l'uomo che Dorian Gray
attendeva Ogni momento consultava l'orologio. Man mano che i minuti
passavano la sua agitazione
aumentava terribilmente. Alla fine si alzò e cominciò a camminare avanti e
indietro per la
stanza, come un bell'animale in
gabbia. Camminava a passi lunghi e furtivi, le mani erano stranamente fredde.
L'attesa divenne insopportabile.
Aveva l'impressione che il tempo avanzasse con i piedi di piombo, mentre ali
mostruose lo sospingevano verso il
bordo irregolare di una buia fenditura o di una voragine. Sapeva che cosa lo
aspettava, anzi lo vedeva, e scosso
da un tremito premette le mani sudate sulle palpebre ardenti, come se volesse
rubare
la vista alla sua stessa mente e
schiacciare i bulbi oculari nelle orbite. Era inutile. La mente aveva un suo
alimento che
divorava avidamente e
l'immaginazione, resa grottesca dal terrore, aggrovigliata e contorta come una
creatura viva
sofferente, danzava come un assurdo
burattino con il ghigno di una maschera greca. Poi, improvvisamente, il tempo
si
fermò. Sì: quella cosa cieca, dal
lento respiro, non strisciava più, era morta e gli orrendi pensieri corsero
turbinando
dinanzi a lui, estrassero dal suo
sepolcro un futuro spaventoso e glielo mostrarono. Egli guardò e impietrì
dall'orrore.
Finalmente la porta si aprì ed entrò
il cameriere. Dorian portò su di lui uno sguardo vitreo.
«Il signor Campbell, signore,»
annunciò l'uomo.
Un sospiro di sollievo gli uscì
dalle labbra secche e le guance ripresero colore.
«Fallo entrare subito, Francis.» Si
sentiva nuovamente se stesso: la crisi di paura era superata.
L'uomo fece un inchino e si ritirò.
Pochi momenti dopo entrò Alan Campbell, pallido e con un'espressione di
estrema severità. I capelli neri
come il carbone e le sopracciglia scure ne accentuavano il pallore.
«Alan, sei stato molto gentile.
Grazie per essere venuto.»
«Avevo deciso di non entrare più in
casa sua, Gray. Ma lei mi ha fatto dire che si trattava di una questione di
vita o di morte.» La voce era dura e
fredda. Parlava lentamente, con decisione. Nel freddo sguardo indagatore che
rivolse a Dorian Gray c'era
un'espressione di disprezzo. Teneva le mani nelle tasche del cappotto di
astrakan e sembrava
non aver notato il gesto con cui era
stato accolto.
«Sì, è una questione di vita o di
morte, Alan, e per più di una persona. Siediti.»
Campbell prese la sedia accanto alla
tavola e Dorian sedette di fronte a lui. I loro occhi si incontrarono. In
quelli di Dorian c'era un'infinità
pietà. Sapeva che quello che stava per fare era spaventoso.
Dopo un prolungato silenzio, si
chinò sul tavolo e disse, con molta tranquillità ma osservando l'effetto di
ogni
parola sul viso dell'uomo che aveva
mandato a chiamare: «Alan, in una stanza chiusa, all'ultimo piano di questa
casa,
una stanza nella quale solo io posso
entrare, c'è un morto seduto ad un tavolo. È morto da dieci ore, ormai. Non
agitarti
e non guardarmi in quel modo. Chi
sia l'uomo, perché è morto, come è morto, non sono cose che ti interessano.
Quello
che tu devi fare è...»
«Basta, Gray. Non voglio sapere
nient'altro. Se quello che lei ha detto è vero o no, non è cosa che mi
riguarda.
Rifiuto assolutamente di
immischiarmi nella sua vita. Tenga per lei i suoi orribili segreti. Non mi
interessano più.»
«Devono interessarti, Alan. Questo
dovrà interessarti. Sono terribilmente spiacente per te, Alan, ma non posso
farne a meno: sei l'unico in grado
di salvarmi. Sono costretto a coinvolgerti in questa faccenda, non ho scelta.
Alan, tu
sei uno scienziato, conosci la
chimica e roba simile. Hai fatto esperimenti. Quel che devi fare è
semplicemente
distruggere la cosa che c'è di
sopra, distruggerla in modo che non ne rimanga traccia. Nessuno l'ha visto
entrare in
questa casa. Anzi, in questo momento
si pensa che sia a Parigi. La sua mancanza non verrà notata per mesi. Quando se
ne accorgeranno, bisogna che qui non
si trovi nessuna traccia di lui. Tu, Alan, devi trasformare lui e tutto ciò che
gli
appartiene in un pugno di cenere che
io possa disperdere nell'aria.»
«Sei pazzo, Dorian.»
«Ah! Aspettavo che mi dessi del tu.»
«Sei pazzo, ti dico... pazzo a
immaginare che avrei sollevato un dito per aiutarti, pazzo a farmi questa
mostruosa confessione. Non voglio
aver nulla a che fare con questa faccenda, qualunque sia. Credi che voglia
mettere in
pericolo la mia reputazione per te?
Che cosa mi importa di questa diabolica faccenda in cui ti sei cacciato?»
«È stato un suicidio, Alan.»
«Me ne rallegro. Ma chi lo ha spinto
a questo? Tu, immagino.»
«Insisti nel rifiutare di fare quel
che ti ho chiesto ?»
«Certo che rifiuto. Non voglio
averci assolutamente nulla a che fare. Non mi importa nulla della vergogna che
può venirtene. Te la meriti tutta.
Non mi dispiacerebbe vederti disonorato, pubblicamente disonorato. Come osi
chiedere a me, proprio a me, di immischiarmi
in questa orribile cosa? Pensavo che tu conoscessi meglio il carattere
umano. Il tuo amico Lord Henry
Wotton non deve averti insegnato molto in fatto di psicologia, qualunque altro
cosa
possa averti insegnato. Nulla mi
indurrà ad accennare un passo per aiutarti. Non hai scelto la persona adatta.
Va' da
qualcuno dei tuoi amici, non venire
da me.»
«Alan, è stato un assassinio. L'ho
ucciso. Non immagini che cosa mi ha fatto soffrire. Quale che sia la mia vita,
la sua responsabilità, nel farla o
nel rovinarla, è stata molto maggiore di quella del povero Harry. Può darsi che
non lo
abbia voluto, ma il risultato è
stato lo stesso.»
«Un assassinio! Buon Dio, Dorian,
sei arrivato a questo? Non ti denuncerò, la cosa non mi riguarda. Del resto,
se non mi occupassi di questa
faccenda ti arresterebbero certamente: nessuno commette un delitto senza fare
qualche
stupidaggine, ma io non voglio
averci nulla a che fare.»
«Devi averci a che fare. Aspetta un
momento; ascoltami. Ascolta soltanto, Alan. Ti chiedo solo di compiere un
certo esperimento scientifico. Tu
entri negli ospedali e negli obitori e le cose orribili che fai là dentro non
ti fanno
nessun effetto. Se in qualche
ripugnante sala di dissezione o in qualche fetido laboratorio, trovassi
quest'uomo disteso
su un tavolo di piombo con intorno
dei canaletti rossi per far scorrere il sangue, ti limiteresti a ritenerlo un
esemplare
interessante. Non batteresti ciglio.
Non penseresti affatto di fare qualche cosa di male. Al contrario,
probabilmente
avresti l'impressione di giovare
alla specie umana, di aumentare la conoscenza del mondo, di gratificare la tua
curiosità
intellettuale, o qualche cosa di
simile. Io ti chiedo solo di fare una cosa che hai fatto molte altre volte.
Distruggere un
cadavere deve essere molto meno
orribile delle cose che sei solito fare. E, ricorda, è l'unica prova esistente
contro di me.
Se la scoprono, sono perduto, e
verrò certamente scoperto se non mi aiuti.»
«Non ho nessuna voglia di aiutarti,
dimentichi questo. Tutta questa storia mi lascia semplicemente indifferente.
Non mi riguarda affatto.»
«Alan, ti supplico. Pensa alla
situazione in cui mi trovo. Fino a un attimo prima che tu venissi, ero quasi
svenuto di terrore. Un giorno
potresti trovarti anche tu nella stessa situazione. No! Non pensare a questo.
Cerca di
vedere la cosa sotto l'aspetto
puramente scientifico. Non ti chiedi da dove provengano i morti sui quali compi
i tuoi
esperimenti. Non domandartelo
nemmeno ora. Ti ho già detto anche troppo. Ma ti prego di farlo. Una volta
eravamo
amici, Alan.»
«Non parlare di quei tempi, Dorian:
sono morti.»
«A volte i morti se ne vanno in
giro. L'uomo di sopra non se ne andrà. È seduto al tavolo con la testa
reclinata e
le braccia distese. Alan, Alan, se
non mi vieni in aiuto sono rovinato. Pensa, mi impiccheranno, Alan! Non
capisci? Mi
impiccheranno per quel che ho
fatto.»
«È inutile tirare in lungo questa
scena. Rifiuto assolutamente di occuparmi di questa faccenda. È pazzesco che
tu me lo chieda.»
«Ti rifiuti?»
«Sì.»
«Te ne supplico, Alan.»
«È inutile.»
La stessa espressione di pietà
ritornò negli occhi di Dorian Gray. Quindi allungò una mano, prese un pezzo di
carta e vi scrisse qualche cosa. Lo
lesse due volte, lo piegò con cura e lo spinse attraverso la tavola. Fatto
questo, si alzò
e andò alla finestra.
Campbell lo guardò sorpreso, poi
prese il foglio e lo aprì. Mentre lo leggeva, sul volto gli apparve un pallore
mortale. Ricadde a sedere e fu
sopraffatto da un orribile senso di nausea. Aveva l'impressione che il cuore
pulsasse fino
a scoppiare in una vuota cavità.
Dopo un paio di minuti di terribile
silenzio, Dorian si volse, gli si avvicinò e si fermò dietro di lui posandogli
una mano sulla spalla.
«Mi dispiace moltissimo per te,
Alan,» mormorò, «ma non mi hai lasciato altra scelta. Ho già scritto una
lettera: eccola. L'indirizzo lo
vedi. Se non mi aiuti», sarò costretto a spedirla. Sai quali saranno le
conseguenze. Ma tu
mi aiuterai. Non puoi rifiutare,
adesso. Ho cercato di risparmiarti. Sarai tanto onesto da ammetterlo. Sei stato
severo,
aspro, offensivo. Mi hai trattato
come nessuno ha mai osato trattarmi... nessuno che sia vivo, almeno. Ho
sopportato
tutto. Adesso sono io a dettare le
condizioni.»
Campbell seppellì il volto tra le
mani, scosso da un brivido.
«Sì, sono io a dettare le
condizioni, Alan. Sai quali sono. La cosa è semplicissima. Avanti, non perdere
il
controllo dei nervi. La cosa deve
essere fatta. Affrontala e falla.»
Un gemito sfuggì dalle labbra di
Campbell; un tremito lo scuoteva tutto. Il ticchettio dell'orologio sulla
mensola del caminetto gli pareva
dividesse il tempo in atomi separati di sofferenza, ognuno troppo spaventoso
per
essere sopportato. Gli parve che un
anello di ferro gli si stringesse lentamente intorno alla fronte, come se la
disgrazia
che lo minacciava fosse già
avvenuta. La mano sulla spalla pesava come se fosse di piombo. Era
insostenibile,
sembrava schiacciarlo.
«Avanti, Alan, devi decidere
immediatamente.»
«Non posso farlo,» disse
meccanicamente, come se le parole potessero modificare le cose.
«Devi. Non hai scelta. Non perdere
tempo.»
Campbell esitò un momento. «C'è del
fuoco nella stanza?»
«Sì, una stufa a gas con il corpo di
amianto.»
«Devo andare a casa a prendere
alcune cose in laboratorio.»
«No, Alan, non devi lasciare questa
casa. Scrivi su un foglio quello che ti occorre e il mio servo prenderà una
carrozza e lo porterà qui.»
Campbell scarabocchiò alcune righe,
le asciugò con la carta assorbente e scrisse su una busta l'indirizzo del suo
assistente. Dorian Gray prese il
biglietto e lo lesse con attenzione. Poi suonò il campanello, consegnò la busta
al
cameriere, ordinandogli di tornare
il più presto possibile, e di portare le cose con sé.
Quando la porta di casa si chiuse,
Campbell ebbe uno scatto e, alzatosi, si diresse verso il caminetto. Tremava
come se avesse un attacco di
malaria. Per circa venti minuti nessuno dei due pronunciò parola. Una mosca
ronzava
fastidiosamente nella stanza e i
battiti dell'orologio sembravano colpi di martello.
Quando la pendola suonò l'una,
Campbell si voltò e, lanciando un'occhiata a Dorian Gray, vide che aveva gli
occhi pieni di lacrime. Nella
purezza e nella perfezione di quel volto triste c'era qualche cosa che lo fece
arrabbiare.
«Sei infame, assolutamente infame!»
mormorò.
«Zitto, Alan: mi hai salvato la vita,»
disse Dorian.
«La vita? Santo cielo! Che razza di
vita! Sei passato di corruzione in corruzione, e adesso culmini in un delitto.
Facendo quel che stai per fare - che
mi costringi a fare - non è alla tua vita che penso.»
«Ah, Alan,» mormorò Dorian con un
sospiro, «vorrei che tu provassi per me un millesimo della pietà che io
provo per te.» Mentre pronunciava
queste parole si voltò e rimase immobile, guardando fuori, nel giardino.
Campbell
non rispose.
Dopo circa dieci minuti si sentì
bussare alla porta ed entrò il cameriere con una grande cassa di mogano piena
di prodotti chimici, una lunga
serpentina di acciaio, un rotolo di filo di platino e due morsetti di ferro di
forma insolita.
«Devo lasciare tutto qui, signore?»
domandò a Campbell.
«Sì,» disse Dorian. «E temo di avere
un'altra incombenza per te, Francis. Come si chiama quell'uomo di
Richmond che fornisce le orchidee a
Selby?»
«Harden, signore.»
«Già, Harden. Devi andare subito a
Richmond, parlargli personalmente, dirgli di mandare il doppio delle
orchidee che ho ordinato, e di
metterne il meno possibile di bianche. Anzi, di bianche non ne voglio. È una
bella
giornata, Francis, e Richmond è un
bel posto, altrimenti non ti infastidirei con questa cosa.»
«Nessun fastidio, signore. Per che
ora devo tornare?»
Dorian guardò Campbell. «Quanto
tempo ci vorrà per il tuo esperimento, Alan?» domandò con voce calma e
indifferente. La presenza di una
terza persona nella stanza sembrava dargli un coraggio straordinario.
Campbell aggrottò le sopracciglia e
si morse un labbro. «Ci vorranno cinque ore circa,» rispose.
«Allora, sarà sufficiente che tu sia
di ritorno per le sette e mezzo, Francis. Anzi, aspetta: basta che tu tiri
fuori il
mio vestito da sera, poi sarai
libero per tutta la serata. Non ceno a casa, quindi non avrò bisogno di te.»
«Grazie, signore,» disse l'uomo e
uscì.
«Adesso, Alan, non c'è un momento da
perdere. Com'è pesante questa cassa! Te la porto io. Tu prendi le altre
cose.» Parlava rapidamente, in tono
autoritario. Campbell si sentiva soggiogato. Lasciarono insieme la stanza.
Quando furono giunti sul
pianerottolo dell'ultimo piano, Dorian levò di tasca la chiave e la girò nella
toppa. Poi
si fermò e un'espressione turbata
gli apparve negli occhi. Rabbrividì. «Non credo di poter entrare, Alan,»
mormorò.
«Non importa, non ho bisogno di te,»
disse Campbell freddamente.
Dorian socchiuse la porta. Nel farlo
vide il viso ghignante del ritratto nella luce del sole. Sul pavimento,
davanti ad esso, era ammucchiato il
drappo che aveva strappato. Ricordò che la notte precedente, per la prima volta
in
vita sua, aveva dimenticato di
nascondere la tela fatale. Stava per precipitarsi a farlo quando arretrò con un
brivido.
Che cos'era quella disgustosa
rugiada rossa che brillava, umida e lucente, su una delle mani, come se la tela
sudasse sangue? Com'era
terribile!... ancor più orribile, gli sembrò in quel momento, della cosa
silenziosa che sapeva
riversa sulla tavola, quella cosa la
cui ombra, grottesca e informe sul tappeto macchiato, mostrava che non si era mossa
ma era ancora lì, come l'aveva
lasciata.
Trasse un profondo respiro, aprì un
poco di più la porta e, con gli occhi semichiusi, distogliendo il viso, entrò
rapidamente deciso a non posare
nemmeno per un attimo gli occhi sul cadavere. Poi, chinatosi, afferrò il drappo
e lo
gettò sul quadro.
Si fermò, timoroso di voltarsi, con
gli occhi fissi sul complicato ricamo che aveva davanti. Sentì Campbell
trascinare all'interno la pesante
cassa, i ferri e gli altri strumenti necessari per il suo terribile lavoro.
Cominciò a
chiedersi se lui e Basil Hallward si
fossero mai conosciuti e che cosa pensassero l'uno dell'altro.
«Adesso lasciami,» disse una voce
severa alle sue spalle. Si voltò e uscì in fretta, appena consapevole del fatto
che il morto era stato rialzato
contro la sedia e che Campbell stava esaminandone il volto giallo e lucente.
Mentre
scendeva le scale sentì girare la
chiave nella toppa.
Le sette erano passate da un pezzo
quando Campbell ritornò in biblioteca. Era pallido, ma perfettamente calmo.
«Ho fatto quello che mi hai
chiesto,» mormorò. «E adesso, addio. Facciamo in modo di non vederci più.»
«Mi hai salvato dalla rovina, Alan.
Non me ne dimenticherò,» disse Dorian, semplicemente.
Appena Campbell fu uscito, salì di
sopra. Nella stanza c'era un orribile odore di acido nitrico. Ma la cosa che
era stata seduta al tavolo era
scomparsa.
XV
Quella sera, alle otto e mezzo,
Dorian Gray, elegantissimo e con un mazzetto di violette di Parma
all'occhiello,
entrò nel salotto di Lady Narborough
tra gli inchini dei camerieri. Sulla fronte sentiva sussultare, i nervi
impazziti e si
sentiva in preda a un'eccitazione
selvaggia, Ma mentre si chinava sulla mano della sua ospite, i suoi modi erano
come
sempre sciolti e pieni di grazia.
Forse non ci si sente mai a proprio agio come quando si recita una parte. Certo
quella
sera nessuno, guardando Dorian Gray,
avrebbe potuto credere che era appena uscito da una tragedia orribile, come
tutte
le tragedie del nostro tempo. Non
era possibile che quelle dita sottili avessero afferrato un coltello per
commettere un
delitto, né che quelle labbra
sorridenti avessero bestemmiato contro Dio e contro la bontà. Lui stesso non
poteva fare a
meno di meravigliarsi della propria
calma e per un momento provò acutamente il piacere di vivere una doppia vita.
Al party c'era poca gente, messa
insieme in fretta da Lady Narborough, una donna molto intelligente, dotata di
quelli che Lord Henry era solito
chiamare i resti di una bruttezza davvero notevole. Si era dimostrata moglie
eccellente
di uno dei nostri ambasciatori più
noiosi e, dopo aver sepolto correttamente il marito in un mausoleo di marmo da
lei
stessa ideato, aveva maritato le
figlie a degli uomini più ricchi e piuttosto anziani e si era data ai piaceri
del romanzo
francese, della cucina francese e
dell'esprit francese, quando riusciva a capirlo.
Dorian era uno dei suoi favoriti:
gli diceva sempre che era estremamente felice di non averlo incontrato in
gioventù. «Sono sicura, mio caro,
che mi sarei follemente innamorata di lei,» era solita dire, «e per lei
"avrei lasciato il
cappello dietro il mulino". È
stata una grande fortuna che, a quel tempo, lei non fosse nemmeno
un'intenzione. Del
resto, i nostri cappelli erano così
brutti e i nostri mulini erano così occupati a far vento, che non ho mai avuto
nemmeno
un flirt. Comunque, è stata tutta
colpa di Narborough. Era tremendamente miope e non c'è nessun gusto quando si
ha un
marito che non vede nulla.»
Gli ospiti della serata erano
piuttosto noiosi. Il fatto era, come spiegò a Dorian Gray dietro un ventaglio
piuttosto male in arnese, che una
delle figlie sposate era venuta improvvisamente a stare per qualche tempo con
lei e,
per peggiorare le cose, aveva
portato il marito. «Credo proprio che sia stato poco gentile da parte sua, mio
caro,»
sussurrò. «È vero che d'estate sono
loro ospite quando ritorno da Homburg, ma dopotutto una vecchia come me deve
prendere un po' d'aria fresca ogni
tanto e d'altra parte li rianimo un po'. Non immagina che vita fanno laggiù.
Pura e
intatta vita di campagna. Si alzano
presto perché hanno moltissimo da fare e vanno a letto presto perché hanno
pochissimo da pensare. Non c'è stato
uno scandalo nelle vicinanze dai tempi della regina Elisabetta e così si
addormentano subito dopo pranzo. Non
deve mettersi vicino a nessuno dei due, lei si metterà vicino, a me e mi farà
divertire.»
Dorian mormorò un complimento
gentile e si guardò intorno. Sì, era proprio un party noioso. C'erano due
ospiti che non aveva mai visto; gli
altri erano Ernest Harrowden, una di quelle mediocrità di mezza età che sono
così
comuni nei club londinesi, privi di
nemici, ma accuratamente antipatici agli amici; Lady Ruxton, una donna sui
quarantasette vestita con troppo
lusso, con il naso a becco, che cercava continuamente di compromettersi, ma così
scialba che, con suo grande
disappunto, nessuno avrebbe mai pensato qualcosa di male sul suo conto; la
signora
Erlynne, un'arrivista senza qualità,
con una deliziosa balbuzie e i capelli rosso veneziano; Lady Alice Chapman,
figlia
dell'ospite, una ragazza ottusa e
malvestita; con una di quelle caratteristiche facce britanniche che una volte
viste non si
ricordano mai più, e il marito, un
essere rubizzo dalle basette bianche che, come molti della sua classe, pensava
che una
giovialità disordinata possa compensare
un'assoluta mancanza di idee.
Era piuttosto pentito di essere
venuto, quando Lady Narborough guardando il grande orologio di bronzo
dorato, adagiato in ricche volute
sulla mensola del camino coperta da un panno mauve, esclamò: «È
indecente, da parte
di Henry Wotton, arrivare così in
ritardo! L'ho fatto avvertire stamattina sperando di trovarlo, e mi ha
assicurato che
non mi avrebbe delusa.»
Il fatto che Henry dovesse arrivare
lo consolò, e quindi, quando la porta si aprì e Dorian udì la voce lenta e
musicale dare una veste affascinante
a una falsa scusa, non si sentì più annoiato.
Ma a pranzo non riuscì a mangiare
nulla. I Piatti passavano uno dopo l'altro senza che li toccasse. Lady
Narborough continuava a sgridarlo
per quello che chiamava «un insulto al povero Adolphe, che ha composto il menù
apposta per lei» e, di tanto in
tanto, Lord Henry gli lanciava un'occhiata, stupito del suo silenzio e dei suoi
modi
distratti. Ogni tanto il cameriere
gli riempiva il bicchiere di champagne. Beveva avidamente ma la sete sembrava
aumentare di continuo.
«Dorian,» disse Lord Henry alla
fine, mentre veniva servito lo chaud-froid, «che cosa ti succede,
stasera? Mi
sembri di pessimo umore.»
«Credo che sia innamorato,» esclamò
Lady Narborough, «ma che abbia paura di dirmelo perché teme che io
sia gelosa. Ha assolutamente
ragione: lo sarei di certo.»
«Cara Lady Narborough,» mormorò
Dorian sorridendo, «è da una settimana che non sono innamorato... da
quando è partita Madame Ferrol.»
«Mi domando come facciate, voi uomini,
a innamorarvi di quella donna!» esclamò la vecchia signora. «Non
riesco proprio a capirlo.»
«Semplicemente, perché assomiglia a
lei da bambina, Lady Narborough,», disse Lord Henry. «È l'unico
legame che rimane tra noi e i suoi
vestitini.»
«Non ricorda proprio per niente i
miei vestitini, Lord Henry. Ma la ricordo benissimo a Vienna trent'anni fa e
ricordo anche l'ampiezza dei suoi décolletés.»
«L'ampiezza c'è ancora,» disse Lord
Henry prendendo un'oliva con le lunghe dita; «e quando è molto elegante
ricorda l'edition de luxe di
un brutto romanzo francese. È davvero stupefacente e piena di sorprese.
L'intensità dei suoi
affetti familiari è straordinaria:
quando morì il suo terzo marito divenne completamente bionda per il
dispiacere.»
«Henry, come puoi... !» esclamò
Dorian Gray.
«È una spiegazione molto romantica,»
rise l'ospite. «Ma, il suo terzo marito, Lord Henry! Non vorrà dire che
Ferrol è il quarto.»
«Certo, Lady Narborough.»
«Non ci credo assolutamente.»
«Bene, lo chieda al signor Gray. È
uno dei suoi più intimi amici.»
«È vero, signor Gray?»
«Me lo ha assicurato lei, Lady
Narborough,» disse Dorian. «Le ho domandato se, come Margherita di Navarra,
aveva fatto imbalsamare i loro cuori
e li aveva appesi alla cintura. Mi ha detto che non lo aveva fatto perché
nessuno di
loro aveva un cuore.»
«Quattro mariti! Parola mia, questo
si chiama trop de zèle.»
«Trop d'audace, io le ho
detto,» disse Dorian Gray.
«Oh, Madame Ferrol è audace in
tutto, mio caro. E che tipo è il marito? Non lo conosco.»
«I mariti delle donne molto belle
appartengono alla categoria dei criminali,» disse Lord Henry sorseggiando il
vino.
Lady Narborough lo colpì con il
ventaglio. «Lord Henry, non mi sorprende affatto che il mondo dica che lei è
estremamente maligno.»
«Ma quale mondo?» domandò Lord
Henry, alzando le sopracciglia. «Non può essere che l'altro mondo, dato
che questo mondo ed io siamo in
ottimi rapporti.»
«Tutti quelli che conosco dicono che
lei è molto maligno,» esclamò la vecchia signora, scuotendo il capo.
Lord Henry prese per un momento
un'aria seria. «È assolutamente mostruoso,» disse alla fine, «il modo che ha
oggi la gente di dire alle nostre
spalle cose che sono assolutamente e completamente vere.»
«Non è incorreggibile?» esclamò
Dorian Gray, piegandosi sulla sedia.
«Lo spero,» disse la sua ospite
ridendo. «Ma davvero se tutti voi adorate Madame Ferrol in questo modo
ridicolo, sarò costretta a sposarmi
per essere di moda.»
«Lei non si sposerà più, Lady
Narborough,» interruppe Lord Henry. «È troppo felice. Quando una donna si
risposa lo fa perché detestava il
primo marito. Quando si risposa un uomo, lo fa perché adorava la prima moglie.
Le
donne mettono alla prova la loro
fortuna, gli uomini la mettono a repentaglio.»
«Narborough non era perfetto,» disse
la vecchia signora.
«Se lo fosse stato, lei non
l'avrebbe amato, mia cara,» fu la risposta, «Le donne ci amano per i nostri
difetti. Se
ne abbiamo a sufficienza, ci
perdonano tutto, persino l'intelligenza. Dopo aver detto queste cose, temo che
lei non mi
inviterà più a pranzo, Lady
Narborough; comunque sono cose vere.»
«Certo che sono cose vere, Lord
Henry. Se noi donne non vi amassimo per i vostri difetti, che cosa sarebbe di
tutti voi? Nessuno di voi si
sposerebbe. Sareste una massa di disgraziati scapoli. Non è che con questo le
cose
cambierebbero molto: di questi tempi
tutti gli uomini sposati vivono da scapoli e tutti gli scapoli da sposati.»
«Fin de siècle,» mormorò Lord
Henry.
«Fin du globe,» replicò la
padrona di casa.
«Vorrei che fosse davvero fin du
globe,» disse Dorian con un sospiro. «La vita è una grande delusione.»
«Ah, mio caro,» disse Lady
Narborough infilandosi i guanti, «non mi dica che ha esaurito la vita. Quando
un
uomo dice una cosa simile, si è
sicuri che la vita ha esaurito lui. Lord Henry è molto maligno e a volte vorrei
esserlo
stata anch'io: ma lei è fatto per
essere buono, ha l'aria di esserlo. Devo trovarle una bella moglie. Lord Henry,
non pensa
che il signor Gray dovrebbe
sposarsi?»
«Glielo dico sempre, Lady
Narborough,» disse Lord Henry con un inchino.
«Bene, dobbiamo cercargli un partito
conveniente. Stasera sfoglierò attentamente il Debrett e ne tirerò fuori
una lista di tutte le giovani
fanciulle desiderabili.»
«Con le rispettive età, Lady
Narborough?» domandò Dorian.
«Naturalmente, con le rispettive
età, in edizione leggermente riveduta. Ma non bisogna agire frettolosamente.
Voglio che sia quello che il Morning
Post chiamerebbe un matrimonio ben assortito, e voglio che siate felici
tutti e
due.»
«Quante assurdità si dicono sui
matrimoni felici!» esclamò Lord Henry. «Un uomo può essere felice con
qualsiasi donna, finché non ne è
innamorato.»
«Ah! Che cinico!» esclamò la vecchia
signora, scostando la sedia e facendo un cenno a Lady Ruxton. «Deve
ritornare presto a cena da me. Lei è
veramente un tonico straordinario, molto meglio di quello che mi prescrive Sir
Andrew. Deve dirmi chi le piacerebbe
incontrare. Voglio che sia una riunione piacevolissima.»
«Mi piacciono gli uomini che hanno
un futuro e le donne che hanno un passato,» rispose Lord Henry. «O
pensate che sarebbe un party di sole
sottane?»
«Temo di sì,» rispose la donna
ridendo e si alzò. «Mille scuse, mia cara Lady Ruxton,» aggiunse. «Non mi ero
accorta che non aveva finito la
sigaretta.»
«Non importa, Lady Narborough. Fumo
troppo. Ho intenzione di controllarmi, in futuro.»
«Non lo faccia, per favore, Lady
Ruxton,» disse Lord Henry. «La moderazione è fatale. L'abbastanza è cattivo
come un pasto, il troppo è buono
come un banchetto.»
Lady Ruxton lo guardò interessata.
«Deve venire qualche pomeriggio a casa mia a spiegarmelo, Lord Henry.
Mi pare una teoria affascinante,»
mormorò e scivolò fuori dalla stanza.
«Adesso, cercate di non discutere
troppo di quella vostra politica e di scandali,» esclamò Lady Narborough
dalla porta. «Altrimenti, di sopra litigheremo
di sicuro.»
Gli uomini risero e il signor
Chapman si alzò solennemente, spostandosi da un estremo all'altro della tavola.
Dorian Gray cambiò posto e andò a
sedere accanto a Lord Henry. Il signor Chapman cominciò a parlare a voce alta
della situazione alla Camera dei
Comuni, dileggiando i suoi avversari. La parola doctrinaire, parola
terrorizzante per
una mente inglese, riappariva di
tanto in tanto tra le sue esplosioni di risa. Un prefisso allitterativo serviva
da ornamento
alla sua retorica. Issò l'Union Jack
sui pinnacoli del pensiero. L'ereditaria stupidità della razza - da lui
giovialmente
definita sano buonsenso inglese -
venne presentata come il giusto baluardo della società.
Un sorriso incurvò le labbra di Lord
Henry che si voltò verso Dorian osservandolo.
«Ti senti meglio, caro amico?»
domandò. «A cena sembravi piuttosto di malumore.»
«Sto benissimo, Harry. Sono stanco.
Tutto qui.»
«Ieri sera eri affascinante. La
piccola duchessa ti è completamente devota. Mi ha detto che verrà a Selby.»
«Mi ha promesso di venire il venti.»
«Ci sarà anche Monmouth?»
«Oh, sì, Harry.»
«È terribilmente noioso, per me,
quasi quanto per lei. Lei è molto intelligente, troppo per una donna. Le manca
il fascino indefinibile della
debolezza. Sono i piedi d'argilla che valorizzano l'oro della statua. I suoi
piedi sono molto
graziosi, ma non sono d'argilla.
Piedi di porcellana bianca, se vuoi. Sono passati attraverso il fuoco e quello
che il fuoco
non distrugge, indurisce. Ha avuto
delle esperienze.»
«Da quanto tempo è sposata?» domandò
Dorian.
«Da un'eternità, mi ha detto. Credo
da dieci anni, stando all'almanacco nobiliare, ma dieci anni con Monmouth
devono essere un'eternità più un po'
di tempo ancora. Chi saranno gli altri?»
«Oh, i Willoughby, Lord Rugby con la
moglie, la nostra ospite, Geoffrey Clouston: il solito giro. Ho chiesto a
Lord Grotrian di venire.»
«Mi è simpatico,» disse Lord Henry,
«a moltissimi non lo è, ma io lo trovo piacevole. Si fa perdonare il fatto di
essere qualche volta un po' troppo
ben vestito, con quello di essere sempre troppo ben educato. È un tipo molto
moderno.»
«Non so se potrà venire, Harry.
Forse dovrà andare a Montecarlo con il padre.»
«Ah, che seccatura i parenti! Cerca
di farlo venire. A proposito, Dorian, te ne sei scappato molto presto ieri
sera, prima delle undici. Che cosa
hai fatto dopo? Sei andato subito a casa?»
Dorian gli lanciò una rapida
occhiata, accigliandosi. «No, Harry,» disse alla fine, «sono stato fuori fino
alle tre
circa.»
«Sei andato al club?»
«Sì,» rispose. Poi si morse un
labbro. «No, non intendevo questo, non sono stato al club. Sono andato in giro.
Ho dimenticato cosa ho fatto... Come
sei indiscreto, Harry! Vuoi sempre sapere che cosa fa la gente. Io cerco sempre
di
dimenticare quel che ho fatto. Sono
rientrato alle due e mezzo, se vuoi sapere l'ora precisa. Avevo dimenticato la
chiave
a casa e ha dovuto aprirmi il mio
cameriere. Se vuoi una testimonianza che appoggi la mia dichiarazione, puoi
domandarglielo.»
Lord Henry si strinse nelle spalle.
«Mio caro amico, come se me ne importasse qualche cosa! Andiamo in
salotto. Niente sherry, grazie,
signor Chapman. Ti è successo qualche cosa, Dorian. Dimmi di che cosa si
tratta. Questa
sera non sei il solito.»
«Non badare a me, Harry. Sono
nervoso e di cattivo umore. Verrò a trovarti domani o dopo. Fa' le mie scuse a
Lady Narborough. Non vengo di sopra,
vado a casa. Devo andare a casa.»
«D'accordo, Dorian. Penso che ti
vedrò domani all'ora del tè. Ci sarà anche la duchessa.»
«Cercherò di venire, Harry,» disse
Dorian lasciando la stanza. Mentre tornava a casa in carrozza si rese conto
che il senso di terrore che credeva
di aver soffocato, lo aveva nuovamente sopraffatto. Le domande casuali di Lord
Henry per un momento gli avevano
fatto perdere il controllo dei nervi e voleva averli saldi. Bisognava
distruggere
alcune cose pericolose. Rabbrividì:
solo l'idea di toccarle gli dava un estremo fastidio.
Tuttavia era necessario. Se ne rese
conto e, dopo aver chiuso a chiave la porta della biblioteca, aprì il
ripostiglio segreto nel quale aveva
nascosto il cappotto e la borsa di Basil Hallward. Nel caminetto ardeva un
grande
fuoco. Vi gettò un altro ceppo.
L'odore della stoffa e del cuoio che bruciavano era orribile. Ci vollero tre
quarti d'ora
prima che tutto fosse consumato.
Alla fine si sentì fiacco e nauseato. Accese alcune pastiglie algerine in un
braciere di
rame traforato e bagnò mani e fronte
con fresco aceto muschiato.
Improvvisamente sussultò. Gli occhi
assunsero una strana luminosità e si morse nervosamente il labbro
inferiore. Tra due finestre c'era un
grande stipo fiorentino di ebano intarsiato di avorio e lapislazzuli blu. Lo
guardò
come se fosse una cosa a un tempo
affascinante e spaventosa, come se contenesse qualche cosa di cui fosse bramoso
e,
insieme, disgustato. Fu sopraffatto
da una folle bramosia. Accese una sigaretta, poi la gettò via. Le palpebre si
abbassarono finché le lunghe frange
delle ciglia gli sfiorarono le guance. Ma continuava a fissare lo stipo. Alla
fine si
alzò dal divano dove era sdraiato,
si avvicinò al mobile e toccò una molla nascosta. Un cassetto triangolare uscì
lentamente. Le sue dita si
avvicinarono istintivamente, vi entrarono, si chiusero su qualche cosa. Era una
piccola scatola
cinese di lacca nera e oro
minutamente lavorata, i fianchi erano decorati a motivi ondulati; dalla
scatoletta pendevano
due cordoncini di seta, intrecciati
con filo metallico terminanti in due cristalli rotondi. L'aprì. Conteneva una
pasta
verde, lucente come cera, dall'odore
stranamente greve e persistente.
Esitò qualche istante, con un
sorriso stranamente immobile sul volto. Poi, rabbrividì, sebbene nella stanza
ci
fosse un caldo terribile, si
raddrizzò e guardò l'orologio. Mancavano venti minuti a mezzanotte. Rimise la
scatoletta al
suo posto, richiuse il cassetto e si
trasferì in camera da letto.
A mezzanotte, mentre nell'aria
nebbiosa vibravano rintocchi di bronzo, Dorian Gray indossò un abito modesto,
mise una sciarpa al collo e scivolò
silenziosamente fuori di casa. In Bond Street trovò una carrozza con un buon
cavallo.
La chiamò con un cenno e a bassa
voce diede un indirizzo al vetturino.
L'uomo scosse il capo. «Troppo
lontano per me,» brontolò.
«Ecco una sovrana,» disse Dorian.
«Se va in fretta ne avrà un'altra.»
«D'accordo, signore,» disse l'uomo,
«ci sarà entro un'ora.» E, dopo aver intascato il prezzo della corsa, fece
girare il cavallo e si avviò rapido
verso il fiume.
XVI
Cominciò a cadere una pioggia
fredda; i lampioni offuscati proiettavano una luce debole nella bruma mista a
pioggia. I locali pubblici stavano
chiudendo e gruppi indistinti di uomini e donne si andavano raccogliendo
davanti agli
ingressi. Da qualche bar provenivano
orribili scoppi di risa. In altri, degli ubriachi si azzuffavano e gridavano.
Adagiato contro il fondo della
carrozza, con il cappello abbassato sulla fronte, Dorian Gray osservava
distrattamente la sordida vergogna
della grande città e, di tanto in tanto, ripeteva tra sé le parole che Lord
Henry gli
aveva detto il primo giorno del loro
incontro, «Curare l'anima con i sensi e i sensi con l'anima». Sì, questo era il
segreto.
Lo aveva sperimentato diverse volte,
e adesso lo avrebbe sperimentato di nuovo. C'erano le fumerie d'oppio, dove si
poteva comperare l'oblio, rifugi di
orrore dove era possibile distruggere il ricordo di vecchi peccati con la
follia di
peccati nuovi.
La luna era sospesa in basso nel
cielo, come un teschio giallo. Di tanto in tanto, una grossa nube informe
allungava un lungo braccio
nascondendola. I lampioni a gas si andavano facendo più rari e le strade più
strette e buie.
Ad un certo punto il vetturino
sbagliò strada e fu costretto a ritornare indietro per mezzo miglio. Un velo di
vapore
saliva dal cavallo quando schizzava
intorno a sé l'acqua delle pozzanghere. I finestrini laterali della carrozza
erano
appannati da una nebbia grigia.
«Curare l'anima con i sensi e i
sensi con l'anima!» Come gli risuonavano nelle orecchie queste parole! Certo,
la
sua anima era mortalmente malata.
Era proprio vero che i sensi potevano curarla? Era stato versato del sangue
innocente. Come sarebbe stato
possibile espiarlo? Ah! Non c'era espiazione per questo; ma se il perdono non
era
possibile, era ancora possibile
dimenticare, e lui era deciso a farlo, ad annientare quella cosa, a
schiacciarla come si
schiaccia la vipera che ci ha morso.
In realtà, che diritto aveva Basil di parlargli in quel modo? Chi l'aveva
autorizzato a
giudicare? Aveva detto cose
spaventose, orribili, insopportabili.
La carrozza continuava ad avanzare
lentamente e gli sembrava che rallentasse ad ogni passo. Alzò il divisorio e
disse all'uomo di andare più in
fretta. L'orribile fame d'oppio cominciava a roderlo. La gola gli bruciava e le
mani
delicate si torcevano nervosamente.
In un gesto folle, colpì il cavallo con il bastone. Il vetturino rise e usò la
frusta.
Rispose a sua volta con una risata:
l'uomo rimase in silenzio.
La via sembrava interminabile, le
strade parevano la nera tela di un ragno enorme. La monotonia divenne
insopportabile e, quando la nebbia
cominciò a diventare più fitta, si sentì prendere dalla paura.
Passarono davanti a fornaci
solitarie. Qui la nebbia era meno fitta e poté vedere gli strani forni a forma
di
bottiglia e le lingue di fuoco che
ne uscivano, simili a ventagli arancione. Un cane abbaiò al loro passare e
lontano
nell'oscurità si sentì lo strido di
un gabbiano vagante. Il cavallo inciampò in un solco, poi scartò e si lanciò al
galoppo.
Dopo qualche tempo lasciarono la via
di terra battuta e ripresero a sobbalzare su strade dal lastricato irregolare.
Quasi tutte le finestre erano buie,
ma, di tanto in tanto, ombre fantastiche si disegnavano in trasparenza contro
le tende.
Dorian le osservava con curiosità.
Si muovevano come mostruose marionette e gesticolavano come creature vive. Le
odiò. Una cupa ira gli gonfiava il cuore.
Mentre svoltavano all'angolo di una strada, da una porta una donna gridò loro
qualche cosa e due uomini rincorsero
la carrozza per un centinaio di metri. Il conducente li colpì con la frusta.
Dicono che la passione costringa il
pensiero in circoli viziosi. Certo, con una mostruosa iterazione, le labbra di
Dorian Gray formavano e riformavano
quelle sottili parole sull'anima e sui sensi, finché trovò in esse la piena
espressione, per così dire, del suo
stato d'animo, giustificando con l'approvazione dell'intelletto passioni che
altrimenti
lo avrebbero dominato. Da una
cellula all'altra del cervello passò quell'unico pensiero e il selvaggio
desiderio di vivere,
il più terribile degli istinti
umani, diede una nuova forza ai nervi e alle fibre tremanti. La bruttezza, che
un tempo gli era
stata odiosa perché rende le cose
reali, adesso per la stessa ragione gli era cara. La bruttezza era l'unica
realtà. Le risse
volgari, i covi disgustosi, la cruda
violenza della vita disordinata, persino la bassezza dei ladri e degli
emarginati, nella
loro intensa impressione di realtà
erano più vividi di tutte le forme piene di grazia dell'arte, delle ombre
sognanti del
canto. Erano quel che gli era
necessario per dimenticare. In tre giorni si sarebbe liberato.
Improvvisamente il conducente
arrestò la vettura con uno strappo all'inizio di un vicolo buio. Oltre i tetti
bassi
e la lunga fila ineguale dei
comignoli si levavano neri alberi di navi. Lembi di nebbia si aggrappavano ai
pennoni come
vele spettrali.
«È da queste parti, vero, signore?»
domandò brusco il vetturino attraverso il divisorio.
Dorian si riscosse e si guardò
attorno. «Va bene qui,» disse. Scese in fretta, diede al vetturino la sovrana
che gli
aveva promesso e si diresse rapido
verso le banchine. Di quando in quando appariva la lanterna di poppa di qualche
grosso mercantile. La luce si
rifletteva tremolando nelle pozzanghere. Un bagliore rosso proveniva da un
vapore in
partenza che stava rifornendosi di
carbone. Il fondo viscido sembrava un incerato bagnato.
Si avviò in fretta verso sinistra,
guardandosi ogni tanto alle spalle per vedere se lo seguiva qualcuno. Dopo
sette o otto minuti arrivò davanti
ad una casetta miserabile, stretta tra due fabbriche squallide. Una delle
finestre in alto
era illuminata. Si fermò e bussò in
modo particolare.
Pochi istanti dopo udì dei passi nel
corridoio e qualcuno tirò il catenaccio. La porta si aprì silenziosamente.
Dorian entrò senza dire una parola
alla figura acquattata e informe che si appiattì nell'ombra al suo passaggio.
Il fondo
del vestibolo era chiuso da una
tenda verde che ondeggiò e fremette nel vento entrato con lui dalla strada. La
scostò ed
entrò in un locale lungo e basso che
aveva l'aria di essere stata una sala da ballo di terz'ordine. Stridenti becchi
a gas che
si riflettevano offuscati e distorti
negli specchi macchiati dalle mosche, erano allineati lungo le pareti. Dietro
di essi
erano posti dei riflettori di latta
scanalata, sporchi di unto che proiettavano incerti circoli luminosi. Il
pavimento era
coperto di segatura color ocra a
tratti ridotta a fango dal calpestio e macchiata da cerchi scuri dove era stato
rovesciato
del liquore. Alcuni malesi,
accoccolati vicino a una piccola stufa a carbone, giocavano con tessere di
osso, e parlavano
mettendo in mostra i denti candidi.
In un angolo, un marinaio era riverso su un tavolo con la testa nascosta tra le
braccia; accanto al bancone dipinto
a colori vistosi che teneva tutta una parete, due donne disfatte prendevano in
giro un
vecchio che si passava le mani sulle
maniche della giacca con un'espressione di disgusto. «Crede di avere addosso
delle
formiche rosse,» disse ridendo una
delle donne mentre Dorian le passava accanto. L'uomo la guardò terrorizzato e
cominciò a piagnucolare.
In fondo alla stanza c'era una scaletta
che portava in una stanza debolmente illuminata. Mentre Dorian saliva in
fretta i tre gradini traballanti, fu
investito da un pesante odore di oppio. Trasse un profondo respiro e le narici
fremettero
di piacere. Appena entrato, un
giovane dai capelli biondi e lisci che era chino su una lampada ad accendere
una lunga
pipa sottile, alzò lo sguardo verso
di lui, e gli rivolse un esitante cenno di saluto.
«Tu qui, Adrian?» mormorò Dorian.
«Dove dovrei essere?» rispose
l'altro in tono indifferente. «Nessuno degli amici mi rivolge più la parola.»
«Pensavo che te ne fossi andato
dall'Inghilterra.»
«Darlington non intende fare nulla.
Mio fratello mi ha pagato la cambiale, finalmente. Anche George non mi
rivolge più la parola... ma non mi
importa,» aggiunse con un sospiro. «Finché c'è questa roba, non si ha bisogno
di
amici. Penso di averne avuti
troppi.»
Dorian rabbrividì e fece passare lo
sguardo sugli esseri grotteschi che giacevano in pose incredibili sui
materassi consunti. Lo affascinavano
le membra contorte, le bocche spalancate, senza luce. Sapeva in quali strani
paradisi stessero soffrendo e quali
cupi inferni stessero insegnando loro il segreto di qualche nuovo piacere.
Stavano
meglio di lui. Lui era prigioniero
del pensiero. La memoria, come, una terribile malattia, gli stava divorando
l'anima. Di
quando in quando, gli pareva di
vedere gli occhi di Basil Hallward che lo fissavano. Tuttavia sentiva che non
poteva
rimanere: la presenza di Adrian
Singleton lo turbava. Voleva essere in un posto dove nessuno lo conoscesse.
Voleva
sfuggire a se stesso.
«Vado nell'altro posto,» disse, dopo
un silenzio.
«Sulla banchina?.»
«Sì.»
«Ci troverai di certo quella gatta
arrabbiata. Qui non la vogliono più, adesso.»
Dorian scrollò le spalle. «Sono
nauseato dalle donne innamorate di me. Le donne che odiano sono molto più,
interessanti Inoltre, la roba è
migliore là.»
«La stessa, più o meno.»
«A me piace di più. Vieni a bere
qualche cosa. Devo bere qualche cosa.»
«Non voglio nulla,» mormorò il
giovane.
«Non importa.»
Adrian Singleton si sollevò a fatica
e seguì Dorian Gray al bar. Un mezzosangue che portava un turbante
consunto e un ulster male in
arnese li accolse con un sorriso ripugnante, mentre posava davanti a loro una
bottiglia di
brandy e due bicchieri. Le donne si accostarono
esitando e cominciarono a chiacchierare. Dorian voltò loro le spalle e
disse qualche cosa a bassa voce ad
Adrian Singleton.
Un sorriso contorto come un kriss
malese passò come un tremito convulso sul viso di una delle donne.
«Siamo molto superbi, stasera,»
disse in tono di scherno.
«Per l'amor di Dio, piantala,»
esclamò Dorian Gray battendo il piede a terra. «Che cosa vuoi? Soldi? Eccoli.
Ma stattene zitta.»
Due lampi rossi balenarono per un
momento negli occhi acquosi della donna, poi guizzarono via lasciandoli
vitrei e privi di vita. La donna
scosse il capo e prese i soldi dal banco con dita avide. La sua compagna la
osservava con
invidia.
«È inutile,» sospirò Adrian
Singleton. «Non mi importa di ritornare indietro. Che cosa significa? Qui sono
felice.»
«Mi scriverai, se avrai bisogno di
qualche cosa, non è vero?» disse Dorian dopo un silenzio.
«Forse.»
«Buona notte, allora.
«Buona notte,» rispose il giovane
risalendo gli scalini e passandosi il fazzoletto sulla bocca inaridita.
Dorian si diresse verso la porta con
un'espressione di sofferenza in viso. Mentre scostava la tenda una
disgustosa risata uscì dalle labbra
rosse della donna che aveva preso i soldi. «Il Patto col Diavolo se ne va!»
singhiozzò
con voce rauca.
«Maledetta!» si rivoltò lui. «Non
chiamarmi così.»
La donna schioccò le dita. «Ti
piacerebbe farti chiamare Principe Azzurro, vero?» gli gridò dietro.
A quelle parole il marinaio
addormentato balzò in piedi e si guardò attorno con un'espressione selvaggia.
Gli
giunse alle orecchie il rumore della
porta di ingresso che si chiudeva. Si precipitò fuori come se volesse inseguire
qualcuno.
Dorian Gray si affrettava lungo la
banchina sotto la pioggia sottile. L'incontro con Adrian Singleton lo aveva
stranamente commosso e si chiedeva
se fosse davvero sua la responsabilità di quella giovane vita distrutta, come
aveva
detto Basil Hallward con un tono
così insultante. Si morse le labbra e, per un momento, una luce di tristezza
gli si
accese negli occhi. Sì, dopotutto,
che cosa gliene importava? La vita era troppo breve per caricarsi sulle spalle
anche gli
errori degli altri. Ogni uomo vive
la propria vita e paga il proprio prezzo per viverla. Peccato solo che così di
frequente
si dovesse pagare per un unico
errore. In realtà, si paga molte e molte volte Nei suoi rapporti con gli uomini
il destino
non chiude mai conti..
Secondo gli psicologi ci sono
momenti, in cui la passione per i peccati, o per quelli che il mondo chiama
peccati, domina talmente una persona
che ogni fibra del corpo, ogni cellula del cervello, paiono imbevute di impulsi
di
terrore. In questi momenti uomini e
donne perdono la padronanza della volontà. Si muovono come automi verso la loro
terribile fine. Non hanno più la
facoltà di scelta e la coscienza è morta o, se è viva, lo è solo per dare alla
ribellione il
suo fascino, le sue attrattive alla
disobbedienza. Tutti i peccati, infatti, come i teologi non si stancano di
ripeterci, sono
peccati di disobbedienza. Quando
quello spirito superiore, quella stella mattutina del male, cadde dal cielo, fu
perché si
era ribellato.
Insensibile, concentrato nel male,
con la mente guasta e l'anima assetata di ribellione, Dorian Gray si affrettava
a passi sempre più veloci ma, mentre
piegava sotto un portico buio che molte volte aveva usato come scorciatoia per
raggiungere il luogo malfamato dove
era diretto, si sentì afferrare improvvisamente alle spalle e, prima che avesse
la
possibilità di difendersi, venne
spinto contro il muro e una mano brutale lo afferrò alla gola.
Lottò follemente per la sopravvivenza
e, con uno sforzo terribile, riuscì a strappare le dita che lo
attanagliavano. In un secondo udì lo
scatto di una rivoltella, vide il bagliore di una canna lucida puntata diritta
contro la
sua testa, e la sagoma indistinta di
un uomo basso e tarchiato che gli si parava davanti.
«Che cosa vuoi?» ansimò.
«Sta' calmo,» disse l'uomo. «Se ti
muovi ti sparo.»
«Sei pazzo. Che cosa ti ho fatto?»
«Hai distrutto la vita di Sibyl
Vane,» fu la risposta; «e Sibyl Vane era mia sorella. Si è uccisa. Lo so. La sua
morte è colpa tua.. Ho giurato che
ti avrei ucciso. Ti ho cercato per anni. Non avevo tracce, non avevo indizi: le
uniche
due persone che ti conoscevano erano
morte. Sapevo solo il soprannome che lei ti aveva dato. L'ho risentito questa
sera
per caso. Raccomanda l'anima a Dio,
perché questa notte morirai.»
Dorian si sentì prendere dal
terrore. «Non l'ho mai conosciuta,» balbettò. «Non l'ho mai sentita nominare.
Sei
pazzo.»
«È meglio che tu confessi i tuoi
peccati perché, quanto è vero che io sono James Vane, tu morirai.» Ci fu un
momento terribile. Dorian non sapeva
che cosa dire o che cosa fare. «Inginocchiati!» gridò rauco l'uomo. «Ti do un
minuto per dire le ultime preghiere.
Non di più. Mi imbarco stanotte per l'India e prima devo sbrigare questa faccenda.
Un minuto. È tutto.»
Dorian Gray lasciò cadere le
braccia. Paralizzato dal terrore, non sapeva che cosa fare. Improvvisamente una
folle speranza gli attraversò la
mente. «Fermati,» gridò. «Da quando è morta tua sorella? Dimmelo, presto!»
«Da diciotto anni,» disse l'uomo.
«Perché me lo domandi? Che cosa contano gli anni?»
«Diciotto anni,» rise Dorian Gray,
con una nota di trionfo nella voce. «Diciotto anni! Portami sotto un fanale e
guardami in faccia!»
James Vane esitò un attimo, senza
capire. Poi afferrò Dorian Gray e lo trascinò fuori dal portico.
Nonostante la luce fosse incerta e
indebolita dal vento, fu sufficiente per rivelare a James Vane il terribile
equivoco, - almeno così pareva - nel
quale era caduto, perché il viso dell'uomo che aveva cercato di uccidere aveva
tutta
la freschezza dell'adolescenza,
tutta l'intatta purezza della giovinezza. Sembrava un ragazzo di poco più di
vent'anni,
appena più vecchio; forse, di sua
sorella quando si erano separati, tanti anni prima. Era ovvio che non poteva
essere
questo l'uomo che aveva distrutto la
sua vita.
Lasciò la stretta e arretrò. «Mio
Dio, mio Dio!» esclamò, «ed io che stavo per ucciderti.»
Dorian Gray trasse un lungo respiro.
«Lei è stato sul punto di commettere un terribile delitto, amico,» disse
fissandolo con uno sguardo severo.
«Che questo le serva da avvertimento a non cercare la vendetta con le proprie
mani.»
«Mi perdoni, signore,» mormorò James
Vane. «Sono stato ingannato. Una parola che ho sentito per caso in
quella maledetta taverna mi ha messo
su una pista sbagliata.»
«Farebbe meglio ad andare a casa e a
mettere via quella pistola, se non vuole finire nei pasticci,» disse Dorian
voltandosi e incamminandosi
lentamente lungo la via.
James Vane rimase immobile,
sconvolto.
Tremava da capo a piedi. Poco dopo,
un'ombra nera che era strisciata lungo il muro grondante di pioggia, uscì
sotto la luce e si avvicinò a lui
cautamente. Sentì una mano posarglisi su un braccio e si guardò intorno
sussultando. Era
una delle donne che bevevano al bar.
«Perché non l'hai ucciso?» sibilò,
avvicinando a lui il viso devastato. «Sapevo che gli stavi correndo dietro
quando sei uscito da Daly. Stupido!
Avresti dovuto ucciderlo. Ha un mucchio di soldi ed è cattivo come pochi.»
«Non è l'uomo che cerco,» rispose
lui, «e non voglio i soldi di nessuno. Voglio la vita di un uomo. L'uomo che
sto cercando deve essere sulla
quarantina. Questo era poco più di un ragazzo. Grazie a Dio non mi sono
sporcato le
mani con il suo sangue.»
La donna scoppiò in un'amara risata.
«Poco più di un ragazzo!» disse in tono di scherno. «Sono quasi diciotto
anni che il Principe Azzurro mi ha
ridotta in questo stato.»
«Tu menti!» gridò James Vane. La
donna sollevò le braccia al cielo. «Giuro davanti a Dio che dico la verità,»
disse a voce alta.
«Davanti a Dio?»
«Che diventi muta se non è vero. È
il peggiore tra tutti quelli che vengono qui. Dicono che si sia venduto al
diavolo per conservare la sua bella
faccia. Sono quasi diciannove anni che lo conosco e da allora non è cambiato
molto.
Io sì, invece,» aggiunse con una
smorfia di disgusto.
«Lo giuri?»
«Lo giuro,» fu l'eco rauca che uscì
da quella bocca avvilita. «Ma non, tradirmi,» piagnucolò, «ho paura di lui.
Dammi qualche cosa per andare a
dormire.»
James Vane si allontanò da lei
bestemmiando e si precipitò all'angolo della strada, ma Dorian Gray era
scomparso. Quando si guardò
indietro, anche la donna era svanita.
XVII
Una settimana dopo, Dorian Gray,
seduto nella serra di Selby Royal, conversava con la graziosa duchessa di
Monmouth che, insieme al marito, un
uomo sulla sessantina dall'aria affaticata, era tra i suoi ospiti. Era l'ora
del tè e la
luce morbida della grande lampada di
merletto posta sopra la tavola accendeva le delicate porcellane e gli argenti
battuti. La duchessa si era incaricata
del servizio e le bianche mani si muovevano agilmente tra le tazze mentre le
labbra, rosse e piene, sorridevano a
qualche cosa che Dorian Gray le aveva sussurrato. Lord Henry, sdraiato in una
sedia
di vimini rivestita di seta, li
guardava. Su un divano color pesca era seduta Lady Narborough che fingeva di
ascoltare il
duca, immerso nella descrizione
dell'ultimo scarabeo brasiliano che aveva aggiunto alla sua collezione. Tre
giovani in
eleganti smoking servivano
pasticcini ad alcune signore. La compagnia era composta da una dozzina di
persone; se ne
attendevano altre il giorno dopo.
«Di che cosa state parlando?»
domandò Lord Henry avvicinandosi al tavolo e posando la tazza. «Spero che
Dorian ti abbia parlato del mio
progetto di ribattezzare tutto, Gladys. È una bellissima idea.»
«Ma io non voglio essere
ribattezzata, Henry,» obiettò la duchessa, alzando su di lui due splendidi
occhi.
«Sono soddisfattissima del mio nome,
e sono sicura che il signor Gray è soddisfatto del suo.»
«Mia cara Gladys, non vorrei
cambiare né l'uno né l'altro per nulla al mondo. Sono perfetti. Mi riferivo
soprattutto ai fiori. Ieri ho colto
un'orchidea per metterla all'occhiello. Era splendidamente maculata, forte e
viva come i
sette peccati capitali. In un
momento di distrazione ne chiesi il nome ad uno dei giardinieri. Mi disse che
era un
bell'esemplare di Robinsoniana,
o qualche altro nome altrettanto orribile. È la triste verità, ma abbiamo
perduto la
capacità di dare bei nomi alle cose.
I nomi sono tutto. Io non litigo mai con le azioni. Litigo solo con le parole.
Per
questo odio il realismo volgare
nella letteratura. Chi chiama vanga una vanga dovrebbe essere costretto ad
usarla. È
l'unica cosa per cui è adatto.»
«E allora come dovremmo chiamarti,
Harry?»
«Il suo nome è Principe Paradosso,»
disse Dorian.
«Gli sta alla perfezione,» esclamò
la duchessa.
«Non ne voglio sapere,» rise Lord
Henry, sprofondando in una sedia. «A un'etichetta non c'è scampo! Rifiuto il
titolo.»
«I sovrani non possono abdicare,»
avvertirono le belle labbra.
«Allora vuoi che difenda il trono?»
«Sì.»
«Io do le verità di domani.»
«Preferisco gli errori di oggi,» lei
rispose.
«Tu mi disarmi, Gladys,» esclamò lui
cogliendo l'allusione.
«Del tuo scudo, Harry, non della tua
spada.»
«Non combatto mai contro la
bellezza,» disse lui con un gesto della mano.
«È qui che sbagli, Harry, credimi.
Dai alla bellezza un valore troppo grande.»
«Come puoi dire una cosa simile?
Ammetto di ritenere che sia meglio essere belli che essere buoni ma, d'altra
parte, nessuno è più pronto di me ad
ammettere che è meglio essere buoni piuttosto che brutti.»
«Allora la bruttezza è uno dei sette
peccati capitali,» esclamò la duchessa. «E che cosa succede del tuo
paragone a proposito delle
orchidee?»
«La bruttezza è una delle sette virtù
mortali, Gladys. E tu, da buona conservatrice, non devi sottovalutarle. La
birra, la Bibbia e le sette virtù
mortali hanno ridotto la nostra Inghilterra nelle attuali condizioni.
«Allora non ti piace il tuo paese?»
domandò.
«Ci vivo.»
«Per poterlo criticare meglio.»
«Vuoi che ti dica il parere
dell'Europa?» domandò lui.
«Che cosa dicono di noi?»
«Che Tartufo è emigrato in
Inghilterra e ha messo bottega.»
«È tua, Harry?»
«Te la regalo.»
«Non potrei usarla. È troppo vera.»
«Non devi aver paura. I nostri compatrioti
non riconoscono mai una descrizione.»
«Sono pratici.»
«Sono più furbi che pratici. Quando
fanno il bilancio, contrappongono la stupidità alla ricchezza, e il vizio
all'ipocrisia.»
«Però abbiamo fatto grandi cose.»
«Ce le hanno tirate addosso, Gladys.»
«Ne abbiamo sopportato il peso.»
«Solo fino alla Borsa.»
Lei scosse il capo. «Credo nella
razza,» esclamò.
«La razza è solo la sopravvivenza
degli arrivisti.»
«Ha uno sviluppo.»
«Mi interessa di più la decadenza.»
«E l'arte?» domandò lei.
«È una malattia.»
«L'amore?»
«Un'illusione.»
«La religione?»
«Un surrogato alla moda della fede.»
«Sei uno scettico.»
«Niente affatto! Lo scetticismo è
l'inizio della fede.»
«Che cosa sei, allora?»
«Definire significa limitare.»
«Dammi un filo da seguire.»
«I fili si spezzano. Perderesti la
strada nel labirinto.»
«Mi disorienti. Parliamo di qualcun
altro.»
«Il nostro ospite è un soggetto
piuttosto piacevole. Anni fa, fu battezzato Principe Azzurro.»
«Ah, non ricordarmi queste cose,»
esclamò Dorian Gray.
«Il nostro ospite è un po' ispido
stasera,» notò la duchessa arrossendo. «Suppongo pensi che Monmouth mi
abbia sposato esclusivamente per
interesse scientifico, come il miglior esemplare di farfalla moderna che sia
riuscito a
trovare.»
«Bene, spero che non la vorrà infilare
con degli spilli, duchessa,» disse Dorian, ridendo.
«Oh, lo fa già la mia cameriera
quando è arrabbiata con me, signor Gray.»
«E che cosa la fa arrabbiare con
lei, duchessa?»
«Le cose più futili, signor Gray, le
assicuro. Di solito perché arrivo alle nove meno dieci e le dico che devo
essere vestita per le otto e mezzo.»
«È davvero irragionevole. Dovrebbe
farle una ramanzina.»
«Non ne ho il coraggio, signor Gray.
Sa, è lei che inventa i miei cappelli. Ricorda quello che portavo per il
ricevimento all'aperto di Lady
Hilstone? No, naturalmente. Ma è gentile da parte sua fingere di sì. Bene, l'ha
messo
insieme con niente. Tutti i bei
cappelli sono fatti con niente.»
«Come tutte le buone reputazioni,
Gladys,» interruppe Lord Henry. «Ogni volta che si ottiene un certo
successo ci si fa un nemico. Per
essere benvoluti da tutti bisogna essere mediocri.»
«Non vale per le donne,» disse la
duchessa scuotendo il capo, «e sono le donne che governano il mondo. Le
assicuro che non riusciamo a
sopportare la mediocrità. Noi donne, come ha detto qualcuno, amiamo con le
orecchie,
proprio come voi uomini amate con
gli occhi, se pure amate.»
«A me pare che non facciamo
nient'altro,» mormorò Dorian.
«Ah, ma allora lei non ama
veramente, signor Gray,» replicò la duchessa in tono scherzosamente triste.
«Mia cara Gladys,» esclamò Lord
Henry. «Come puoi dirlo? Un idillio sentimentale vive ripetendosi e la
ripetizione trasforma il desiderio
in arte. Inoltre, ogni volta che si ama è l'unica volta. La diversità
dell'oggetto non muta
l'unicità della passione ma si
limita a intensificarla. Nel migliore dei casi in tutta la vita si riesce ad
avere una sola
esperienza, e il segreto della vita
sta nel ripeterla il più spesso possibile.»
«Anche quando si è rimasti scottati,
Lord Henry?» domandò la duchessa dopo una pausa di silenzio.
«Specialmente quando si è rimasti
scottati,» rispose Lord Henry.
La duchessa si voltò e guardò Dorian
Gray con una strana espressione negli occhi. «Che cosa ne pensa, signor
Gray?»
Dorian esitò un attimo. Poi gettò
all'indietro la testa e rise. «Sono sempre d'accordo con Harry, duchessa.»
«Anche quando sbaglia?»
«Henry non sbaglia mai.»
«E la sua filosofia la rende
felice?»
«Non ho mai cercato la felicità. Chi
la vuole? Ho cercato il piacere.»
«E lo ha trovato, signor Gray?»
«Spesso. Troppo spesso.»
La duchessa sospirò. «Io cerco la
pace,» disse, «e se non vado a vestirmi, questa sera non ne avrò affatto.»
«Lasci che le colga qualche
orchidea, duchessa,» disse Dorian balzando in piedi e allontanandosi nella
serra.
«Stai flirtando con lui
scandalosamente,» disse Lord Henry alla cugina. «È meglio che tu stia attenta:
è molto
affascinante.»
«Se non lo fosse, non ci sarebbe
nessuna lotta.»
«I greci contro i greci, allora?»
«Io sono dalla parte dei troiani. Hanno
combattuto per una donna.»
«Ma sono stati sconfitti.»
«Ci sono cose peggiori della
cattura,» lei rispose.
«Stai galoppando a briglia sciolta.»
«È l'andatura a determinare la
vita,» fu la risposta.
«Lo scriverò nel mio diario, questa
sera.»
«Che cosa?»
«Che un bambino scottato ama il
fuoco.»
«Non mi sono nemmeno bruciacchiata.
Le ali sono intatte.»
«Le usi per tutto, fuorché per
volare.»
«Il coraggio è passato dagli uomini
alle donne. È una nuova esperienza per noi.»
«Hai una rivale.»
«Chi è?»
Lui rise. «Lady
Narborough,» sussurrò. «Lo adora.»
«Mi metti in ansia. Il richiamo
dell'antichità è fatale per noi romantiche.»
«Romantiche! Avete tutti i metodi
della scienza.»
«Ci hanno educate gli uomini.»
«Ma non vi hanno spiegate.»
«Prova a definirci come sesso,» lo
sfidò.
«Sfingi senza segreti.»
Lei lo guardò sorridendo. «Quanto
tempo ci mette, il signor Gray!» disse. «Andiamo a dargli una mano. Non
gli ho ancora detto il colore del
mio vestito.»
«Ah, ma devi intonare il vestito ai
suoi fiori, Gladys.»
«Sarebbe una resa prematura.»
«L'arte romantica comincia dal punto
culminante.»
«Devo lasciarmi una via di
ritirata.»
«Alla maniera dei Parti?»
«Loro si salvarono nel deserto. Io
non potrei farlo.»
«Le donne non sempre hanno la
possibilità di scelta,» rispose, ma aveva appena finito la frase quando,
dall'altra estremità della serra,
giunse un gemito soffocato, seguito dal tonfo sordo di un corpo che cade
pesantemente.
Tutti balzarono in piedi. La
duchessa era impietrita dal terrore. Con la paura negli occhi, Lord Henry si
precipitò tra le
palme alitanti e trovò Dorian Gray
disteso con il volto contro il pavimento di mattoni, svenuto.
Venne immediatamente portato nel
salotto azzurro e disteso su un divano. Dopo poco tempo rinvenne e si
guardò intorno con un'espressione
inebetita.
«Che cosa è successo?» domandò. «Oh!
ricordo. Sono al sicuro qui?» Cominciò a tremare.
«Mio caro Dorian,» rispose Lord
Henry, «sei semplicemente svenuto, tutto qui. Devi esserti stancato troppo. È
meglio che tu non scenda a cena.
Prenderò io il tuo posto.»
«No, scenderò,» disse Dorian
rimettendosi in piedi. «Preferisco scendere. Non devo stare solo.»
Salì in camera sua e si vestì. A
tavola fu di un'allegria sfrenata e noncurante, ma ogni tanto lo scuoteva un
fremito di terrore quando ricordava
di aver visto, premuto contro il vetro della serra come un fazzoletto bianco,
il viso
di James Vane che lo fissava.
XVIII
Il giorno dopo non uscì di casa ma
passò quasi tutto il tempo nella sua stanza, in preda ad una folle paura della
morte e tuttavia indifferente alla
vita. Cominciava a dominarlo la consapevolezza di essere cacciato, spiato,
preso.
Sussultava se il vento muoveva
appena una tenda. Le foglie morte che urtavano i vetri piombati gli sembravano
i suoi
proponimenti sprecati e i suoi folli
rimpianti. Quando chiudeva gli occhi, rivedeva il viso del marinaio che lo
spiava
attraverso i vetri annebbiati e, di
nuovo, gli pareva che l'orrore gli avvolgesse il cuore.
Forse, però, era stata solo la sua
fantasia che aveva gridato vendetta nel buio della notte mettendogli dinanzi
agli occhi le orrende immagini della
punizione. La vita concreta è un caos, ma c'è qualche cosa di tremendamente
logico
nell'immaginazione. È
l'immaginazione che spinge il rimorso sulle tracce del peccato. È l'immaginazione
che fa
sopportare a ogni delitto le sue
conseguenze deformi. Nella realtà di ogni giorno i malvagi non vengono puniti,
né i
buoni ricompensati: il successo
premia i forti, il fallimento schiaccia i deboli. Nient'altro. D'altra parte,
se intorno alla
casa si fosse aggirato un estraneo i
domestici o i custodi lo avrebbero visto. Se i giardinieri avessero scoperto
delle
impronte sulle aiuole lo avrebbero
riferito. Sì, era stata solo la sua fantasia. Il fratello di Sibyl Vane non era
ritornato per
ucciderlo. Era salpato con la sua
nave per naufragare in qualche bufera invernale. Da lui, ad ogni modo, era al
sicuro.
Dopotutto quell'uomo non sapeva chi
fosse: non poteva saperlo. La maschera della giovinezza lo aveva salvato.
Se però era stata semplicemente un'illusione,
quanto era terribile pensare che la coscienza potesse far sorgere
così terribili fantasmi, dare loro
forma visibile, farli muovere davanti a noi! Che vita sarebbe mai stata la sua
se giorno e
notte le ombre del suo delitto
l'avessero spiato da angoli silenziosi, l'avessero deriso da luoghi nascosti,
gli avessero
bisbigliato all'orecchio durante i
banchetti, l'avessero svegliato con dita di ghiaccio mentre dormiva! Mentre
quest'idea
si impadroniva lentamente della sua
mente, divenne pallido di paura e l'aria gli parve farsi improvvisamente
gelida. Oh!
in quale selvaggio istante di follia
aveva ucciso il suo amico! Com'era orribile il solo ricordo della scena. La
rivedeva
tutta. Ogni disgustoso particolare
tornava a lui ancora più orribile. Dalla nera caverna del tempo, terribile e
fasciata di
scarlatto, sorgeva l'immagine della
sua colpa. Quando Lord Henry alle sei entrò nella sua stanza lo trovò che
piangeva
come se gli si spezzasse il cuore.
Soltanto tre giorni dopo si
arrischiò ad uscire. Nell'aria limpida e odorosa di pino, di quel mattino
d'inverno
c'era qualche cosa che sembrava
restituirgli l'allegria e la voglia di vivere. Ma non erano state solo le
condizioni
ambientali a produrre il
cambiamento: la sua natura si era ribellata all'eccessiva angoscia che aveva
cercato di tarpare e
di guastare la sua perfetta
serenità. Ai temperamenti delicati e complicati succede sempre così: le forti
passioni, li
schiacciano o ne vengono
schiacciate, li uccidono o ne vengono uccise. Solo le passioni o i dispiaceri
superficiali
continuano a vivere, mentre i grandi
amori, o i grandi dolori, sono distrutti dalla loro stessa, pienezza. D'altra
parte, si
era convinto di essere stato vittima
della sua immaginazione sconvolta dal terrore, e ripensava alle sue paure con
un po'
di pietà e non poco disprezzo.
Dopo colazione fece una passeggiata
di un'ora nel giardino con la duchessa, poi attraversò in carrozza il parco
per raggiungere la partita di
caccia. Uno strato di brina scricchiolante ricopriva l'erba come se fosse sale.
Il cielo era una
coppa rovesciata di metallo blu. Un
sottile strato di ghiaccio orlava lo stagno coperto di giunchi.
All'angolo della pineta scorse Sir
Geoffrey Clouston, fratello della duchessa, che estraeva dal fucile due
cartucce esplose. Scese con un salto
dalla carrozza e, dopo aver detto al servo di riportare la cavalla nella
scuderia, andò
in direzione dell'ospite facendosi
strada tra i rami spogli e il fitto, sottobosco.
«Hai fatto buona caccia, Geoffrey?»
domandò.
«Non tanto, Dorian. Credo che la
maggior parte degli uccelli sia andata, all'aperto. Penso che le cose
miglioreranno dopo mezzogiorno,
quando, passeremo in un'altra zona.»
Dorian si incamminò al suo fianco.
L'aria sottile e profumata, le luci rosse e brune che balenavano nel bosco, le
grida rauche dei battitori che si
levavano ogni tanto, i secchi colpi di fucile che le seguivano, lo
affascinavano e lo
colmavano di un senso di deliziosa
libertà. Si sentiva dominato dalla spensieratezza della felicità, dall'estrema
indifferenza della gioia.
Improvvisamente, da un ciuffo di erba secca una ventina di metri davanti a
loro, le orecchie
dalla punta nera erette, le lunghe
zampe posteriori scattanti, uscì di corsa una lepre e fuggì verso un folto di
ontani. Sir
Geoffrey imbracciò il fucile, ma
nella grazia dei movimenti dell'animale c'era qualche cosa che incantava
stranamente
Dorian Gray; gridò subito: «Non
sparare, Geoffrey. Lasciala vivere.»
«Che assurdità, Dorian!» rispose il
compagno. E sparò mentre la lepre si infilava nel folto.
Si sentirono due grida: quello
terribile di una lepre ferita, e quello di un uomo colpito a morte, più
terribile
ancora.
«Santo cielo! Ho colpito un
battitore!» esclamò Sir Geoffrey. «Che somaro a mettersi di fronte a un fucile!
Smettete di sparare, laggiù!» gridò
a tutta voce. «C'è un ferito.»
Il capocaccia arrivò di corsa con un
bastone in mano.
«Dove, signore? Dov'è?» gridò.
Contemporaneamente, lungo la linea dei cacciatori gli spari cessarono.
«Qui,» rispose rabbioso Sir
Geoffrey, correndo verso il folto. «Perché diavolo non tiene indietro i suoi
uomini?
Mi ha rovinato la caccia per tutta
la giornata.»
Dorian li osservò entrare nel
boschetto di ontani, scostando i rami. Pochi momenti dopo ne uscirono
trascinando un corpo alla luce del
sole. Si girò sopraffatto dall'orrore. Pareva che la sfortuna lo seguisse
ovunque
andasse. Udì Sir Geoffrey domandare
se l'uomo era morto davvero e la risposta affermativa del guardiacaccia. Gli
parve
che il bosco si fosse
improvvisamente animato di facce. Si sentiva il calpestio di migliaia di piedi
e un sommesso
mormorio. Un grande fagiano dal
petto color rame passò alto sopra i rami, battendo le ali.
Dopo pochi istanti, che nel suo
turbamento gli parvero ore di sofferenza interminabili, sentì una mano
posarglisi sulla spalla. Sobbalzò e
si guardò intorno..
«Dorian,» disse Lord Henry, «sarebbe
meglio dire che per oggi la caccia è sospesa. Non farebbe una bella
impressione se si continuasse.»
«Vorrei che venisse sospesa per
sempre, Harry,» rispose amaro. «È una cosa ripugnante e crudele. Quell'uomo
è... ?»
«Temo di sì,» rispose Lord Henry.
«Si è preso tutta la scarica nel petto. Deve essere morto quasi
istantaneamente. Vieni, andiamo a
casa.»
Camminarono insieme lungo il viale
per una cinquantina di metri, in silenzio. Poi Dorian guardò Lord Henry e
disse, con un profondo sospiro: «È
un cattivo presagio, Harry, molto cattivo.»
«Che cosa?» domandò Lord Henry. «Oh,
l'incidente, suppongo. Mio caro amico, non lo si poteva evitare. È
stata colpa dell'uomo. Perché si è
messo davanti ai fucili? D'altra parte, non ci riguarda direttamente. È
piuttosto
scocciante per Geoffrey,
naturalmente. La gente poi dice che uno non sa sparare. E Geoffrey non se lo
merita: ha
un'ottima mira. Ma è inutile parlare
ancora di questa faccenda.»
Dorian scosse il capo. «È un cattivo
presagio, Harry. Sento come se, qualche cosa di terribile dovesse capitare
a qualcuno di noi. A me, forse,»
aggiunse, passandosi una mano sugli occhi con un gesto di sofferenza.
Il più anziano dei due rise.
«L'unica cosa terribile al mondo è l'ennui, Dorian. È l'unico peccato
per il quale non
esiste perdono. Ma non è probabile
che ne soffriremo, a meno che gli amici non si mettano a parlare della faccenda
a
pranzo. Devo dire loro che
l'argomento è tabù. E per quanto riguarda i presagi, cose simili non esistono.
Il destino non
invia araldi. È troppo saggio o
troppo crudele per farlo. D'altronde, che cosa ti potrebbe capitare, Dorian?
Hai tutto ciò
che un uomo può desiderare. Non
esiste nessuno che non sarebbe felice di essere al tuo posto.»
«E non esiste nessuno con cui non
sarei disposto a cambiarlo, Harry. Non ridere così. Ti sto dicendo la verità.
Quel disgraziato contadino che è
appena morto, sta meglio di me. Non ho paura della morte. È il suo
approssimarsi che
mi fa paura. Mi sembra che le sue
ali mostruose battano intorno a me nell'aria plumbea. Santo cielo! Non vedi un
uomo
che si muove tra gli alberi, laggiù,
che mi sta osservando, che mi aspetta?»
Lord Henry guardò nella direzione
che la mano coperta dal guanto indicava tremando. «Sì,» disse sorridendo.
«Vedo il giardiniere che ti aspetta.
Immagino che voglia chiederti quali fiori vuoi sulla tavola stasera. Sei
assurdamente
nervoso, mio caro! Quando
ritorneremo in città dovrai andare dal mio medico.»
Dorian sospirò di sollievo, vedendo
avvicinarsi il giardiniere. L'uomo si toccò il berretto, diede un'occhiata
esitante a Lord Henry, poi estrasse
una lettera e la porse al padrone. «Sua Grazia mi ha detto di aspettare la
risposta,»
mormorò.
Dorian infilò la lettera in tasca. «Di'
a Sua Grazia che sto rientrando,» disse freddamente. L'uomo si voltò e si
diresse rapido verso la casa.
«Le donne hanno la passione di fare
le cose pericolose,» disse ridendo Lord Henry. «È una delle doti che
ammiro di più in loro. Una donna
sarebbe disposta a flirtare con chiunque purché la notassero.»
«E tu hai la passione di dire le
cose pericolose, Harry. In questo momento sei completamente fuori strada. La
duchessa mi piace molto ma non
l'amo.»
«E la duchessa ti ama molto, ma le
piaci molto meno, quindi siete perfettamente assortiti.»
«Stai facendo pettegolezzi, Harry, e
i pettegolezzi, non hanno mai una base.»
«La base di tutti i pettegolezzi è
una certezza immorale,» disse Lord Henry accendendo una sigaretta.
«Tu, Harry, saresti disposto a
sacrificare chiunque sull'altare di una battuta.»
«La gente sale sull'altare di sua
volontà,» fu la risposta.
«Vorrei poter amare,» esclamò Dorian
Gray con una commozione profonda nella voce. «Ma mi pare di aver
perso la passione e dimenticato il
desiderio. Mi concentro troppo su me stesso. La mia personalità si è fatta un
peso.
Voglio fuggire, andarmene via,
dimenticare. Ho fatto una sciocchezza a venire qui. Credo che spedirò un
telegramma a
Harvey perché mi faccia allestire lo
yacht. Su uno yacht si è al sicuro.»
«Al sicuro da che cosa, Dorian? Tu
devi trovarti in qualche guaio. Perché non mi dici di che cosa si tratta? Sai
che ti aiuterei.»
«Non posso dirtelo, Harry,» rispose
Dorian tristemente. «E forse si tratta solo di una mia fantasia. Questo
disgraziato incidente mi ha
sconvolto. Ho l'orribile presentimento che succederà anche a me qualche cosa
del genere.»
«Che assurdità.»
«Lo spero, ma non posso fare a meno
di sentire così. Ah, ecco la duchessa: sembra Artemide con un abito su
misura. Come vede, siamo tornati,
duchessa.»
«Ho saputo tutto, signor Gray,» lei
rispose. «Il povero Geoffrey è terribilmente sconvolto. E pare che lei gli
abbia chiesto di non sparare. Che
strano!»
«Sì, è molto strano. Non so che cosa
mi abbia spinto a dirlo. Un capriccio, immagino. Mi pareva un animaletto
bellissimo. Mi dispiace che le
abbiano raccontato di quell'uomo. È un argomento odioso.»
«È un argomento noioso,» interruppe
Lord Henry. «Non ha nessun interesse psicologico. Quanto sarebbe stato
interessante, invece, se Geoffrey lo
avesse fatto apposta! Mi piacerebbe conoscere qualcuno che ha commesso un
delitto
vero e proprio.»
«È orribile da parte tua, Harry!»
esclamò la duchessa. «Non le pare, signor Gray? Il signor Gray si sente male
di nuovo. Sta per svenire.»
Dorian Gray si riprese con uno
sforzo e sorrise. «Non è nulla, duchessa,» mormorò, «ho i nervi terribilmente
scossi, tutto qui. Temo di aver
camminato troppo questa mattina. Non ho sentito quel che ha detto Harry. Era
una cosa
molto brutta? Devi dirmela, in
qualche altra occasione. Credo di dover andare a stendermi un poco. Mi scusate,
vero?»
Erano arrivati alla grande gradinata
che portava dalla serra al terrazzo. Appena la porta a vetri si fu chiusa alle
spalle di Dorian, Lord Henry si
voltò e si rivolse alla duchessa, fissandola con i suoi occhi sonnolenti. «Ne
sei molto
innamorata?» domandò.
Per un po' la duchessa non rispose;
osservava immobile il paesaggio. «Vorrei saperlo,» rispose alla fine.
Lord Henry scosse il capo. «Il
saperlo sarebbe fatale. È l'incertezza che affascina. La nebbia rende le cose
meravigliose.»
«Si può perdere la strada.»
«Mia cara Gladys, tutte le strade
conducono allo stesso punto.»
«E cioè?»
«Alla disillusione.»
«È stato il mio debut nella
vita,» sospirò lei.
«Ti è arrivato con la corona.»
«Sono stanca delle sue foglie di
fragola.»
«Ti stanno bene.»
«Solo in pubblico.»
«Ti mancherebbero,» disse Lord
Henry.
«Non vorrei perderne nemmeno una.»
«Monmouth ha le orecchie.»
«I vecchi sono duri d'orecchio.»
«Non è mai stato geloso?»
«Vorrei che lo fosse stato.»
Lord Henry si guardò intorno
cercando qualcosa. «Che cosa stai cercando?» domandò lei.
«Il bottone del tuo fioretto,»
rispose Lord Henry. «Lo hai lasciato cadere.»
Lei rise. «Ho ancora la maschera.»
«Ti abbellisce gli occhi,» fu la
risposta.
La duchessa rise di nuovo. I denti
apparvero come minuscoli semi bianchi in un frutto scarlatto.
Sopra, nella sua stanza, Dorian
Gray, sdraiato su un divano, fremeva di terrore in ogni fibra. D'improvviso la
vita era diventata un fardello
troppo pesante da sopportare. L'orribile morte dello sfortunato battitore,
colpito nel
boschetto come un animale selvatico,
gli pareva prefigurare anche la sua morte. Le parole che Lord Henry aveva detto
in un moto casuale di scherzoso
cinismo, per poco non lo avevano fatto svenire.
Alle cinque suonò per il cameriere e
gli ordinò di preparargli le valige, in tempo per il rapido della sera per
Londra, e di far preparare la
carrozza alla porta per le otto e mezzo. Era deciso a non dormire a Selby Royal
una notte di
più. Era un luogo di malaugurio. La
morte vi appariva alla luce del sole. L'erba del bosco era macchiata di sangue.
Poi scrisse un biglietto per Lord
Henry, dicendogli di intrattenere gli ospiti durante la sua assenza. Mentre
stava infilandolo nella busta,
bussarono alla porta e il cameriere lo informò che il sovrintendente desiderava
vederlo. Si
accigliò e si morse le labbra.
«Fallo entrare,» mormorò, dopo alcuni attimi di esitazione.
Appena l'uomo fu entrato Dorian tirò
fuori il libretto degli assegni da un cassetto e lo aprì davanti a sé.
«Immagino che lei sia venuto per la
disgrazia di questa mattina, Thornton,» disse, prendendo la penna.
«Sì, signore,» rispose il
capocaccia.
«Era sposato quel poveretto? Aveva
qualcuno a carico?» domandò Dorian con espressione annoiata. «In caso
positivo, non vorrei che questa
gente si trovasse in difficoltà e farò loro avere qualunque somma lei ritenga
necessaria.»
«Non sappiamo chi sia, signore. Per
questo mi sono preso la libertà di venire da lei.»
«Non sa chi sia?» domandò Dorian in
tono indifferente. «Che cosa intende dire? Non era uno dei suoi
uomini?»
«No, signore. Mai visto prima.
Sembra un marinaio, signore.»
Dorian lasciò cadere la penna di
mano e gli parve che il cuore avesse improvvisamente smesso di battere. «Un
marinaio?» gridò. «Ha detto un
marinaio?»
«Sì, signore. Ha l'aria di essere
stato qualche cosa di simile. Ha tatuaggi su tutte e due le braccia e roba del
genere.»
«Aveva qualche cosa addosso?»
domandò Dorian, piegandosi in avanti e guardando l'uomo con occhi sbarrati.
«Qualche cosa che permetta di
identificarlo?»
«Un po' di soldi, signore... non
molti, e una pistola a sei colpi. Ma nessun nome. Sembra una persona come si
deve, signore, ma un po' rude. Una
specie di marinaio, diremmo.»
Dorian balzò in piedi. Una terribile
speranza aleggiava in lui e vi si aggrappò follemente. «Dov'è il corpo?»
esclamò. «Presto! Devo vederlo!»
«È in una stalla vuota alla
fattoria, signore. I contadini non lo vogliono in casa: dicono che un morto
porta
disgrazia.»
«Alla fattoria! Vada là
immediatamente e mi aspetti. Dica a uno dei mozzi di portarmi qui un cavallo.
No. Non
importa. Andrò alla scuderia a
piedi, farò prima.»
Meno di un quarto d'ora dopo Dorian
Gray galoppava a briglia sciolta sul lungo viale. Gli alberi sembravano
passargli a fianco in una spettrale
processione, mentre ombre tumultuose si gettavano davanti a lui. La cavalla
scartò a
un cancello bianco e per poco non lo
disarcionò. La colpì sul collo col frustino. L'animale fendeva l'aria nebbiosa
come
una freccia. I sassi schizzavano via
sotto gli zoccoli.
Alla fine raggiunse la fattoria. Due
uomini oziavano sull'aia. Balzò di sella e gettò le redini a uno dei due. Nella
stalla più lontana tremolava una
luce. Qualche cosa sembrava dirgli che il corpo era là. Si affrettò verso la
porta e posò
una mano sul chiavistello.
Si arrestò un attimo, sentendo che
stava per fare una scoperta che gli avrebbe ridato la vita o gliel'avrebbe
distrutta. Quindi spalancò la porta
ed entrò.
Nell'angolo più lontano, su un
mucchio di sacchi, era disteso il corpo senza vita di un uomo vestito con una
camicia grezza e un paio di calzoni
blu. Sul volto gli avevano messo un fazzoletto sudicio. Accanto crepitava una
candela grezza, infilata in una
bottiglia.
Dorian Gray rabbrividì. Si rese
conto che, con le sue mani, non sarebbe stato in grado di togliere il
fazzoletto e
chiamò uno degli uomini della
fattoria.
«Togligli quell'affare dalla faccia.
Voglio vederlo,» disse, appoggiandosi allo stipite per sostenersi.
Quando l'uomo ebbe eseguito, avanzò
di un passo. Un grido di gioia gli sfuggì dalle labbra. L'uomo che era
stato colpito nel folto era James
Vane.
Rimase immobile per alcuni minuti a
guardare il cadavere. Mentre cavalcava verso casa, aveva gli occhi pieni
di lacrime, perché sapeva di essere
salvo.
XIX
«È inutile che tu mi dica che hai
l'intenzione di diventare buono,» esclamò Lord Henry, immergendo le bianche
dita in una coppetta di rame rosso
riempita di acqua di rose. «Così sei perfetto. Ti prego di non cambiare.»
Dorian scosse il capo. «No, Harry.
Ho commesso troppe cose orribili nella mia vita. Non voglio commetterne
più. Ho cominciato ieri le mie buone
azioni.»
«Dove sei stato ieri?»
«In campagna, Harry. In una piccola
locanda, da solo.»
«Mio caro ragazzo,» esclamò Lord
Henry, sorridendo, «in campagna tutti possono essere buoni: non ci sono
tentazioni. Per questo chi non vive
in città è così profondamente incivile. La civiltà non è affatto facile da
raggiungere.
Ci si può arrivare solo in due modi:
attraverso la cultura o attraverso la corruzione. La gente di campagna non ha
la
possibilità di essere né colta né
corrotta: per questo ristagna.»
«Cultura e corruzione,» gli fece eco
Dorian Gray. «Ho conosciuto un poco sia l'una che l'altra. Mi Pare terribile
ora che si debba sempre trovarle
insieme. Adesso infatti ho un nuovo ideale, Harry. Sto cambiando, credo di
essere già
cambiato.»
«Non mi hai ancora raccontato la tua
buona azione. Oppure mi hai detto di averne fatta più di una?» domandò
l'amico, ammucchiando nel piatto una
minuscola piramide cremisi di fragole e spolverandola di zucchero con un
cucchiaio traforato a forma di
conchiglia.
«Te la posso dire, Harry, ma non è
una storia che potrei raccontare a chiunque. Ho risparmiato una persona.
Potrà sembrarti vanità, ma capisci
cosa voglio dire. Era molto bella e assomigliava moltissimo a Sibyl Vane. Forse
per
questo mi ha attratto, all'inizio.
Ricordi Sibyl, non è vero? Quanto tempo sembra che sia passato! Bene, Hatty non
era
una del nostro ceto, naturalmente.
Era solo una ragazza di campagna, ma l'amavo davvero. Sono sicuro che l'amavo.
Per
tutto questo splendido mese di
maggio sono andato a trovarla due o tre volte alla settimana. Ieri ci siamo
incontrati in un
piccolo frutteto. I fiori del melo
le cadevano di continuo sui capelli e lei rideva. Avremmo dovuto fuggire
insieme
questa mattina all'alba.
Improvvisamente decisi di lasciarla pura come un fiore, come l'avevo trovata.»
«Direi che la novità dell'emozione
debba averti procurato un brivido di vero piacere, Dorian,» lo interruppe
Lord Henry. «Ma posso finire io la
storia di questo idillio. Le hai dato dei buoni consigli e le hai spezzato il
cuore.
Questo è stato l'inizio della tua
redenzione.»
«Harry, sei terribile! Non devi dire
queste cose tremende. Non ho spezzato il cuore di Hatty. Naturalmente ha
pianto, e così via. Ma non l'ha
colpita nessuna disgrazia. Può continuare a vivere, come Perdita, nel suo
giardino di
menta e calendule.»
«E piangere su un infedele
Florizel,» disse Lord Henry ridendo e abbandonandosi all'indietro sulla sedia.
«Mio
caro Dorian, sei stranamente
infantile. Credi che questa ragazza, adesso, sarà mai veramente soddisfatta con
uno della
sua condizione? Immagino che un
giorno la sposeranno a un rozzo carrettiere o a un bifolco dall'espressione
ebete.
Bene, il semplice fatto di averti
incontrato, di averti amato, le insegnerà a disprezzare il marito e sarà
rovinata. Dal
punto di vista morale, non mi pare
che la tua grande rinuncia abbia un notevole valore. Anche come inizio, è
misero.
D'altra parte, come fai ad essere
sicuro che in questo momento questa Hatty non stia galleggiando in qualche
stagno
illuminato dalla luna, circondata da
belle ninfee come Ofelia?»
«È insopportabile, Harry! Ridi di
tutto e poi suggerisci le peggiori tragedie. Ora mi dispiace di avertelo
raccontato. Ma non mi importa di ciò
che mi dici. So di aver avuto ragione comportandomi così. Povera Hatty! Questa
mattina mentre passavo a cavallo
davanti alla fattoria ho visto alla finestra il suo pallido viso, come un
tralcio di
gelsomini. Non parliamone più e non
cercare di convincermi che la prima buona azione che ho fatto da anni, il mio
primo piccolo sacrificio, sia in
realtà una specie di peccato. Voglio essere migliore. Ma parlami un poco di te.
Che cosa
succede in città? Non vado al club
da diversi giorni.»
«La gente parla sempre della
scomparsa del povero Basil.»
«Pensavo che se ne fossero stancati,
ormai,» disse Dorian, versandosi un po' di vino e aggrottando leggermente
le sopracciglia.
«Mio caro ragazzo, ne parlano
soltanto da sei settimane e il pubblico britannico non ha assolutamente le
capacità intellettuali di trovare
più di un argomento nuovo ogni tre mesi. Tuttavia, negli ultimi tempi ha avuto
molta
fortuna. Ci sono stati il mio
processo di divorzio e il suicidio di Alan Campbell. Adesso c'è la misteriosa
scomparsa di
un artista. Scotland Yard insiste
ancora nel dire che l'uomo dall'ulster grigio partito il nove di
novembre per Parigi con
il treno di mezzanotte fosse il
povero Basil mentre la polizia francese dichiara che Basil non è affatto giunto
a Parigi.
Immagino che fra un paio di
settimane verremo a sapere che è stato visto a San Francisco. È strano, ma
tutti quelli che
scompaiono li vedono a San
Francisco. Dev'essere una città deliziosa, dotata di tutte le attrattive
dell'altro mondo.»
«Che cosa credi che sia successo a
Basil?» domandò Dorian, osservando controluce il borgogna e chiedendosi
come mai potesse parlare con tanta
calma dell'argomento.
«Non ne ho la minima idea. Se Basil
decide di nascondersi, non è affar mio. Se è morto, non voglio pensarci.
La morte è l'unica cosa che mi
terrorizza. La odio.»
«Perché?» domandò il giovane con
voce stanca.
«Perché,» disse Lord Henry,
passandosi sotto le narici la griglia dorata di una boccettina di sali, «oggi a
tutto si
può sopravvivere fuorché a questo.
La morte e la volgarità, nel diciannovesimo secolo, sono gli unici due fenomeni
che
non si riescono a spiegare. Andiamo
a prendere il caffè nella sala da musica, Dorian. Devi suonarmi Chopin. L'uomo
con cui è scappata mia moglie suonava
Chopin divinamente. Povera Victoria! Le volevo molto bene. La casa è vuota
senza di lei. Ovviamente la vita
coniugale è solo un'abitudine, una cattiva abitudine. Ma si rimpiangono sempre
le
perdite, anche delle peggiori
abitudini. Forse sono quelle che si rimpiangono di più. Sono una parte così
essenziale della
nostra personalità.»
Dorian non disse nulla ma si alzò e,
trasferitosi nella stanza accanto, sedette al pianoforte facendo scorrere le
dita sull'avorio bianco e nero dei
tasti. Quando ebbero portato il caffè, si interruppe e, guardando Lord Henry,
disse.:
«Harry, hai mai pensato che Basil
possa essere stato assassinato?»
Lord Henry sbadigliò. «Basil era
simpatico a tutti e portava sempre un orologio Waterbury. Perché avrebbero
dovuto assassinarlo? Non era
abbastanza intelligente per avere nemici. Naturalmente, per la pittura aveva un
talento
straordinario, ma si può dipingere
come Velasquez ed essere tuttavia la persona più ottusa del mondo. Basil era
davvero
alquanto ottuso. Mi ha interessato una
sola volta, quando mi ha detto che aveva per te un'adorazione folle e che eri
il
motivo dominante della sua arte.»
«Volevo molto bene a Basil,» disse
Dorian con una nota di tristezza nella voce. «Ma non si dice che è stato
assassinato?»
«Oh, lo sostengono alcuni giornali.
A me però sembra del tutto improbabile. So che ci sono dei posti pericolosi
a Parigi, ma Basil non era il tipo
da frequentarli. Non era curioso. Era il suo principale difetto.»
«Che cosa diresti, Harry, se ti
confessassi che sono stato io ad uccidere Basil?» disse il giovane osservandolo
attentamente mentre pronunciava
queste parole.
«Direi, mio caro amico, che cerchi
di recitare una parte che non ti si addice. Ogni delitto è volgare, proprio
come è un delitto la volgarità.
Commettere un delitto, Dorian, non è da te. Mi dispiacerebbe ferire la tua
vanità,
dicendoti questo, ma ti assicuro che
è vero. Il delitto è un'esclusività delle classi inferiori, e non le biasimo
affatto per
questo. Immagino che per loro
rappresenti quello che per noi è l'arte: semplicemente un metodo per procurarsi
straordinarie sensazioni.»
«Un metodo per procurarsi
sensazioni? Allora, secondo te, chi ha commesso un delitto una volta ne
potrebbe
commettere un altro? Non mi dirai
una cosa simile.»
«Oh, ogni cosa si trasforma in un
piacere se la si fa troppo spesso,» disse Lord Henry ridendo. «Questo è uno
dei più importanti segreti
dell'esistenza. Tuttavia, secondo me il delitto è sempre un errore. Non si
dovrebbe mai fare
nulla di cui non si possa parlare
dopo pranzo. Ma lasciamo perdere il povero Basil. Vorrei poter credere che
abbia avuto
davvero una morte romantica come
quella che hai immaginato, ma non posso. Forse è caduto nella Senna da un
omnibus e il conduttore ha soffocato
lo scandalo. Sì, suppongo che questa sia stata la sua fine. Lo vedo disteso
supino
sotto quell'acqua verde sporco
mentre le chiatte gli passano sopra e le lunghe alghe gli si impigliano nei
capelli. Sai,
penso che non avrebbe più fatto
nulla di buono. Negli ultimi dieci anni la sua pittura era molto calata di
tono.»
Dorian sospirò; Lord Henry
attraversò la stanza e cominciò ad accarezzare uno strano pappagallo di Giava,
un
grosso uccello dalle piume grige con
la cresta e la coda rosa, in equilibrio su un trespolo di bambù. Al tocco delle
dita
affusolate, l'uccello lasciò cadere
la bianca pellicola rugosa delle palpebre sui neri occhi di cristallo e
cominciò a
oscillare avanti e indietro.
«Sì,» proseguì voltandosi e levando
di tasca il fazzoletto, «la sua pittura era assolutamente calata di tono. Mi
pareva che avesse perso qualche
cosa. Aveva perduto, un ideale. Da quando non foste più grandi amici, cessò di
essere
un grande artista. Che cosa vi aveva
divisi? Immagino che ti sia venuto a noia. Se è così, non te lo perdonò mai. È
tipico
delle persone noiose. A proposito,
che cosa è successo di quel meraviglioso ritratto che ti fece? Non mi sembra di
averlo visto da quando fu terminato.
Ah, ricordo: un giorno, anni fa, mi hai detto che lo avevi spedito a Selby e
che era
stato rubato o era andato perduto
durante il viaggio. Non l'hai più ritrovato? Che peccato! Era davvero un
capolavoro.
Ricordo che volevo comperarlo.
Vorrei averlo fatto, ora. Era del miglior periodo di Basil. Da allora la sua
pittura è stata
quel curioso, miscuglio di pessima pittura
e di ottime intenzioni che permette sempre a un uomo di essere chiamato un
esponente rappresentativo dell'arte
britannica. Hai fatto delle inserzioni per ritrovarlo? Dovresti farlo.»
«Me ne sono dimenticato,» disse
Dorian. «Forse le ho fatte. Ma non mi è mai piaciuto veramente. Mi dispiace
di aver posato: il suo ricordo mi è
odioso. Perché ne parli? Mi ha sempre ricordato quegli strani versi di una
commedia -
l'Amleto mi pare - come dicono?
"Come il ritratto di una pena
un volto senza cuore,"
Sì, era proprio così.»
Lord Henry rise. «Se un uomo ha con
la vita un rapporto artistico, ha il cervello nel cuore,» rispose,
affondando in una poltrona.
Dorian Gray scosse il capo e toccò
alcune note basse. «Come il ritratto di una pena,» ripeté, «un volto senza
cuore.»
Il più anziano si allungò sulla
poltrona e lo guardò socchiudendo gli occhi. «A proposito, Dorian,» disse dopo
un silenzio, «"che cosa
guadagna un uomo se conquista il mondo intero e perde" - com'è la
citazione? - "e perde
l'anima?"»
La musica ebbe una dissonanza.
Dorian Gray sussultò poi fissò l'amico. «Perché me lo domandi, Harry?»
«Mio caro amico,» disse Lord Henry
inarcando meravigliato le sopracciglia, «te lo chiedo perché pensavo che
fossi capace di darmi una risposta.
Tutto qui. Domenica scorsa attraversavo il Park; vicino a Marble Arch c'era una
piccola folla di straccioni che
ascoltava uno dei soliti predicatori di strada. Mentre passavo sentii urlare
questa domanda
all'auditorio. Mi colpì perché era
piuttosto drammatica. Londra ti dà molte impressioni di questo genere: una
domenica
piovosa, un cristiano arruffato con
un impermeabile, un cerchio di facce pallide e malaticce sotto un tetto
ineguale di
ombrelli gocciolanti e una magnifica
frase lanciata nell'aria da una voce stridula, isterica... era davvero
bellissimo, a suo
modo, molto suggestivo. Pensavo di
rispondere al profeta che l'arte ha un'anima, l'uomo no. Temo però che non mi
avrebbe capito.» «No, Harry. L'anima
è una terribile realtà; la si può comperare, vendere e barattare. La si può
avvelenare o rendere perfetta.
Ognuno di noi ha un'anima. Lo so.»
«Ne sei assolutamente certo,
Dorian?»
«Assolutamente certo.»
«Ah! Allora dev'essere un'illusione.
Le cose di cui si è assolutamente certi non sono mai vere. È questa la
fatalità della fede, la lezione del
sentimento. Che aria solenne! Non essere così serio. Che cosa abbiamo a che
fare, tu ed
io, con le superstizioni della
nostra epoca? No: abbiamo abbandonato la nostra fede nell'anima. Suonami
qualche cosa,
suonami un notturno, Dorian. E
mentre suoni, dimmi a bassa voce come hai fatto a conservare la giovinezza.
Devi avere
un segreto. Ho solo dieci anni più
di te e sono pieno di rughe, sono logoro e ingiallito. Sei proprio
meraviglioso, Dorian.
Non sei mai stato bello come
stasera. Mi ricordi il giorno in cui ti vidi per la prima volta. Eri piuttosto
sfacciato, molto
timido e assolutamente
straordinario. Certo sei cambiato, ma non nell'aspetto. Vorrei che mi dicessi
il tuo segreto. Farei
di tutto per ritrovare la
giovinezza, fuorché ginnastica, alzarmi presto e comportarmi come si deve.
Giovinezza! Non c'è
nulla che la equivalga. È assurdo
parlare dell'ignoranza della giovinezza. Le sole persone di cui oggi ascolto le
opinioni
con un certo rispetto sono molto più
giovani di me. Mi pare che siano più avanti di me. La vita ha rivelato loro le
sue
più recenti meraviglie. Quanto ai
vecchi, li contraddico sempre. Per motivi di principio. Se chiedi qual'è il
loro punto di
vista su un fatto accaduto ieri,
ripetono solennemente le opinioni -correnti del 1820 quando la gente portava il
colletto
alto, credeva a tutto e non sapeva
assolutamente nulla. Che bello il pezzo che stai suonando! Chissà se Chopin
l'ha
scritto a Maiorca mentre il mare
singhiozzava intorno alla villa e gli spruzzi salmastri si frangevano contro i
vetri? È
meravigliosamente romantico. È una
benedizione che ci sia rimasta un'arte non contraffatta! Non smettere. Stasera
ho
voglia di musica. Mi pare che tu sia
il giovane Apollo e io Marsia che l'ascolta. Intimamente soffro, Dorian, per
cose
che nemmeno tu sai. La tragedia
della vecchiaia non sta nel fatto di essere vecchi ma in quello di essere
giovani. A volte
la mia stessa sincerità mi
sorprende. Ah, Dorian, come sei felice! Che vita splendida hai avuto! Hai
bevuto a sazietà
ogni cosa, hai mangiato l'uva
direttamente dal grappolo, nulla ti è rimasto nascosto e tutto è stato per te
solo il suono
della musica. Non ti ha logorato.
Sei sempre lo stesso.»
«Non sono lo stesso, Harry.»
«Sì, lo sei. Mi domando come sarà il
resto della tua vita. Non rovinarlo con rinunce. Attualmente sei perfetto.
Non togliere qualcosa alla tua
perfezione. Non hai difetti, ora. Non far segno di no: lo sai benissimo. E poi,
Dorian, non
ingannare te stesso. La vita non è
retta dalla volontà o dalle intenzioni. La vita è una questione di nervi di
fibre e di
cellule in lenta formazione, in cui
il pensiero si nasconde e la passione elabora i suoi sogni. Puoi immaginare di
essere
salvo e crederti forte, ma una nota
casuale di colore in una stanza o nel cielo mattutino, un particolare profumo
che un
tempo hai amato e che associ a
sottili ricordi, il verso di una poesia dimenticata che ti si ripresenta:, il
ritmo di un pezzo
musicale che hai smesso di
suonare... ti dico, Dorian, da cose come queste dipende la vita. Browning lo ha
scritto da
qualche parte, ma i nostri sensi lo
immaginano per noi. Ci sono momenti in cui l'odore di lilas blanc mi
colpisce
all'improvviso e sono costretto a
rivivere quello strano mese della mia vita. Vorrei essere al tuo posto, Dorian.
La gente
ha sempre parlato male di noi due ma
per te ha sempre avuto un'adorazione e ti adorerà sempre. Tu sei il modello di
ciò
che la nostra epoca sta cercando e
che teme di aver trovato. Sono così contento che non hai mai fatto nulla, che
non hai
mai scolpito una statua, dipinto un
quadro o creato qualche cosa se non te stesso! La vita è stata la tua arte: ti
sei dato
alla musica e i tuoi giorni sono i
tuoi sonetti.»
Dorian si alzò dal pianoforte
passandosi una mano fra i capelli. «Sì, la vita è stata squisita,» mormorò, «ma
non
condurrò più questa vita, Harry. E
non devi dirmi queste cose bizzarre. Di me non sai tutto. Credo che se lo
sapessi,
anche tu ti allontaneresti da me.
Ridi, ma non è il caso.»
«Perché hai smesso di suonare,
Dorian? Torna al pianoforte e suonami di nuovo quel notturno. Guarda quella
grande luna color miele sospesa
nell'aria fosca. Aspetta che tu la incanti e, se suoni, si avvicinerà alla
terra. Non vuoi?
Andiamo al club, allora. È stata una
serata affascinante e dobbiamo finirla in modo affascinante. C'è una persona da
White che desidera infinitamente
conoscerti: il giovane Lord Poole, il figlio minore di Bournemouth. Ha già
copiato le
tue cravatte e mi ha pregato di
presentartelo. È molto piacevole e ti assomiglia un poco.»
«Spero di no,» disse Dorian con
un'espressione di tristezza nello sguardo. «Ma stasera sono stanco, Harry. Non
verrò al club. Sono quasi le undici
e voglio andare a letto presto.»
«Rimani. Non hai mai suonato bene
come questa sera. C'era nel tuo tocco qualche cosa di meraviglioso: una
forza espressiva che non avevo mai
sentito prima.»
«È perché sto per diventar buono,»
rispose Dorian, sorridendo. «Un poco sono già cambiato.»
«Per me non puoi cambiare, Dorian,»
disse Lord Henry. «Tu ed io saremo sempre amici.»
«Tuttavia una volta mi hai
avvelenato con un libro e non lo dimenticherò. Harry, promettimi che non
presterai
a nessuno quel libro: è dannoso.»
«Mio caro ragazzo, adesso fai
davvero il moralista. Tra poco andrai in giro come i convertiti e i revivalisti
a
mettere in guardia la gente contro i
peccati di cui ti sei stancato. Ma sei troppo bello per farlo. E, d'altra
parte, è inutile:
tu ed io siamo quel che siamo e
saremo quel che saremo. Quanto all'essere avvelenato da un libro, è una cosa
impossibile. L'arte non ha nessuna
influenza sulle azioni: annulla il desiderio di agire. I libri che la gente
dice immorali
sono quelli che rivelano alla gente
le sue vergogne. Tutto qui. Ma non voglio discutere di letteratura. Fatti
vedere,
domani. Andrò a cavalcare alle
undici. Potremmo andare insieme e dopo ti porterò a cena da Lady Branksome. È
una
donna piena di fascino e vorrebbe il
tuo parere su alcune tappezzerie che intende comperare. Ricordati di venire.
Oppure andremo a pranzo con la
nostra duchessina? Dice che non ti ha più visto. Ti sei forse stancato di
Gladys? Lo
pensavo. Quei suoi discorsi
intelligenti danno sui nervi. Bene, ad ogni modo, vieni alle undici.»
«Devo proprio venire?»
«Certo. Il Park è molto bello in
questo periodo. Non credo che ci siano stati dei lillà così belli da quando ti
ho
conosciuto.»
«Benissimo. Sarò qui alle undici,»
disse Dorian. «Buona notte Harry.» Quando fu sulla soglia esitò un attimo,
come volesse dire ancora qualche
cosa, poi sospirò ed uscì.
XX
Era una bella nottata, così tiepida
che gettò il soprabito sul braccio e non si avvolse nemmeno la sciarpa di seta
intorno al collo. Mentre si dirigeva
verso casa fumando una sigaretta, due giovani in abito da sera gli passarono
accanto.
Sentì uno dei due sussurrare
all'altro: «Quello è Dorian Gray.» Ricordò come gli faceva piacere una volta
quando lo
indicavano, lo fissavano o parlavano
di lui. Adesso era stanco di sentire ripetere il suo nome. Il fascino del
piccolo
villaggio dove era stato tanto
spesso negli ultimi tempi era dovuto per metà al fatto che nessuno sapeva chi
fosse. Aveva
detto molte volte alla ragazza che
aveva lusingato a innamorarsi di lui, di essere povero e lei gli aveva creduto.
Una
volta le aveva detto di essere
malvagio e lei aveva riso, dicendogli che i malvagi sono sempre vecchi e
brutti. Quella sua
risata pareva il canto di un tordo.
E come era bella con i suoi vestitini di cotone e i suoi grandi cappelli! Non
sapeva
nulla ma aveva tutto ciò che lui
aveva perduto.
A casa trovò il cameriere che lo
attendeva. Lo mandò a letto, si distese sul divano della biblioteca e cominciò
a
pensare ad alcune delle cose che
Lord Henry gli aveva detto.
Era proprio vero che è impossibile
cambiare? Provava un desiderio sfrenato per l'immacolata purezza
dell'adolescenza: la sua infanzia
bianco rosata, come l'aveva chiamata una volta Lord Henry. Sapeva di essersi
macchiato, di aver colmato lo
spirito di corruzioni, di aver nutrito di orrori la sua fantasia; sapeva di
aver avuto
un'influenza maligna sugli altri e
di aver provato una gioia terribile nel farlo; e sapeva che delle vite che
avevano
attraversato la sua, proprio le più
belle e le più ricche di promesse, erano state da lui condotte all'infamia. Ma
era
irreparabile, tutto questo? Non
aveva nessuna speranza?
Ah! in quale mostruoso attimo di
orgoglio e di passione aveva invocato che il ritratto portasse il peso dei suoi
giorni, lasciando a lui l'immacolato
candore dell'eterna giovinezza! A questo era dovuto il suo fallimento. Sarebbe
stato
meglio, per lui, se ogni peccato
avesse portato con sé il suo castigo certo e immediato. Il castigo purifica.
Non «perdona
i nostri peccati», ma «colpiscici
per le nostre iniquità» dovrebbe essere la preghiera dell'uomo nei confronti di
un Dio
più giusto.
Lo specchio stranamente intagliato
che Lord Henry gli aveva regalato molti anni prima era sulla tavola e, come
un tempo, gli amorini dalle bianche
membra ridevano tutto intorno alla cornice. Lo sollevò, come aveva fatto in
quella
notte tremenda quando per la prima
volta aveva notato il cambiamento nel quadro fatale, e guardò la liscia
superficie
con occhi disperati e colmi di
lacrime. Una volta, una persona che lo aveva amato terribilmente gli aveva
scritto una
lettera folle che terminava con
queste parole di adorazione: «Il mondo è cambiato perché tu sei fatto di avorio
e d'oro.
La curva delle tue labbra riscrive
la storia.» La frase gli ritornò alla mente e la ripeté più volte tra sé, poi
imprecò contro
la propria bellezza e, gettato lo
specchio sul pavimento, lo ridusse a schegge d'argento sotto i tacchi. La
bellezza lo
aveva rovinato, la bellezza e la
giovinezza da lui invocata. Senza queste due cose, la sua vita avrebbe potuto
essere
senza macchie. La sua bellezza era
stata solo una maschera, la gioventù solo una beffa. Che cos'era la gioventù,
nel
migliore dei casi? Un'età verde,
acerba, un'età di amori superficiali e di pensieri morbosi. Perché ne aveva
indossato la
livrea? La gioventù lo aveva
rovinato.
Meglio non pensare al passato. Nulla
poteva mutarlo. A se stesso, al suo futuro, doveva pensare. James Vane
era sepolto in una tomba senza nome
nel cimitero di Selby. Alan Campbell si era sparato una sera nel suo
laboratorio,
senza però rivelare il segreto che
era stato costretto a conoscere. L'eccitazione per la scomparsa di Basil Hallward
si
sarebbe esaurita presto. Stava già
affievolendosi. Da quel lato si sentiva al sicuro. E, d'altra parte, non era la
morte di
Basil Hallward che gli opprimeva la
mente. Lo preoccupava piuttosto la morte vivente della sua anima. Basil aveva
dipinto il ritratto e gli aveva
rovinato la vita. Non glielo poteva perdonare. Il ritratto era la causa di
tutto. Basil gli aveva
detto delle cose intollerabili e
tuttavia le aveva sopportate pazientemente. L'omicidio era stato solo un atto
di follia
momentanea. Per quanto riguardava
Alan Campbell, poi, era lui che si era ucciso. Lo aveva fatto di sua volontà,
la cosa
non lo riguardava affatto.
Una nuova vita! Ecco che cosa
voleva. Ecco che cosa attendeva. Certo l'aveva già iniziata. In ogni caso aveva
risparmiato una creatura innocente.
Non avrebbe mai più insidiato l'innocenza, sarebbe stato buono.
Pensando a Hatty Merton, si domandò
se il ritratto nella camera chiusa fosse cambiato. Certo, non doveva più
essere così orribile. Forse, se
fosse riuscito a purificare la sua vita, sarebbe stato in grado di eliminare
dal viso le tracce
di ignobili passioni. Forse le
tracce del male erano già scomparse. Sarebbe andato a vedere.
Prese la lampada sulla tavola e salì
cautamente le scale. Mentre apriva la porta, un sorriso di gioia gli sfiorò il
viso stranamente giovane e indugiò
un attimo sulle labbra. Sì, sarebbe stato buono e l'orrenda cosa nascosta non
lo
avrebbe più terrorizzato. Gli parve
che il peso gli fosse già stato tolto di dosso.
Entrò tranquillamente, chiuse la porta
alle sue spalle, come era solito fare, e tolse il panno cremisi dal ritratto.
Un grido di dolore e di indignazione
gli sfuggì dalle labbra. Non riusciva a scorgere nessun cambiamento, se non
negli
occhi che avevano assunto
un'espressione scaltra e nella bocca sulla quale erano apparse le rughe
dell'ipocrisia. La cosa
era sempre disgustosa - più
ripugnante di prima, se possibile - e la rugiada scarlatta che macchiava la
mano sembrava
più brillante, più simile a sangue
appena versato. Allora cominciò a tremare. Solo per vanità aveva compiuto la
sua
unica buona azione? Oppure per
desiderio di una nuova sensazione, come aveva suggerito Lord Henry con la sua
risata
beffarda? O per quel desiderio di
recitare una parte che a volte ci fa compiere azioni migliori di noi? O forse
per tutte
queste cose insieme? E come mai la
macchia rossa si era allargata? Pareva essersi diffusa come un'orribile
malattia sulle
dita rugose. C'era del sangue sui
piedi come se fosse colato, sangue anche sulla mano che non aveva impugnato il
coltello. Confessare? Voleva dire
che doveva confessare? Denunciarsi e farsi condannare a morte? Rise. L'idea gli
sembrava mostruosa. D'altra parte,
se anche avesse confessato, chi gli avrebbe creduto? Della vittima non
rimanevano
tracce. Tutto quello che gli
apparteneva era stato distrutto. Lui stesso aveva bruciato le cose che erano
rimaste dabbasso.
La gente avrebbe detto semplicemente
che era matto. Se avesse insistito lo avrebbero chiuso in manicomio... Tuttavia
era suo dovere confessare per soffrire
pubblicamente la vergogna che gliene sarebbe venuta e per espiare davanti a
tutti.
C'era un Dio che imponeva agli
uomini di rivelare i peccati in terra così come in cielo. Qualunque sua azione
non lo
avrebbe mondato finché non avesse
confessato la sua colpa. La sua colpa? Scosse le spalle. La morte di Basil
Hallward
gli sembrava una cosa di minima
importanza. Pensava a Hatty Merton: non era infedele, questo specchio della sua
anima che stava fissando. Vanità?
Curiosità? Ipocrisia? Solo questi erano i motivi della sua rinuncia? No, c'era
stato
qualche cosa di più. Almeno così
pensava. Ma chi poteva dirlo? ... No, non c'era stato nient'altro. L'aveva
risparmiata
per vanità, per ipocrisia aveva
indossato la maschera della bontà, per curiosità era stato spinto alla
rinuncia. Ora se ne
rendeva conto.
Ma questo delitto... lo avrebbe
perseguitato per tutta la vita? Sarebbe sempre stato costretto a sopportare il
peso
del suo passato? Doveva proprio
confessare? Mai. Era rimasto solo un elemento di prova contro di lui. Il
ritratto: ecco la
prova. Lo avrebbe distrutto. Perché
lo aveva conservato per tanto tempo? Una volta gli faceva piacere vederlo
cambiare
e invecchiare. Negli ultimi tempi
questo piacere era scomparso. Lo teneva sveglio la notte. Quando era lontano lo
terrorizzava l'idea che altri
potessero vederlo, aveva portato la malinconia nelle sue passioni, il suo
ricordo gli aveva
rovinato diversi momenti di gioia.
Per lui aveva rappresentato la coscienza. Sì, era stato una coscienza.
L'avrebbe
distrutto.
Si guardò in giro e vide il coltello
che aveva colpito Basil Hallward. Lo aveva pulito molte volte e non vi era
rimasta nessuna macchia: era liscio
e lucente. Come aveva ucciso il pittore così avrebbe ucciso la sua opera e
tutto ciò
che essa significava. Avrebbe ucciso
il passato e, quando il passato fosse morto, sarebbe stato libero. Avrebbe
ucciso la
mostruosa vita della sua anima e,
senza i suoi infami avvertimenti, si sarebbe sentito in pace. Afferrò il
coltello e colpì
la tela.
Si udì un grido poi un tonfo. Un
grido di agonia così terribile che i domestici si svegliarono spaventati e
uscirono intimoriti dalle loro
stanze. Due signori che passavano nella piazza si fermarono e guardarono in
alto, verso la
grande casa. Proseguirono finché
incontrarono un poliziotto e lo condussero lì. L'uomo suonò diverse volte il
campanello ma non ottenne risposta.
Tranne una finestra illuminata all'ultimo piano, la casa era immersa
nell'oscurità.
Dopo un poco si allontanò, si fermò
sotto un portico vicino e rimase a osservare.
«Di chi è questa casa, agente?»
domandò il più giovane dei due.
«Del signor Dorian Gray, signore,»
rispose il poliziotto.
I due uomini si guardarono e si
allontanarono con una smorfia di scherno. Uno dei due era lo zio di Sir Henry
Ashton.
All'interno, nei quartieri della
servitù, i domestici semisvestiti parlavano tra loro a bassa voce. La vecchia
signora Leaf piangeva e si torceva
le mani. Francis era pallido come un morto.
Dopo un quarto d'ora circa prese con sé un cocchiere e uno degli uomini di fatica. Bussarono, ma non ottennero
Dopo un quarto d'ora circa prese con sé un cocchiere e uno degli uomini di fatica. Bussarono, ma non ottennero
risposta. Chiamarono. Tutto era
silenzioso. Alla fine, dopo aver tentato invano di forzare la porta, salirono
sul tetto e si
calarono sul balcone. La finestra
cedette facilmente: la serratura era vecchia.
Quando furono entrati, videro appeso
alla parete uno splendido ritratto del loro padrone come lo avevano visto
l'ultima volta, in tutto lo
splendore della sua gioventù e della sua bellezza. Disteso sul pavimento c'era
un uomo, in abito
da sera, con un coltello piantato nel
cuore. Era sfiorito, rugoso, con un volto ripugnante. Solo quando esaminarono i
suoi anelli lo riconobbero.
per andare alla prima parte del libro clicca quì: http://perchiamalalettura.blogspot.it/2012/04/il-ritratto-di-dorian-gray-oscar-wild.html
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