domenica 8 aprile 2012

IL ITRATTO DI DORIAN GRAY (Oscar Wild) 2

X
Quando il cameriere entrò, lo osservò attentamente domandandosi se avesse mai pensato di dare un'occhiata
dietro il paravento. L'uomo attendeva i suoi ordini assolutamente impassibile. Dorian accese una sigaretta, si avvicinò
allo specchio e guardò. Vedeva alla perfezione il riflesso del viso di Victor: era una placida maschera di servilismo.
Nulla da temere da quella parte. Comunque era meglio stare in guardia.
Parlando molto lentamente gli disse di riferire alla governante che voleva vederla e di andare poi dal corniciaio
per chiedergli di mandare subito due uomini. Gli sembrò che il cameriere allontanandosi muovesse lo sguardo in
direzione del paravento. Ma forse era solo la sua immaginazione.
Poco dopo entrò affannosamente nella biblioteca la signora Leaf, con il suo vestito di seta nero e i vecchi
mezzi guanti di filo sulle mani rugose. Le chiese di dargli la chiave dello studio.
«Il vecchio studio, signor Dorian?» esclamò. «Ma è pieno di polvere. Devo farlo pulire e mettere a posto prima
che lei entri. Non è assolutamente presentabile, signore. Proprio no.»
«Non voglio che venga pulito, signora Leaf. Voglio solo la chiave.»
«Bene, signore, si coprirà tutto di ragnatele quando entrerà. È chiuso da quasi cinque anni, da quando è morto
sua signoria.»
Dorian Gray trasalì sentendo accennare al nonno: ne aveva un ricordo odioso. «Non importa,» rispose. «Voglio
semplicemente dare un'occhiata al locale, nient'altro. Mi dia la chiave.»
«Eccola, signore,» disse la vecchia donna cercando nel mazzo con mani incerte e tremanti. «Ecco la chiave. La
tolgo subito dal mazzo, ma non penserà di vivere lassù, signore? Sta così bene qui.»
«No, no,» esclamò lui irritato. «Grazie signora Leaf. Basta così.»
La donna indugiò ancora un poco diffondendosi su alcuni particolari dell'andamento di casa. Dorian sospirò e
le disse di fare come meglio credeva. La donna lasciò la stanza tutta sorrisi.
Appena la porta si chiuse, Dorian infilò la chiave in tasca e si guardò in giro. Lo sguardo gli cadde su un
grande copriletto di seta color porpora, dai ricchi ricami in oro, uno splendido lavoro del tardo settecento veneziano che
il nonno aveva trovato in un convento vicino a Bologna. Sì, l'avrebbe usato per coprire quell'orribile cosa. Forse era
stato impiegato spesso come drappo funebre, adesso avrebbe nascosto qualche cosa che aveva una sua corruzione
peggiore della corruzione della morte stessa: qualche cosa che avrebbe nutrito orrori e tuttavia non sarebbe mai morta.
Quello che i vermi sono per i cadaveri, lo sarebbero stati i suoi peccati per l'immagine dipinta sulla tela. Avrebbero
sfigurato la sua bellezza, rosicchiato la sua grazia. L'avrebbero contaminata e resa disgustosa. E tuttavia la cosa avrebbe
continuato a vivere. Sarebbe sempre stata viva.
Rabbrividì e per un attimo rimpianse di non aver rivelato a Basil il vero motivo per cui desiderava nascondere
il ritratto. Basil lo avrebbe aiutato a resistere all'influenza di Lord Henry, e a quella ancor più dannosa che gli veniva dal
suo stesso carattere. L'amore che gli portava - poiché proprio di amore si trattava - non aveva in sé nulla di men che
nobile e intellettuale. Non era quella semplice ammirazione fisica per la bellezza che nasce dai sensi e muore quando i
sensi sono esauriti. Era quell'amore che avevano conosciuto Michelangelo, Montaigne, Winckelmann e lo stesso
Shakespeare. Sì, Basil avrebbe potuto salvarlo, ma ormai era troppo tardi. Era sempre possibile annientare il passato,
bastavano il rimpianto, il rifiuto, l'oblìo, ma il futuro era inevitabile. C'erano in lui passioni che avrebbero trovato il loro
terribile sfogo, sogni che avrebbero dato realtà all'ombra del loro peccato.
Tolse dal divano il grande tessuto oro e porpora che lo copriva e, reggendolo in mano, passò dietro il
paravento. Il volto sulla tela era diventato ancora più ignobile? Gli pareva che non fosse cambiato e tuttavia provava un
disgusto ancora più intenso. I capelli d'oro, gli occhi azzurri, le labbra vermiglie: c'erano ancora. Soltanto l'espressione
era alterata, orribile nella sua crudeltà. Come erano stati superficiali i rimproveri di Basil per Sibyl Vane, di fronte alla
censura e al biasimo che vedeva nel quadro! Quanto leggeri e irrilevanti! Dalla tela, la sua stessa anima lo fissava e lo
chiamava a giudizio. Un'espressione di sofferenza gli passò in viso; gettò il manto sontuoso sul ritratto. Proprio in
quell'attimo bussarono alla porta. Si allontanò dal quadro mentre il cameriere entrava.
«Sono arrivati gli uomini, signore.»
Sentì che doveva sbarazzarsi subito di quell'uomo. Non doveva sapere dove sarebbe stato portato il ritratto.
C'era qualche cosa di subdolo in lui e lo sguardo era attento e infido. Sedette alla scrivania e scarabocchiò un biglietto
per Lord Henry, chiedendo di mandargli qualche cosa da leggere e ricordandogli che avevano appuntamento quella sera
alle otto e un quarto.
«Aspetti la risposta,» disse porgendogli il biglietto, «e faccia entrare gli uomini.»
Due o tre minuti dopo bussarono nuovamente e il signor Hubbard in persona, il celebre camiciaio di South
Adler Street, entrò accompagnato da un giovane aiutante dall'aspetto un po' rozzo. Il signor Hubbard era un ometto
florido, dalle basette rossicce, la cui ammirazione per l'arte era considerevolmente raffreddata dall'inveterata
insolvibilità di quasi tutti gli artisti con cui aveva a che fare. Di regola, non si allontanava mai dal negozio. Aspettava
che la gente andasse da lui ma per Dorian Gray faceva sempre un'eccezione. C'era in Dorian qualche cosa che
affascinava chiunque. Era un piacere il solo fatto di vederlo.
«Che cosa posso fare per lei, signor Gray?» domandò strofinandosi le mani grassocce e coperte di lentiggini.
«Ho voluto aver l'onore di venire personalmente. Mi è appena capitata tra le mani una cornice che è una bellezza,
signore. L'ho trovata a un'asta. Stile fiorentino antico. Viene da Fonthill, penso. È l'ideale per un soggetto religioso,
signor Gray.»
«Mi dispiace che lei si sia disturbato a venire, signor Hubbard. Farò certamente un salto per dare un'occhiata
alla cornice, anche se in questo momento l'arte religiosa non mi interessa molto, ma oggi volevo far portare un quadro
all'ultimo piano. È piuttosto pesante e così ho pensato di chiederle un paio dei suoi uomini.»
«Assolutamente nessun disturbo, signor Gray. Sono contentissimo di poterle fare un piacere. Qual è l'opera,
signore?»
«Questa,» disse Dorian, allontanando il paravento. «Potete trasportarlo così com'è, con la copertura e tutto.
Non vorrei che si graffiasse salendo.»
«Nessuna difficoltà, signore,» disse il gioviale corniciaio, cominciando con l'aiuto dell'assistente a staccare il
quadro dalle lunghe catene di ottone che lo reggevano. «E adesso dove lo dobbiamo portare, signore?»
«Le farò strada, signor Hubbard, se sarà così gentile da seguirmi. O forse è meglio che vada avanti lei. Mi
dispiace che sia proprio all'ultimo piano. Saliremo per la scala principale che è più larga.»
Tenne aperta la porta per farli passare in anticamera, poi cominciarono a salire. La ricchezza della cornice
appesantiva moltissimo il quadro e ogni tanto, nonostante le ossequiose proteste del signor Hubbard che, con la
mentalità del vero mercante, non sopportava assolutamente di vedere un gentiluomo fare qualche cosa di utile, Dorian
dava una mano per aiutarli.
«Un bel carico da portare, signore,» ansimò l'ometto, asciugandosi la fronte lucida di sudore, quando
raggiunsero l'ultimo pianerottolo.
«Temo proprio che sia piuttosto pesante,» mormorò Dorian aprendo la stanza che avrebbe custodito il
singolare segreto della sua vita e che avrebbe nascosto la sua anima agli occhi degli uomini.
Non vi entrava da più di quattro anni, dal tempo in cui, bambino, la usava come stanza da giuochi e poi, più
grandicello, da studio. Era un locale vasto, di belle proporzioni. Il defunto Lord Kelso lo aveva costruito appositamente
per il nipote che, per la strana rassomiglianza con la madre e per altri motivi, aveva sempre odiato e cercato di tenere
lontano, A Dorian sembrò poco cambiata. C'era l'enorme cassone italiano con i pannelli fantasticamente dipinti e le
modanature d'oro annerito nel quale si era nascosto tante volte, da piccolo. C'era lo scaffale di legno lucido con i libri di
scuola gualciti. Sulla parete, dietro, era appeso il lacero arazzo fiammingo dove un re e una regina sbiaditi giocavano a
scacchi in un giardino mentre lì vicino una brigata di falconieri cavalcava reggendo sul polso guantato alcuni uccelli
incappucciati. Come ricordava ogni particolare! Mentre si guardava in giro, gli ritornava in mente ogni momento della
sua infanzia solitaria. Ricordò la purezza senza macchia della sua fanciullezza e gli parve orribile che proprio qui
dovesse essere nascosto quel fatale ritratto. Quanto poco aveva pensato, in quei giorni ormai passati, a tutto ciò che lo
attendeva!
Ma nella casa nessun posto era altrettanto sicuro da sguardi indiscreti. La chiave era nelle sue mani e nessun
altro poteva entrare. Sotto il manto purpureo il volto dipinto sulla tela poteva diventare bestiale, disfatto, sozzo: che
importanza aveva? Nessuno l'avrebbe potuto vedere. Neppure lui. Perché vedere la disgustosa corruzione della sua
anima? Avrebbe conservato la giovinezza: questo bastava. E dopotutto non avrebbe potuto diventare migliore? Non
c'era nessun motivo per cui il futuro dovesse essere così vergognoso. Avrebbe potuto incontrare un amore che lo
avrebbe purificato e protetto da quei peccati che già sembrava gli si agitassero nello spirito e nella carne: quegli strani
peccati privi di forma che proprio dal loro mistero traevano il loro fascino e la loro elusività. Forse, un giorno,
l'espressione crudele sarebbe scomparsa da quelle labbra sensuali e scarlatte e lui avrebbe potuto mostrare al mondo il
capolavoro di Basil Hallward.
No, era impossibile. Un'ora dopo l'altra, una settimana dopo l'altra, la cosa sulla tela sarebbe invecchiata.
Poteva sfuggire l'orrore del peccato, ma l'avrebbe attesa l'orrore della vecchiaia. Le guance sarebbero divenute incavate
o cascanti, gialle zampe di gallina si sarebbero allargate intorno agli occhi scoloriti rendendoli disgustosi. I capelli
avrebbero perso la lucentezza, la bocca sarebbe divenuta larga e cadente, sciocca e volgare, come sono le bocche dei
vecchi. Avrebbe avuto il collo grinzoso, le mani fredde con l'azzurro delle vene in rilievo, come le ricordava in quel
nonno così severo durante la sua infanzia. Non c'era scampo, bisognava nascondere il quadro.
«Lo porti dentro, per favore, signor Hubbard,» disse stancamente voltandosi. «Mi dispiace - di averla fatta
aspettare tanto tempo. Stavo pensando ad altro.»
«Un po' di riposo fa sempre piacere, signor Gray,» rispose il corniciaio che ansimava ancora. «Dove dobbiamo
metterlo, signore?»
«Oh, in un posto qualsiasi. Qui andrà bene. Non lo voglio appeso. Basta che lo appoggi al muro. Grazie.»
«È possibile dare un'occhiata all'opera, signore?»
Dorian sobbalzò. «Non le interesserebbe, signor Hubbard,» disse, tenendogli gli occhi addosso. Si sentiva
pronto ad assalirlo e a gettarlo a terra se avesse osato sollevare il prezioso drappo che nascondeva il segreto della sua
vita. «Non la disturberò oltre. Le sono molto grato, è stato molto gentile a venire.»
«Non è nulla, non è nulla, signor Gray. Sempre ai suoi ordini, signore.» E il signor Hubbard scese
pesantemente giù per le scale, seguito dall'aiutante che si voltò a guardare Dorian con un'espressione di timida
meraviglia sul volto rozzo e brutto. Non aveva mai visto un uomo così meraviglioso.
Quando il rumore dei loro passi si spense, Dorian chiuse la porta e infilò la chiave in tasca. Adesso si sentiva
sicuro, nessuno avrebbe visto quell'orribile cosa. Nessuno sguardo, eccetto il suo, avrebbe visto la sua vergogna.
Rientrando in biblioteca si accorse che erano appena passate le cinque e il tè era già stato preparato. Su un
tavolino di legno scuro profumato, dai ricchi intarsi di madreperla - un regalo di Lady Radley moglie del suo tutore, una
graziosa malata di professione che aveva trascorso al Cairo l'inverno precedente - era posato un biglietto di Lord Henry
e, accanto, un libro rilegato in carta gialla con la copertina leggermente consumata e macchiata sul bordo. Sul vassoio
del tè era posata una copia della terza edizione della St. James's Gazette. Evidentemente Victor era tornato. Si chiese se
avesse incontrato gli uomini nel vestibolo mentre se ne andavano e fosse riuscito a carpire loro quello che avevano
fatto. Si sarebbe accorto certamente della mancanza del quadro, anzi doveva già essersene accorto mentre preparava il
tè. Il paravento non era stato rimesso a posto e sul muro si notava uno spazio vuoto. Forse lo avrebbe scoperto una notte
nell'atto di scivolare di sopra per forzare la porta della stanza. Era una cosa terribile avere una spia nella propria casa.
Aveva sentito di persone ricche ricattate per tutta la vita da un servo che aveva letto una lettera, oppure ascoltato di
nascosto una conversazione, raccolto l'indirizzo scritto su un biglietto da visita, trovato un fiore appassito o un brandello
di pizzo gualcito sotto un cuscino.
Sospirò e, dopo essersi versato il tè, aprì il biglietto di Lord Henry. Gli diceva semplicemente che gli mandava
il giornale della sera e un libro che avrebbe potuto interessarlo. Si sarebbe trovato al club alle otto meno un quarto. Aprì
pigramente il giornale e lo scorse. Lo sguardo fu attratto da un segno a matita rossa in quinta pagina.
Indicava questo trafiletto:
INCHIESTA SULLA MORTE DI UN'ATTRICE. Questa mattina a Bell Tavern, in Oxton Road, il signor
Danby, procuratore distrettuale, ha svolto un'inchiesta sulla morte di Sibyl Vane, una giovane attrice da poco assunta al
Royal Theatre, Holborn. L'inchiesta si è conclusa con un verdetto di morte accidentale. Molta simpatia è stata
dimostrata alla madre della defunta signorina, profondamente commossa durante la propria deposizione e durante quella
del dottor Birrel che ha praticato la necroscopia della salma.
Si accigliò e, stracciato in due il giornale, attraversò la stanza e lo gettò via. Com'era sgradevole tutto ciò. E
come questa sgradevolezza rendeva terribilmente vere le cose. Era leggermente irritato con Lord Henry che gli aveva
fatto avere la notizia. Ed era stato davvero sciocco da parte sua segnarla a matita rossa. Victor avrebbe potuto leggerla.
Sapeva anche troppo bene l'inglese per poterlo fare.
Forse l'aveva letta e aveva cominciato a sospettare qualche cosa. Ma che cosa importava? Che cosa aveva a che
fare Dorian Gray con la morte di Sibyl Vane? Nulla da temere. Dorian Gray non l'aveva uccisa.
Lo sguardo gli cadde sul libro dalla copertina gialla che Lord Henry gli aveva fatto avere. Si domandò di che
cosa si trattasse. Andò verso il piccolo scaffale ottagonale color perla, che gli era sempre sembrato il lavoro di una
strana specie di api egiziane dedite a lavori in argento e, preso il volume, sprofondò in una poltrona e cominciò a
sfogliarlo. Dopo pochi minuti era preso dalla lettura. Era il libro più strano che avesse mai letto.
Gli pareva che tutti i peccati del mondo, in abiti squisiti e al dolce suono del flauto, gli passassero davanti in
muta processione. Cose che aveva appena debolmente sognato divennero reali. Cose che non aveva mai sognato gli si
rivelarono a poco a poco.
Era un romanzo senza intreccio e con un solo personaggio, la pura analisi psicologica di un giovane parigino
che aveva trascorso la vita cercando di realizzare nel diciannovesimo secolo tutte le passioni e le idee di ogni altro
secolo fuorché del suo, e di riassumere in sé, per così dire, i vari stati d'animo che lo spirito del mondo aveva
attraversato, amando per la loro artificiosità sia quelle rinunce prive di saggezza che gli uomini hanno scioccamente
chiamato virtù, sia quelle naturali ribellioni cui i saggi tuttora danno il nome di peccato. Lo stile in cui era scritto era
quel curioso stile prezioso, a un tempo vivido e oscuro, pieno di argot e di arcaismi, di espressioni tecniche e di
elaborati giri di parole, proprio delle opere di alcuni dei migliori esponenti della scuola francese dei symbolites. Vi
erano metafore mostruose come orchidee e dal colore altrettanto elusivo. La vita dei sensi veniva descritta nel
linguaggio della filosofia mistica. A volte era difficile capire se si leggevano le estasi spirituali di un santo medioevale o
le morbose confessioni di un moderno peccatore. Era un libro velenoso. Il greve odore dell'incenso pareva esalare dalle
sue pagine e turbare la mente. Il ritmo puro delle frasi, la monotonia sottile della loro musica, così ricca di complicati
ritornelli e di movimenti minuziosamente ripetuti, producevano nella mente del giovane, intento a leggerne un capitolo
dopo l'altro, una specie di fantasticheria, una sognante malattia, che gli impedì di accorgersi che il giorno era alla fine e
che cominciavano a salire le ombre.
Senza nubi, trafitto da un'unica stella solitaria, un cielo verderame luceva oltre le finestre. Continuò a leggere a
questa debole luce finché non vide più. Poi, quando il cameriere gli ebbe ricordato più volte che era tardi, si alzò, andò
nella stanza vicina, posò il libro sul piccolo tavolo fiorentino che aveva sempre accanto al letto e cominciò a vestirsi per
il pranzo.
Erano quasi le nove quando raggiunse il club, dove trovò Lord Henry seduto solo nel salone di soggiorno con
un'aria molto annoiata.
«Mi dispiace moltissimo, Harry,» esclamò, «ma in realtà è tutta colpa tua. Quel libro che mi hai mandato mi ha
talmente affascinato che ho lasciato passare il tempo senza accorgermi.»
«Sì, immaginavo che ti sarebbe piaciuto,» rispose l'ospite alzandosi.
«Non ho detto che mi è piaciuto, Harry. Ho detto che mi ha affascinato. C'è una grande differenza.»
«Ah, te ne sei accorto?» mormorò Lord Henry. E passarono nella sala da pranzo.

XI
Per anni Dorian Gray non riuscì a liberarsi dall'influenza di questo libro. O forse sarebbe più esatto dire che
non cercò mai di liberarsene. Fece arrivare da Parigi non meno di nove copie di lusso della prima edizione e le fece
rilegare in diversi colori perché si intonassero ai suoi vari stati d'animo e alle mutevoli fantasie di una natura sulla quale
a volte pareva aver perso ogni controllo. Il protagonista, il meraviglioso giovane parigino nel quale il temperamento
romantico e quello scientifico si erano così stranamente fusi, divenne per lui una sorta di suo precursore. E, in realtà,
tutto il libro gli pareva contenere la storia della sua vita, scritta prima che lui l'avesse vissuta.
In un punto fu più fortunato del fantastico protagonista del romanzo. Non conobbe mai, in realtà non ebbe
nessun motivo per conoscerlo, quel terrore un po' grottesco per gli specchi, per le superfici lucide di metallo, per l'acqua
calma, che aveva colto il giovane parigino fin dalla giovinezza, provocato dall'improvviso decadimento di una bellezza
un tempo davvero notevole. Con una gioia quasi crudele, forse in ogni gioia, e certo in ogni piacere, la crudeltà ha la
sua parte, era solito leggere l'ultima parte del libro, con il tragico anche se un po' ridondante resoconto del dolore e della
disperazione dell'uomo che aveva perso ciò che più apprezzava negli altri e nella vita.
Infatti la meravigliosa bellezza che aveva così affascinato Basil Hallward, e molti altri con lui, sembrava non
abbandonarlo mai. Anche quelli che avevano sentito dire le peggiori cose sul suo conto, e di tanto in tanto strane voci
sul suo modo di vivere si diffondevano per Londra e diventavano argomento di chiacchiere nei club, quando lo
vedevano non potevano credere a nulla di disonorevole su di lui. Aveva sempre l'aspetto di una persona che non si è
lasciata macchiare dal mondo. Uomini che facevano discorsi osceni tacevano immediatamente quando appariva Dorian
Gray. Nella purezza del suo viso c'era qualcosa che pareva rimproverarli. Bastava la sua presenza per risvegliare in loro
il ricordo dell'innocenza che avevano macchiato. Si domandavano come un essere così affascinante e pieno di grazia
avesse potuto sfuggire alla vergogna di un'epoca tanto sordida quanto sensuale.
Spesso, di ritorno da una di quelle sue assenze misteriose e prolungate che facevano nascere così strane
congetture tra quelli che erano i suoi amici, o che credevano di esserlo, saliva di soppiatto fino alla stanza chiusa, apriva
la porta con la chiave che non lasciava mai e, con lo specchio, si poneva davanti al ritratto di Basil Hallward. Guardava
ora il volto malvagio e invecchiato sulla tela, ora quello giovane e gentile che gli sorrideva dalla liscia superficie di
vetro e la violenza del contrasto acuiva il suo piacere. Era sempre più innamorato della sua bellezza e sempre più
interessato alla corruzione della sua anima. Esaminava con cura minuziosa, e a volte con una mostruosa terribile
soddisfazione, le rughe ripugnanti che marcavano la fronte avvizzita, o avanzavano lentamente intorno alla bocca
pesante e sensuale, chiedendosi a volte se fossero più orribili i segni del peccato o quelli dell'età. Poneva le sue mani
bianche accanto a quelle ruvide e tumefatte del quadro e sorrideva. Rideva di scherno verso quel corpo sformato e
quelle membra indebolite.
Di notte, in verità, quando giaceva insonne nella sua camera delicatamente profumata, o nella sordida stanza di
una piccola taverna malfamata vicino ai Docks che era solito frequentare travestito e sotto falso nome, c'erano momenti
in cui pensava alla rovina in cui aveva precipitato la sua anima con una pietà tanto più cocente in quanto puramente
egoistica. Ma simili momenti erano rari. Quella curiosità per la vita che per primo Lord Henry aveva risvegliato in lui
mentre erano seduti insieme nel giardino del loro amico sembrava aumentare quanto più veniva soddisfatta. Quanto più
sapeva tanto più desiderava sapere. Aveva folli appetiti che quanto più venivano soddisfatti tanto più si facevano
ingordi.
Ma tutto ciò non lo spingeva affatto ad essere trascurato, perlomeno nei rapporti sociali. Un paio di volte al
mese durante l'inverno, o tutti i mercoledì durante la season, apriva la sua bella casa e i più celebri musicisti del mondo
affascinavano i suoi ospiti con i prodigi della loro arte. Le sue cenette intime, che organizzava sempre assistito da Lord
Henry, erano celebri sia per l'accurata scelta degli ospiti e per l'intelligente disposizione dei posti a tavola, che per il
gusto squisito mostrato nella decorazione della tavola, con sottili armonie di fiori esotici, di tessuti ricamati, di antico
vasellame d'argento e d'oro. Erano molti, in realtà, specialmente tra i giovanissimi quelli che vedevano, o
immaginavano di vedere, in Dorian Gray la personificazione di un tipo umano spesso sognato ai tempi di Oxford o di
Eton, un tipo che univa in sé qualche cosa della vera cultura dello studioso con tutta la grazia, la distinzione e la
perfezione di modi del cittadino del mondo. Dorian Gray appariva loro, uno di quelli che Dante dice che hanno cercato
di «rendersi perfetti adorando la bellezza». Come Gauthier, era uno di coloro per i quali «il mondo visibile esiste».
E certo per lui la vita stessa era la prima e la maggiore delle arti, quella per cui tutte le altre non erano che
un'introduzione. La moda, che per un attimo rende universali le cose più fantastiche, e il dandismo che a suo modo è un
tentativo di asserire l'assoluta modernità della bellezza, naturalmente avevano per lui il loro fascino. Il suo modo di
vestire, lo stile personalissimo che di tanto in tanto ostentava, avevano una marcata influenza sui giovani raffinati dei
balli di Mayfair e delle vetrine dei club di Pall Mall, che lo copiavano in ogni suo gesto e che cercavano di ripetere il
fascino casuale delle sue eleganti, anche se per lui non troppo serie, affettazioni
Infatti, pur accettando con molta prontezza la posizione che gli era stata immediatamente offerta non appena
raggiunta la maggiore età, e pur provando, in verità, un sottile piacere all'idea di poter essere per la Londra dei suoi
tempi ciò che per la Roma di Nerone era stato l'autore del Satyricon, tuttavia nell'intimo desiderava essere qualche cosa
di più che un semplice arbiter elegantiarum a cui chiedere consigli sul modo di portare un gioiello, di annodare una
cravatta, di tenere un bastone. Cercava, invece, di elaborare un nuovo stile di vita, con la sua filosofia ragionata e i suoi
principi ordinati, uno stile che nella spiritualizzazione dei sensi trovasse la sua più alta realizzazione.
L'adorazione dei sensi spesso e molto giustamente è caduta in discredito perché gli uomini provano un istintivo
terrore verso le sensazioni e le passioni più forti di loro che sanno di dividere con forme di esistenza meno organizzate.
Ma a Dorian Gray pareva che nessuno avesse mai compreso la vera natura dei propri sensi e che essi fossero rimasti
animaleschi e selvaggi solo perché l'umanità aveva tentato di soggiogarli o di mortificarli attraverso la sofferenza invece
di proporsi di farne elementi di nuova spiritualità, la cui caratteristica dominante avrebbe dovuto essere un raffinato
istinto del bello. Quando si voltava a guardare il cammino dell'uomo nella storia, un senso di perdita lo ossessionava. A
quante cose si era rinunciato! E per un così misero fine! Si erano viste folli rinunce dettate dall'ostinazione, forme
mostruose di autopunizione e di abnegazione nate dalla paura e finite in forme di degradazione infinitamente più
terribili di tutte quelle presunte degradazioni da cui, nella loro ignoranza, gli uomini avevano cercato di fuggire. La
natura, nella sua meravigliosa ironia, spingeva l'anacoreta a nutrirsi insieme agli animali selvaggi del deserto e dava
come compagni all'eremita gli animali dei campi.
Sì, come aveva preannunciato Lord Henry, sarebbe sorto un nuovo edonismo che avrebbe ricreato la vita e
l'avrebbe salvata dal duro e sgradevole puritanesimo che ai giorni nostri conosce un singolare risveglio. Questo
edonismo avrebbe dovuto certamente appoggiarsi all'intelletto ma non avrebbe mai accettato teorie o sistemi implicanti
la rinuncia a qualunque esperienza emotiva. Suo scopo infatti avrebbe dovuto essere l'esperienza stessa e non i suoi
frutti, dolci o amari che fossero. Avrebbe ignorato sia l'ascetismo che mistifica i sensi, sia la volgare dissolutezza che li
assopisce. Avrebbe invece insegnato agli uomini a concentrarsi negli attimi di una vita che è essa stessa solo un attimo.
A pochi di noi non è mai capitato di svegliarsi prima dell'alba, sia dopo una di quelle notti senza sogni che
quasi ci fanno innamorare della morte, che dopo una di quelle notti di orrore e di gioia mostruosa quando nelle regioni
della mente passano fantasmi più terribili della realtà stessa, fantasmi imbevuti di quella vita ricca di colore che si
nasconde nelle cose grottesche e che dà all'arte gotica la sua duratura vitalità, essendo quest'arte, si potrebbe pensare,
propria di chi ha avuto la mente turbata dal malanno della reverie. A poco a poco, bianche dita si insinuano attraverso le
cortine e paiono tremare. Ombre mute dalle nere forme fantastiche strisciano negli angoli della stanza e vi si acquattano.
Fuori, gli uccelli si agitano tra le fronde, si sentono i rumori degli uomini che vanno al lavoro, o i sospiri e i singhiozzi
del vento che scende dai monti e si aggira intorno alla casa solitaria come se temesse di svegliare chi dorme e tuttavia
costretto a evocare il sonno dalla sua purpurea caverna. I soffici veli di nebbia si sollevano a uno a uno, a gradi le cose
riacquistano forma e colore, e noi vediamo l'alba che restituisce al mondo l'antico aspetto. I pallidi specchi riprendono la
loro vita di imitazione. I candelabri senza fiamma sono dove li abbiamo lasciati. Accanto, c'è il libro a metà intonso che
stavamo studiando o il fiore, sostenuto dal filo di ferro, che portavamo al ballo, la lettera che, per timore, non abbiamo
letto o che abbiamo letto troppe volte. Nulla ci appare cambiato. Dalle ombre della notte esce di nuovo la vita che
conosciamo. Dobbiamo riprenderla dove l'abbiamo lasciata e a questo punto, pian piano, ci pervade la terribile
sensazione di dover continuare a impiegare energia nello stesso monotono circolo di abitudini stereotipate, o anche il
desiderio sfrenato che una mattina i nostri occhi si possano aprire su un mondo che nell'oscurità si è rinnovato per il
nostro piacere, un mondo dove le cose abbiano nuove forme e colori, siano diverse o abbiano altri segreti, un mondo in
cui il passato abbia poca o nessuna importanza, o comunque sopravviva in forme ignare del dovere o del rimpianto:
anche il ricordo della gioia, infatti, possiede una sua amarezza e quello del piacere una sua pena.
La creazione di simili mondi pareva a Dorian Gray il vero scopo, o uno dei veri scopi, della vita; e nella sua
ricerca di sensazioni a un tempo nuove e piacevoli, provviste di quegli elementi insoliti così essenziali per lo spirito
romantico, adottava spesso modi di pensiero che sapeva essere del tutto estranei alla sua natura. Si abbandonava alla
loro sottile influenza, e poi, dopo averne per così dire afferrato il colore e dopo aver soddisfatto la sua curiosità
intellettuale, li lasciava perdere con quella curiosa indifferenza che non è incompatibile con un temperamento ardente,
ma che anzi, secondo alcuni psicologi moderni, spesso ne è una condizione.
Una volta si sparse la voce che stesse per convertirsi al cattolicesimo, e certamente il rito romano aveva sempre
avuto per lui un grande fascino. Il sacrificio quotidiano, più terribile di tutti i sacrifici del mondo antico, lo
commuoveva sia per il suo superbo rifiuto dell'evidenza dei sensi che per la primitiva semplicità dei suoi elementi e per
l'eterno pathos della tragedia umana che vorrebbe rappresentare. Gli piaceva inginocchiarsi sul freddo pavimento di
marmo e guardare il sacerdote nei suoi rigidi paramenti fioriti quando scostava lentamente con le bianche mani il velo
del tabernacolo o sollevava l'ostensorio tempestato di gemme simile di forma a una lanterna, con quella pallida ostia che
a volte si direbbe volentieri sia davvero il panis coelestis, il pane degli angeli; o quando, indossando le vesti della
passione di Cristo, spezzava l'ostia nel calice battendosi il petto per i suoi peccati. I turiboli fumanti, agitati nell'aria
come grandi fiori dorati da ragazzi severi vestiti di pizzi e porpora, avevano su di lui un sottile fascino. Mentre usciva
era solito guardare con un senso di meraviglia i confessionali bui e sedeva a lungo nell'ombra profonda ascoltando
uomini e donne che sussurravano attraverso la grata consunta la storia vera della loro vita.
Ma non commise mai l'errore di arrestare il suo sviluppo intellettuale accettando formalmente un credo o un
sistema, o di confondere con la casa dove si vive una locanda adatta solo per il sonno di una notte o per le poche ore di
una notte senza stelle in cui la luna si mostra a fatica. Il misticismo, con il suo meraviglioso potere di renderci insolite le
cose banali, e il sottile antinomismo che pare accompagnarlo sempre, lo interessarono per un breve periodo; per un
altrettanto breve periodo si dedicò alle dottrine del movimento darwinista tedesco, e provò un singolare piacere nel far
risalire i pensieri e le passioni degli uomini a qualche perlacea cellula cerebrale, o a qualche bianco nervo del corpo,
divertendosi all'idea dell'assoluta dipendenza dello spirito da determinate condizioni fisiche, sane o malate, normali o
morbose. Tuttavia, come già si è detto, nessuna teoria della vita gli pareva avere qualche importanza se paragonata alla
vita stessa. Era acutamente consapevole di quanto sia sterile ogni speculazione intellettuale quando è separata
dall'azione e dall'esperienza. Sapeva che i sensi non meno dell'anima hanno i loro misteri spirituali da rivelare.
Per questo volle studiare i profumi e i segreti della loro fabbricazione distillando olii odorosi e bruciando resine
profumate provenienti dall'Oriente. Si rese conto che non vi era nessuno stato d'animo che non avesse una controparte
nella vita dei sensi e tentò di scoprire i loro veri legami, domandandosi perché l'incenso spinge al misticismo, perché
l'ambra grigia eccita le passioni, le violette evocano il ricordo di spente passioni, il muschio turba l'intelletto e la
magnolia colora l'immaginazione. Numerosi furono i tentativi di elaborare un'autentica psicologia dei profumi e di
valutare le molteplici influenze delle radici dall'aroma dolce e dei fiori ricchi di polline profumato, dei balsami
aromatici, dei legni scuri e fragranti, dello spiganardo nauseante, dell'ovenia che fa impazzire, dell'aloe che, dicono,
scaccia la malinconia dall'anima.
In un altro periodo si dedicò totalmente alla musica, e in una lunga stanza dalle finestre inferriate con il soffitto
rosso e oro e pareti di lacca verde oliva, era solito tenere strani concerti, in cui zingari appassionati strappavano musiche
selvagge da piccole cetre, o gravi tunisini dai gialli barracani pizzicavano le corde di enormi liuti, mentre negri
sorridenti battevano con monotonia su tamburi di rame e, rannicchiati su tappeti scarlatti, sottili indiani in turbante
soffiavano in lunghi pifferi di canna o di ottone e incantavano, o fingevano di incantare, grandi serpenti dal cappuccio e
orribili vipere cornute. I tempi discordanti e le acute dissonanze della musica primitiva a volte lo commuovevano,
quando ormai la grazia di Schubert, la bella malinconia di Chopin e le possenti armonie dello stesso Beethoven non
ridestavano più il suo interesse. Raccolse da tutte le parti del mondo i più strani strumenti che era possibile trovare sia
nelle tombe di popoli scomparsi, che tra le poche tribù selvagge sopravvissute al contatto con la civiltà occidentale, e
amava toccarli e provarli. Possedeva il misterioso juruparis degli indios del Rio Negro, che le donne non devono mai
vedere, e sul quale nemmeno i giovani possono posare lo sguardo se non dopo una prova di digiuno e di flagellazione,
le giare di terracotta degli indiani che hanno un suono acuto come grida di uccelli; flauti di ossa umane come quelli che
Alfonso de Ovalle udì in Cile, i sonori diaspri verdi che si trovano nella zona di Cuzco e che emettono note di singolare
dolcezza. Aveva zucche dipinte, piene di sassolini che crepitavano quando erano scosse; il lungo clarino messicano nel
quale l'aria non viene soffiata ma aspirata dal suonatore; l'aspro ture delle tribù amazzoniche suonato dalle sentinelle
che siedono tutto il giorno su alti alberi e che si dice possa essere udito alla distanza di tre leghe; il teponazil che ha due
linguette vibranti di legno e viene percosso con bastoncini ricoperti da una gomma elastica tratta dalla linfa lattiginosa
delle piante; le campane yotl degli aztechi riunite in grappoli come l'uva; un enorme tamburo cilindrico coperto dalla
pelle di grossi serpenti come quello che Bernal Diaz vide quando andò con Cortés nel tempio messicano e del cui suono
pieno di tristezza ci lasciò una così vivida descrizione. Il carattere fantastico di questi strumenti lo affascinava e provava
uno strano piacere al pensiero che l'arte, come la natura, ha i suoi mostri, esseri di forma bestiale e dalle orribili voci.
Tuttavia dopo qualche tempo se ne stancò e, nel suo palco all'Opera, solo o in compagnia di Lord Henry, ascoltava con
gioia rapita il Tannhäuser, ritrovando nel preludio di questa grande opera d'arte la rappresentazione della tragedia della
sua anima.
In un certo periodo si dedicò allo studio dei gioielli e apparve a un ballo nel costume di Anne de Joyeuse,
ammiraglia di Francia, con un vestito coperto di cinquecentosessanta perle. Questa passione lo dominò per anni interi, e
in verità bisogna dire che non lo abbandonò mai. Spesso trascorreva l'intera giornata ordinando e riordinando nei loro
astucci le varie pietre della sua collezione, come il crisoberillo verde oliva che diviene rosso sotto la luce artificiale, il
cimofano striato da un filo d'argento, il crisolito color pistacchio, i topazi rosa o ambrati come il vino, i carbonchi
dall'intenso colore scarlatto e dalle tremule stelle a quattro raggi, i cinnami rosso fiamma, le spinelle arancioni o violette
e le ametiste con i loro strati alternati di zaffiro e rubino. Amava l'oro rosso dell'arenaria, la bianchezza perlacea della
pietra lunare, lo spezzato arcobaleno dell'opale lattea. Fece arrivare da Amsterdam tre smeraldi di dimensioni
straordinarie e di colore intensissimo e si procurò una turchese de la vieille roche che tutti gli intenditori gli
invidiavano.
Sui gioielli scoprì anche storie meravigliose. Nella Clericalis Disciplina di Alfonso si menzionava un serpente
dagli occhi di vero giacinto, e nell'avventurosa storia di Alessandro, il conquistatore di Ematia, si diceva che avesse
trovato nella valle del Giordano serpenti «con collane di autentici smeraldi che spuntavano sul loro dorso». Filostrato
riferisce che il cervello di un drago conteneva una gemma e che «mostrandogli lettere d'oro e una tunica scarlatta» fu
possibile far cadere il mostro in un sonno magico e ucciderlo. Secondo il grande alchimista Pierre de Boniface, il
diamante rende invisibili e l'agata indiana eloquenti. La corniola calma la collera, il giacinto favorisce il sonno e
l'ametista dissipa i fumi del vino. Il granato scaccia i demoni e l'opale ha tolto alla luna il suo colore. La selenite cresce
o cala a seconda della luna e solo il sangue di capretto può macchiare il meloceo che rivela i ladri. Leonardo Camillus
aveva visto una pietra bianca tolta dal cervello di un rospo appena ucciso e che era un antidoto sicuro contro i veleni. Il
bezoar, che si trova nel cuore del daino arabo, è un amuleto contro la peste. Nei nidi degli uccelli d'Arabia si trova
l'aspilate, che secondo Democrito protegge chi lo porta dai pericoli del fuoco.
Durante la cerimonia dell'incoronazione, il re di Ceylon attraversa a cavallo la città tenendo in mano un grosso
rubino. Le porte del palazzo del Prete Gianni erano «di sardio e portavano incastonate le corna dell'aspide cornuta, onde
nessuno potesse entrare portando veleni». Sul frontone c'erano «due mele d'oro, nelle quali erano incastonati due
carbonchi», perché di giorno scintillasse l'oro e i carbonchi di notte. Nello strano romanzo di Lodge Una margherita in
America, si afferma che nella stanza della regina si potevano osservare «tutte le caste donne del mondo, cesellate in
argento, che vedevano con limpidi occhi di crisalidi, carbonchi, zaffiri e verdi smeraldi». Marco Polo aveva visto gli
abitanti del Cipango porre perle rosa nella bocca dei morti. Un mostro marino si innamorò di una perla che un pescatore
portò al re Perozes, uccise il ladro, e pianse per sette lune la perdita della sua amata. Quando gli Unni attirarono il re
nella grande fossa - è Procopio che lo racconta - egli la gettò via e non la ritrovò più nonostante l'imperatore Anastasio
avesse offerto cinque libbre d'oro per averla. Il re del Malabar aveva mostrato a un veneziano un rosario di
trecentoquattro perle, una per ognuno degli dei che adorava.
Quando il duca Valentino, figlio di Alessandro VI, fece visita a Luigi XII di Francia, montava, secondo
Brantôme, un cavallo coperto di piastre d'oro e portava un cappello ornato da un doppio giro di rubini che emettevano
intensi bagliori. Carlo d'Inghilterra cavalcava con staffe sospese a cinghie ornate da quattrocentoventun diamanti.
Riccardo II aveva un mantello coperto di rubini valutato trentamila marchi. Hall descrive Enrico VII mentre si reca alla
Torre di Londra prima dell'incoronazione, «con un farsetto a ricami d'oro, la piastra pettorale ricamata con diamanti e
altre pietre preziose e intorno al collo una grande gorgera tempestata di enormi rubini». I favoriti di Giacomo I
portavano orecchini di smeraldi avvolti in filigrana d'oro. Edoardo II regalò a Piers Gaveston un'armatura di oro rosso
tempestata di giacinti, un collare di rose d'oro con turchesi e un elmo parsemé di perle. Enrico II portava guanti
ingioiellati lunghi fino al gomito e aveva un guanto da falcone ornato con dodici rubini e cinquantadue grandi perle
orientali. Il cappello ducale di Carlo il Temerario, ultimo duca di Borgogna della sua casata, era ornato di perle a goccia
e di zaffiri.
Com'era raffinata la vita d'un tempo! Com'erano fastosi la sua pompa e i suoi ornamenti! Perfino la letteratura
sul lusso dei morti era meravigliosa.
Poi rivolse l'attenzione ai ricami e agli arazzi che, nelle gelide stanze delle regioni nordiche, sostituiscono gli
affreschi. Mentre si dedicava a questo studio - ebbe sempre la straordinaria capacità di lasciarsi completamente
assorbire dalla cosa che lo interessava in quel momento, qualunque fosse - provò un'infinita tristezza al pensiero della
rovina che il tempo infliggeva alle cose belle e meravigliose. A questa rovina, comunque, lui era sfuggito. Le estati si
susseguivano, le gialle giunchiglie fiorivano e morivano, notti d'orrore ripetevano la storia della loro vergogna, ma
Dorian Gray non subiva nessun cambiamento. L'inverno non deformava il suo volto, né segnava il suo incarnato fresco
come un fiore. Com'era diversa la sorte delle cose materiali! Dov'erano andate? Dov'era la grande veste color del croco,
per la quale gli dei avevano combattuto contro i giganti, che brune fanciulle avevano tessuto per il piacere di Atena?
Dov'era l'immenso velario che Nerone aveva teso sopra il Colosseo a Roma, quella titanica vela di porpora sulla quale
era raffigurato il cielo stellato e Apollo che conduceva un carro tirato da bianchi cavalli dai finimenti d'oro? Avrebbe
desiderato vedere le singolari tovaglie tessute per il Sacerdote del Sole, sulle quali erano esposti i piatti e le leccornie
più squisiti che si potessero desiderare a una festa; il sudario del re Cilperico, con le sue trecento api d'oro; le vesti
fantastiche che avevano suscitato l'indignazione del vescovo del Ponto e che portavano figure di «leoni, pantere, orsi,
cani, foreste, rocce, cacciatori: tutto ciò che in realtà un pittore può copiare dalla natura»; il mantello indossato una
volta da Carlo d'Orléans, sulle cui maniche erano ricamati i versi di una canzone che cominciava con «Madame, je suis
tout joyeux» mentre il pentagramma dell'accompagnamento musicale era lavorato in filo d'oro e ogni nota, di forma
quadrata come allora si usava, era composta da quattro perle. Aveva letto della stanza nel palazzo di Reims preparata
per la regina Giovanna di Borgogna, decorata con «milletrecentoventun pappagalli ricamati, recanti il blasone del re, e
cinquecentosessantun farfalle dalle ali parimenti adorne del blasone della regina, il tutto lavorato in oro». Caterina de'
Medici si era fatta fare una coltre da lutto di velluto nero cosparso di mezzelune e di soli. Le cortine dei baldacchino di
damasco erano ornate di ghirlande e intrecci di foglie su fondo oro e argento, e i bordi frangiati di ricami di perle; il
letto era in una stanza dalle pareti tappezzate da una fila di stemmi della regina fatte con appliques di velluto nero su
tessuto d'argento. Luigi XIV aveva nel suo appartamento delle cariatidi ricamate in oro alte cinque metri. Il letto da
cerimonia di Sobieski, re di Polonia, era di broccato d'oro di Smirne sul quale, con turchesi, erano ricamati versetti del
Corano. I sostegni d'argento dorato erano meravigliosamente cesellati e adorni di medaglioni di smalto e pietre preziose.
Era stato catturato nel campo turco davanti a Vienna e, sotto i tremuli bagliori d'oro del baldacchino, era stato innalzato
lo stendardo di Maometto.
Così, per un anno intero, cercò di accumulare i più squisiti esemplari di tessuti e ricami che poté trovare:
delicate mussole di Delhi finemente intessute di palme dalle foglie d'oro e trapunte con ali iridescenti di scarabei; garze
di Dacca che per la loro trasparenza sono conosciute in Oriente con il nome di «aria filata», «acqua corrente», «rugiada
della sera»; strani tessuti a figure di Giava; elaborate tappezzerie cinesi; libri rilegati in raso fulvo o in seta azzurro
pallido intessuta di fleurs de lys, di uccelli e figure; veli li lacis lavorati a punto ungherese; broccati siciliani e rigidi
velluti spagnoli; tessuti georgiani ricamati con monete d'oro, e fukusa giapponesi dalle sfumature color verde oro e dagli
uccelli riccamente piumati.
Aveva anche una particolare passione per le vesti ecclesiastiche, come del resto per tutto ciò che aveva a che
fare con il culto cattolico. Nelle lunghe cassapanche di cedro, allineate nella galleria settentrionale della sua casa, aveva
riposto rari e splendidi esemplari di quello che in realtà è l'abbigliamento della sposa di Cristo, obbligata a indossare
porpora, gioielli e lini raffinati per nascondere il corpo pallido e macerato, consunto dalle sofferenze volute e ferito dal
volontario martirio. Possedeva un magnifico piviale di seta cremisi e di damasco intessuto d'oro, con un disegno
ripetuto di melograni d'oro tra fiori stilizzati a sei petali e, sui due lati, un motivo di ananas in grani di perla. Gli
orphreys erano divisi in pannelli che rappresentavano scene della vita della Vergine mentre sul cappuccio era
raffigurata, con ricami di seta colorata, la sua Incoronazione. Era un lavoro italiano del XV secolo. Un altro piviale era
di velluto verde ricamato a mazzi di fiori d'acanto in forma di cuore dai quali spuntavano bianchi fiori dal lungo stelo,
resi a rilievo con filo d'argento e pietre colorate. Il fermaglio portava una testa di serafino di filigrana d'oro in rilievo.
Gli orphreys erano tessuti in seta rossa e oro, abbellita da vari medaglioni di santi e martiri tra i quali San Sebastiano.
Aveva anche pianete di seta color dell'ambra, di seta azzurra e broccato d'oro, di seta gialla damascata e intessuta d'oro
con scene della passione e della crocifissione di Cristo, ricamate con leoni e pavoni e altri emblemi; dalmatiche di seta
bianca e di seta rossa di Damasco, decorata con tulipani e delfini e fleurs de lys; paliotti d'altare di velluto cremisi e di
lino blu; e corporali e veli di calice e sudari. C'era qualcosa, nei mistici uffici in cui questi oggetti venivano impiegati,
che gli faceva correre la fantasia.
Questi tesori, infatti, così come tutte le cose che raccoglieva nella sua bella casa, gli servivano per dimenticare,
gli davano la possibilità di sfuggire per un certo periodo alla paura che, a volte, gli sembrava insopportabile. Sulla
parete della chiusa stanza solitaria in cui aveva trascorso tanta parte della sua infanzia, aveva appeso con le proprie
mani il terribile ritratto le cui mutevoli fattezze gli mostravano la vera degenerazione della sua vita, e sul quale aveva
drappeggiato come un sipario il manto porpora e oro. Per settimane intere non entrava in quella camera, dimenticava
l'orrenda cosa dipinta e ritrovava la serenità, la sua meravigliosa gaiezza, la sua dedizione appassionata al puro fatto di
esistere. Poi, improvvisamente, una notte usciva di casa, si recava in posti orribili dalle parti di Blue Gate Fields e
restava là giorni e giorni finché ne veniva scacciato. Al ritorno, sedeva di fronte al ritratto a volte provando un profondo
schifo per il quadro e per se stesso, ma altre volte colmo di quell'orgoglio individualistico che dà al peccato metà del
suo fascino e sorrideva, segretamente compiaciuto, all'ombra deforme costretta a portare un peso che avrebbe dovuto
essere suo.
Dopo qualche anno, non riusciva a restare per molto tempo lontano dall'Inghilterra. Aveva ceduto la villa di
Trouville che divideva con Lord Henry e la piccola casa di Algeri dalle bianche mura dove aveva trascorso più di un
inverno. Odiava separarsi dal quadro che aveva una parte così importante nella sua vita e inoltre temeva che, durante la
sua assenza, qualcuno potesse entrare nella stanza nonostante il complicato sistema di catenacci che aveva fatto mettere
alla porta.
Sapeva benissimo che questo non significava nulla. Certo, il ritratto conservava ancora, sotto la perfida
bruttezza del volto, una marcata somiglianza con lui, ma questo che cosa avrebbe potuto suggerire? Avrebbe riso di
chiunque cercasse di accusarlo. Non l'aveva dipinto lui. Per quanto potesse essere ignobile e vergognoso, che rapporto
aveva con lui? Chi gli avrebbe creduto anche se gli avesse rivelato il suo segreto?
Tuttavia aveva paura. A volte quando si trovava nella sua grande casa del Nottinghamshire, in compagnia dei
giovani eleganti del suo ceto che solitamente frequentava, stupendo la contea con il lusso sfrenato e con il fastoso
splendore del suo stile di vita, abbandonava improvvisamente gli ospiti e ritornava in gran fretta in città per assicurarsi
che la porta non fosse stata forzata e che il quadro fosse sempre al suo posto. Che cosa sarebbe successo se lo avessero
rubato? La sola idea lo agghiacciava. Senza dubbio tutti avrebbero conosciuto il suo segreto. Forse già lo sospettavano.
Infatti, anche se affascinava molta gente, non pochi diffidavano di lui. Per poco non era stata respinta la sua
candidatura a un club del West End cui per nascita e posizione sociale avrebbe avuto pieno diritto di appartenere, e si
diceva che una volta, mentre un amico lo accompagnava nella sala del Churchill, il duca di Berwich e un altro
gentiluomo si erano ostentatamente alzati ed erano usciti. Dopo il suo venticinquesimo compleanno, strane storie
cominciarono a diffondersi sul suo conto. Correva la voce che lo avessero visto azzuffarsi con dei marinai stranieri in
un'infima bettola nella zona più lontana di Whitechapel, che frequentasse ladri e falsari e conoscesse i misteri dei loro
traffici. Le sue strane assenze divennero di dominio pubblico e quando riappariva in società, la gente sussurrava negli
angoli, gli passava accanto con un sorriso di scherno, oppure lo fissavano con un freddo sguardo indagatore come se
fossero decisi a scoprire il suo segreto.
Naturalmente lui non si curava di queste insolenze e di questi tentativi di provocazione e, nell'opinione dei più,
i suoi modi franchi e privi di affettazione, il fascino del suo sorriso fanciullesco e la grazia infinita di quella
meravigliosa gioventù che sembrava non lasciarlo mai, erano di per se stessi una risposta sufficiente alle calunnie -
perché tali le ritenevano - che circolavano sul suo conto. Fu notato comunque che alcuni di coloro che erano stati in
grande intimità con lui, dopo qualche tempo sembravano evitarlo. Si vedevano donne che lo avevano adorato alla follia
e che per lui avevano sfidato ogni censura sociale e messo da parte tutte le convenzioni, impallidire di vergogna o di
orrore quando Dorian Gray appariva.
Tuttavia, questi scandali di cui si sussurrava, agli occhi di molti non facevano che aumentare il suo singolare e
pericoloso fascino. La sua grande ricchezza era un elemento rassicurante. La società, quella civilizzata almeno, non
crede mai troppo facilmente a ciò che potrebbe danneggiare chi è ricco e affascinante. Sente istintivamente che
l'educazione è più importante della morale e, nella sua opinione, la più specchiata rispettabilità vale molto meno del
fatto di avere un buon chef. E, alla fine dei conti, è una molto magra consolazione venire a sapere che chi ci ha fatto
servire un pessimo pranzo o un vino scadente, è irreprensibile nella vita privata. Nemmeno le virtù cardinali possono far
perdonare delle entrées troppo fredde, come fece notare una volta Lord Henry, durante una discussione sull'argomento;
e probabilmente vi sono molte cose da dire a favore di questa tesi. I canoni della buona società, infatti, sono, o
dovrebbero essere, gli stessi dell'arte: per essi la forma è assolutamente essenziale. Dovrebbero avere la dignità di una
cerimonia e, insieme, la sua irrealtà, dovrebbero unire l'ipocrisia delle commedie romantiche allo spirito e alla bellezza
che ce le rendono piacevoli. È davvero così terribile l'insincerità? Io non credo: è semplicemente un metodo che ci
permette di moltiplicare la nostra personalità.
Questa, almeno, era l'opinione di Dorian Gray. Era solito meravigliarsi della psicologia superficiale di coloro
che ritengono che l'Io dell'uomo sia una cosa semplice, stabile, sicura e dotata di una sola essenza. Secondo lui, l'uomo
era un essere con miriadi di vite e miriadi di sensazioni, era una creatura multiforme e complessa che portava in sé
strane eredità di pensiero e di passione, una creatura la cui carne era corrotta dalle mostruose malattie della morte. Gli
piaceva aggirarsi nella cupa e fredda galleria della sua casa di campagna e osservare i ritratti di coloro il cui sangue gli
fluiva nelle vene. Ecco Philip Herbert, descritto da Francis Osborne nelle sue Memorie del Regno della Regina
Elisabetta e di re Giacomo come un uomo «benvoluto a corte per il bel volto, che non gli tenne a lungo compagnia».
Forse il giovane Herbert aveva condotto la vita che a volte lui stesso conduceva? Forse qualche strano germe velenoso
era passato di corpo in corpo finché era giunto nel suo? Era forse il fievole senso di quella bellezza distrutta che, così
improvvisamente e quasi senza motivo, nello studio di Basil Hallward lo aveva spinto a quella folle preghiera che aveva
cambiato radicalmente la sua vita? Ecco, con il giustacuore rosso ricamato in oro, il mantello ingioiellato, il colletto e i
polsini orlati d'oro, Sir Anthony Sherard con l'armatura lucente e brunita ai suoi piedi. Qual era l'eredità che gli aveva
lasciato? Forse l'amante di Giovanna di Napoli gli aveva trasmesso un'eredità di vergogna e di peccato? Le sue azioni
erano forse sogni che quegli uomini defunti non avevano avuto il coraggio di attuare? E qui, dalla tela sbiadita,
sorrideva Lady Elizabeth Devereux, nel velo di mussola, con il corsetto ricamato di perle e le maniche rosa a spacchi
verticali. Nella destra teneva un fiore e nella sinistra un collare smaltato di rose bianche e damascate. Accanto, su un
minuscolo tavolo, erano posati un mandolino e una mela. Sulle scarpine appuntite c'erano grosse rosette. Conosceva la
sua vita e le strane storie che si raccontavano sui suoi amanti: aveva in sé qualche cosa del suo temperamento? Quegli
occhi a mandorla dalle palpebre pesanti parevano fissarlo curiosi. E che dire di George Willoughby, con quei suoi
capelli incipriati e i nèi bizzarri? Che aria perversa! Il volto era scuro e mesto, le labbra sensuali parevano piegarsi in
una smorfia sprezzante. Delicati merletti cadevano sulle sue mani gialle e sottili, sovraccariche di anelli. Era stato una
delle persone più eleganti del diciottesimo secolo e, in gioventù, l'amico di Lord Ferrars. Che dire poi del secondo Lord
Beckenham, compagno del Principe Reggente durante il suo periodo più sfrenato, nonché uno dei testimoni al suo
matrimonio con la signora Fitzherbert? Com'era bello e altero con quei riccioli castani e la posa insolente! Quali
passioni gli aveva trasmesso? Il mondo lo aveva considerato infame perché aveva diretto le orge di Carlton House. Sul
petto gli scintillava la stella della Giarrettiera. Accanto al suo, era appeso il ritratto della moglie, una donna pallida dalle
labbra sottili, vestita di nero. Anche il sangue di lei gli scorreva nelle vene. Come era strano! E sua madre, con quel suo
volto da Lady Hamilton e le labbra come stillanti vino. Sapeva che cosa aveva preso da lei: la bellezza e l'amore per la
bellezza altrui. Gli sorrideva nel suo abito da baccante. Aveva foglie di vite nei capelli e vino purpureo cadeva dalla
coppa che teneva in mano. I garofani del quadro avevano perduto il colore, ma gli occhi erano ancora meravigliosi,
profondi e brillanti di colore. Sembravano seguirlo in ogni suo movimento.
Ma si possono anche avere antenati nella letteratura, come nella propria stirpe, antenati forse ancor più vicini
nel tipo e nel temperamento e, certo, con influenze di cui siamo più profondamente consapevoli. A volte sembrava a
Dorian Gray che tutta la storia fosse solo un racconto della sua vita, non come l'aveva vissuta in realtà, ma come l'aveva
creata nella sua fantasia, come si era svolta nella sua mente e nelle sue passioni. Sentiva di averli conosciuti tutti, quei
singolari terribili personaggi che erano passati sulla scena del mondo e avevano commesso peccati così meravigliosi e
così sottili malvagità. Gli sembrava che, in qualche modo misterioso, la loro vita fosse stata la sua.
Anche l'eroe del meraviglioso racconto che aveva tanto influenzato la sua vita aveva avuto la stessa
fantasticheria. Nel settimo capitolo raccontava di quando, incoronato di alloro perché il fulmine non potesse colpirlo, si
era seduto come Tiberio in un giardino di Capri a leggere l'infame libro di Elefantide, mentre nani e pavoni gli si
aggiravano intorno pieni di sussiego e il suonatore di flauto derideva il ragazzo che agitava l'incensiere. Come Caligola
aveva gozzovigliato nelle scuderie con i fantini in tunica verde e aveva preso il cibo nella mangiatoia d'avorio insieme
al cavallo che aveva la fronte cinta di gioielli. Come Domiziano si era aggirato in un corridoio rivestito di specchi di
marmo, guardandosi intorno con occhi stravolti alla ricerca del riflesso della spada che avrebbe posto fine ai suoi giorni,
malato di quell'ennui, di quel terribile taedium vitae che assale coloro che hanno tutto dalla vita. Aveva guardato,
attraverso un limpido smeraldo, i rossi massacri del circo e poi, in una lettiga di porpora e perle tirata da mule dai ferri
d'argento, si era fatto portare attraverso la via dei Melograni verso la Domus Aurea e aveva udito gli uomini gridare al
suo passaggio il nome di Nerone Cesare. Come Eliogabalo, si era dipinto il volto, aveva preso la conocchia insieme alle
donne, aveva trasportato la Luna da Cartagine per offrirla al Sole in mistico matrimonio.
Dorian Gray era solito leggere e rileggere di continuo questo fantastico capitolo e i due immediatamente
successivi, in cui come in arazzi singolari o in smalti abilmente lavorati, erano raffigurate le forme orrende e bellissime
di coloro che il vizio, il sangue e la noia avevano reso mostruosi o folli: Filippo, duca di Milano, che assassinò la moglie
e le dipinse le labbra con veleno scarlatto perché l'amante suggesse la morte dando l'ultimo bacio alla morta; Pietro
Barbi, veneziano, conosciuto con il nome di Paolo II, che spinse la sua vanità fino ad assumere il titolo di Formosus e la
cui tiara valutata duecentomila fiorini fu comperata a prezzo di un terribile peccato; Gian Maria Visconti, che usava i
segugi per cacciare l'uomo, e il cui corpo assassinato fu ricoperto di rose da una prostituta che lo amava; il Borgia con il
Fratricidio che gli cavalcava a fianco e il mantello macchiato del sangue di Perotto; Pietro Riario, il giovane cardinale
arcivescovo di Firenze, figlio favorito di Sisto IV, la cui bellezza era pari solo alla dissolutezza, che ricevette Leonora
d'Aragona in un padiglione di seta bianca e cremisi, pieno di ninfe e centauri, e fece dorare un fanciullo perché alle feste
gli servisse da Ganimede o da Hylas; Ezzelino, la cui malinconia era alleviata solo dallo spettacolo della morte, e che
amava il rosso sangue, come altri amavano il rosso vino: figlio del demonio, era ritenuto, e aveva truffato il padre
giocando con lui l'anima a dadi; Giambattista Cybo che per beffa prese il nome di Innocenzo e nelle cui torpide vene un
medico ebreo trasfuse il sangue di tre giovinetti; Sigismondo Malatesta, amante di Isotta e signore di Rimini, che venne
bruciato in effigie a Roma perché nemico di Dio e dell'uomo, che strangolò Polissena con un tovagliolo, offrì il veleno a
Ginevra d'Este in una coppa di smeraldo e, in onore di una vergognosa passione, costruì una chiesa pagana per il culto
cristiano; Carlo VI, così violentemente preso dalla cognata che un lebbroso lo avvertì che sarebbe presto impazzito e
che, quando il cervello fu colto dalla malattia e cominciò a sragionare, si calmava solo vedendo le carte saracene dipinte
con le immagini dell'amore, della morte, e della follia; e - nel farsetto attillato, il berretto ornato di gemme, i riccioli
come foglie di acanto - Grifonetto Baglioni, che assassinò Astorre insieme alla moglie e Simonetto con il suo paggio, un
giovane di tale bellezza che, quando giacque morente sulla gialla piazza di Perugia, coloro che lo odiavano non
poterono impedirsi di piangere, e Atalanta, che lo aveva maledetto, lo benedisse.
C'era un orribile fascino in tutti questi personaggi. Li vedeva di notte e gli turbavano l'immaginazione durante
il giorno. Il rinascimento conosceva strani modi per uccidere di veleno: con un elmo o con una torcia accesa, con un
guanto ricamato d'oro e con una catenella d'ambra. Dorian Gray era stato avvelenato da un libro. In certi momenti
considerava il male solo un mezzo mediante il quale realizzare la sua concezione della bellezza.

XII
Era il nove di novembre, il giorno del suo trentottesimo compleanno, come ricordò più volte in seguito.
Tornava a casa verso le undici di sera, dopo aver pranzato da Lord Henry, avvolto in una pesante pelliccia
perché la notte era fredda e nebbiosa. All'angolo di Grosvenor Square con South Adley Street un uomo in un ulster
grigio col bavero alzato, lo superò muovendosi rapido nella nebbia. Teneva in mano una valigia. Dorian Gray lo
riconobbe: era Basil Hallward. Si sentì assalire da uno strano, inspiegabile senso di paura. Finse di non riconoscere il
pittore e proseguì in fretta verso casa.
Hallward però lo aveva visto. Dorian lo udì dapprima fermarsi sul marciapiedi, poi corrergli dietro. Pochi
momenti dopo la mano di lui gli si posava su un braccio.
«Dorian! Che colpo di fortuna! Ti ho aspettato nella tua biblioteca fin dalle nove. Alla fine la stanchezza del
tuo cameriere mi ha impietosito e me ne sono andato dicendogli di andare a letto. Parto per Parigi con il treno di
mezzanotte: ci tenevo molto a vederti prima di partire. Ho pensato che fossi tu, o meglio la tua pelliccia, nel passarti
accanto, ma non ne ero affatto sicuro. Non mi hai riconosciuto?»
«Con questa nebbia, mio caro Basil? Non riesco nemmeno a riconoscere Grosvenor Square. Credo che la mia
casa sia da queste parti, ma non ne sono affatto sicuro. Mi dispiace che tu stia partendo, non ti vedo da secoli. Ma
immagino che tornerai presto.»
«No, rimarrò via dall'Inghilterra per sei mesi.
Ho intenzione di prendere uno studio a Parigi e di rinchiudermi dentro finché non avrò finito un grande quadro
che ho in mente. Comunque, non era di me che volevo parlare. Eccoci alla porta di casa tua: fammi entrare un
momento, ho qualcosa da dirti.»
«Con molto piacere, ma non perderai il treno?» domandò pigramente Dorian Gray mentre saliva i gradini e
apriva la porta.
La luce del lampione penetrava a fatica la nebbia e Hallward diede un'occhiata all'orologio. «Ho un sacco di
tempo,» rispose. «Il treno parte alle dodici e quindici e sono appena le undici. Stavo proprio andando al club a cercarti
quando ti ho incontrato. Come vedi, non ho bagagli ingombranti: ho già spedito le cose più pesanti. Ho solo questa
borsa e posso comodamente arrivare alla Victoria Station in venti minuti.»
Dorian lo guardò e sorrise. «Che modo di viaggiare per un famoso pittore! Una borsa Gladstone e un ulster!
Entra, altrimenti la nebbia mi viene in casa. E ricordati di non dirmi nulla di serio. Non c'è nulla di serio in questi tempi,
o, almeno, non dovrebbe esserci.»
Hallward entrò scuotendo il capo e seguì Dorian in biblioteca. Un allegro fuoco di legna ardeva nel grande
camino. Le lampade erano accese e un portaliquori olandese d'argento ancora aperto era posato, insieme ad alcuni sifoni
di soda e a grandi bicchieri di cristallo molato, su un minuscolo tavolino intarsiato.
«Come vedi, il tuo cameriere mi aveva messo a mio agio. Mi ha dato tutto quello che desideravo, comprese le
tue sigarette dal bocchino dorato. È una persona davvero ospitale. Mi piace molto di più di quel francese che avevi una
volta. A proposito, che cosa è successo di lui?»
Dorian scrollò le spalle. «Credo che abbia sposato la cameriera di Lady Radley e l'abbia portata a Parigi come
sarta inglese. Ho sentito che l'anglomanie è molto di moda, laggiù. È stupido da parte dei francesi, non ti pare? Ma non
era affatto un cattivo cameriere, sai? Non mi era simpatico, ma non potevo lamentarmene. Spesso immaginiamo delle
cose completamente assurde. In realtà, mi era molto devoto e mi sembrò molto dispiaciuto quando se ne andò. Vuoi un
altro brandy con soda? O preferisci uno Hockheim al seltz? Io lo prendo sempre. Devo averne, nella stanza vicina.»
«Grazie, non voglio altro,» disse il pittore levandosi cappello e cappotto e gettandoli sulla borsa che aveva
posato in un angolo. «E ora, mio caro amico, devo parlarti seriamente. Non fare quella faccia scura. Mi rendi le cose
molto più difficili.»
«Di che cosa si tratta?» esclamò Dorian Gray, con la sua aria insolente, lasciandosi cadere su un divano.
«Spero non di me. Stasera sono stanco di me, mi piacerebbe essere qualcun altro.»
«Si tratta di te,» rispose il pittore con la sua voce grave e profonda, «e te lo devo dire. Ti prenderà solo
mezz'ora.»
Dorian sospirò e accese una sigaretta. «Mezz'ora!» mormorò.
«Non è chiederti molto, Dorian, e parlo nel tuo esclusivo interesse. Penso sia bene che tu sappia che a Londra
si dicono le cose più tremende sul tuo conto.»
«Non desidero saperne nulla. Amo gli scandali che riguardano gli altri, ma quelli che riguardano me non mi
interessano. Non hanno il fascino della novità.»
«Devono interessarti, Dorian. Ogni gentiluomo ha interesse al suo buon nome. Non vorrai che la gente parli di
te come di un personaggio vile e vizioso. Naturalmente ci sono la tua posizione, la tua ricchezza e via dicendo, ma
posizione e ricchezza non sono tutto. Bada che non credo assolutamente a queste voci, o almeno, quando ti vedo non
posso crederci. Il peccato è una cosa che si stampa sulla faccia di un uomo: non lo si può nascondere. A volte la gente
parla di vizi segreti, ma cose simili non esistono. Se un disgraziato ha un vizio, lo manifesta nella linea della bocca,
nelle palpebre cadenti, persino nella forma delle mani. L'anno scorso venne da me un tizio - non voglio fare il suo
nome, ma lo conosci - per farsi fare il ritratto. Non lo avevo mai visto e fino a quel momento non avevo mai sentito dire
nulla sul suo conto, anche se in seguito ho saputo un bel po' di cose. Mi offrì una somma sbalorditiva. Rifiutai. C'era
qualche cosa nella forma delle sue dita che mi disgustava. Adesso so che le cose immaginate sul suo conto erano
assolutamente vere: conduce una vita spaventosa. Ma tu, Dorian, con quel tuo viso puro, luminoso, innocente, con la tua
meravigliosa giovinezza intatta... non posso pensare nulla contro di te. Tuttavia ti vedo molto di rado e ormai non vieni
più nel mio studio; così, quando sono lontano e sento queste cose disgustose che la gente mormora sul tuo conto, non so
che cosa dire. Perché, Dorian, un uomo come il duca di Berwick lascia la sala di un club quando entri tu? Come mai qui
a Londra tanti gentiluomini non vengono a casa tua né ti invitano a casa loro? Un tempo eri amico di Lord Staveley.
L'ho incontrato la settimana scorsa a pranzo. Durante la conversazione saltò fuori il tuo nome a proposito delle
miniature che hai prestato per la mostra del Dudley. Staveley fece una smorfia e disse che potevi avere il gusto artistico
più squisito, ma che non si dovrebbe permettere a nessuna ragazza casta di conoscerti e a nessuna donna onesta di
rimanere dove ci sei anche tu. Gli ricordai che ero tuo amico e gli chiesi di spiegarsi. Lo fece, lo fece così, davanti a
tutti. Una cosa orribile. Perché la tua amicizia è così fatale ai giovani? C'è stato quel disgraziato giovanotto delle
guardie che si è suicidato. Eri suo grande amico. C'è stato Lord Henry Ashton che ha dovuto lasciare l'Inghilterra con il
nome macchiato. Eravate inseparabili. E che dire di Adrian Singleton e della sua terribile fine? Che dire dell'unico figlio
di Lord Kent e della sua cameriera? Ho incontrato il padre ieri, in St. James's Street: sembrava distrutto dalla vergogna e
dal dolore. Che dire del giovane duca di Perth? Che vita conduce adesso? Qual è il gentiluomo che lo frequenterebbe?»
«Smettila, Basil. Parli di cose di cui non sai nulla,» disse Dorian Gray mordendosi le labbra e con una nota di
infinito disprezzo nella voce. «Mi chiedi come mai Berwick lascia la stanza quando entro io: perché io so tutto della sua
vita e non perché lui sa qualche cosa della mia. Con il sangue che gli scorre nelle vene, come potrebbe avere un passato
pulito? Mi chiedi di Henry Ashton e del giovane Perth. Sono stato io ad insegnare all'uno i suoi vizi e all'altro la sua
depravazione? E se quell'imbecille del figlio di Kent prende in moglie una che batte il marciapiede, che cosa c'entro io?
Se Adrian Singleton firma una cambiale con il nome di un amico, sono io il suo tutore? Le conosco le chiacchiere che si
fanno in Inghilterra. I borghesi sciorinano i loro pregiudizi morali davanti a enormi tavole imbandite e parlano a bassa
voce di quelle che chiamano le dissolutezze delle classi superiori per dimostrare di far parte della buona società e di
essere in confidenza con quelli che calunniano. In questo paese basta che un uomo sia un po' diverso e abbia una certa
intelligenza perché ogni lingua mediocre si agiti contro di lui. E che tipo di vita conducono questi che si atteggiano a
moralisti? Mio caro amico, dimentichi che qui siamo nella patria dell'ipocrisia.»
«Dorian,» esclamò Hallward, «non è questo il problema. In Inghilterra ci sono moltissime cose che non vanno
e la società inglese è completamente sbagliata. Ma proprio per questo vorrei che tu fossi diverso. E invece non lo sei
stato. Si ha il diritto di giudicare un uomo dall'influenza che esercita sugli amici. I tuoi pare abbiano perduto ogni senso
dell'onore, della bontà, della purezza. Hai instillato in loro la frenesia del piacere e loro sono caduti fino in fondo. Ce li
hai portati tu, sì, ce li hai portati tu, e tuttavia puoi sorridere come sorridi adesso. Ma c'è anche di peggio. So che tu e
Harry siete inseparabili. Non fosse che per questo, non avresti dovuto permettere che il nome di sua sorella fosse sulla
bocca di tutti.»
«Attento, Basil. Stai andando un po' troppo oltre.»
«Devo parlare e tu devi ascoltarmi e mi ascolterai. Quando hai conosciuto Lady Gwendolin, non l'aveva
sfiorata nemmeno l'ombra di uno scandalo. E, adesso c'è forse una sola donna come si deve disposta a farsi vedere in
carrozza con lei al Park? Ma se nemmeno ai suoi figli si permette di vivere con lei. Poi corrono altre voci: si dice che sei
stato visto sgusciare all'alba da case infami ed entrare travestito nelle più sozze taverne di Londra. È vero? Può essere
vero? La prima volta che le ho sentite, ne ho riso. Quando le sento adesso, mi fanno venire i brividi. E la tua casa di
campagna e quello che succede laggiù? Dorian, non sai quello che si dice sul tuo conto. Non voglio dirti che non
intendo farti una predica. Ricordo quel che Harry ha detto una volta: chiunque decida di fare per un po' il curato
dilettante, comincia sempre col dire questa frase, e subito dopo rompe la promessa. Io voglio proprio farti una predica.
Voglio che tu conduca una vita che ti permetta di essere rispettato da tutti. Voglio che il tuo nome e la tua reputazione
siano senza macchia. Voglio che ti sbarazzi della gente orribile che ti sta intorno. Non alzare le spalle in questo modo,
non essere così indifferente. Tu hai una straordinaria influenza: fa che spinga al bene e non al male. Dicono che tu
corrompa tutti coloro che divengono tuoi intimi amici e che basta che tu entri in una casa, perché ne segua qualche cosa
di vergognoso. Non so se è vero o no. Come potrei saperlo? Ma queste sono le voci che circolano sul tuo conto. Mi
hanno detto cose di cui sembra impossibile dubitare. Lord Gloucester era uno dei miei migliori amici a Oxford. Mi ha
fatto vedere una lettera che gli ha scritto sua moglie quando era in fin di vita, sola, nella sua villa di Mentone. Nella più
terribile confessione che io abbia mai letto era coinvolto il tuo nome. Gli dissi che era assurdo, che ti conoscevo a fondo
e che non saresti stato capace di cose simili. Conoscerti? Mi domando se ti conosco. Prima di poter rispondere dovrei
vedere la tua anima.»
«Vedere la mia anima!» balbettò Dorian Gray balzando in piedi bianco di paura.
«Sì,» rispose gravemente Hallward, con un tono di profonda sofferenza nella voce, «vedere la tua anima. Ma
solo Dio può farlo.»
Un'amara risata di scherno eruppe dalle labbra di Dorian Gray. «La vedrai tu stesso. Stasera!» esclamò
afferrando una lampada sul tavolo. «Andiamo: l'hanno fatta le tue mani. Perché non dovresti vederla? Dopo, se vorrai,
potrai raccontarlo a tutti. Nessuno ti crederà. E se ti credessero piacerai loro ancor di più. Conosco la nostra epoca
meglio di te, anche se tu ne vai cianciando in modo così noioso. Vieni, ti dico. Hai parlato abbastanza di corruzione:
adesso la guarderai in faccia.»
In ogni parola pronunciata c'era la follia dell'orgoglio. Pestò un piede a terra in quel suo modo insolente e
infantile. Provava una gioia terribile al pensiero che un altro avrebbe diviso il suo segreto e che l'autore del ritratto
all'origine di tutta la sua vergogna avrebbe portato per il resto della vita l'ignobile ricordo di quel che aveva fatto.
«Sì,» proseguì venendogli vicino e guardandolo fisso negli occhi severi, «ti farò vedere la mia anima. Vedrai
quello che, a tuo avviso, solo Dio può vedere.»
Hallward arretrò. «Questa è una bestemmia, Dorian!» gridò. «Non devi dire cose simili. Sono orribili e non
significano niente.»
«Lo credi davvero?» disse e rise nuovamente.
«Ne sono certo. E per quanto riguarda le cose che ti ho detto stasera, le ho dette per il tuo bene. Sai che sono
sempre stato un amico leale.»
«Non toccarmi. Finisci quel che hai da dire.»
Un lampo contorto di sofferenza passò sul viso del pittore. Tacque per un momento e un profondo senso di
pietà lo assalì. Dopotutto che diritto aveva di spiare nella vita di Dorian Gray? Se aveva commesso solo un decimo di
quello che si raccontava, quanto doveva aver sofferto! Poi si raddrizzò, si diresse verso il caminetto, e rimase immobile
a guardare i ceppi ardenti, coperti da una brina di cenere e da palpitanti cuori di fiamma.
«Sto aspettando, Basil,» disse il giovane con voce chiara e dura.
Basil si voltò. «Quel che ho da dire è questo,» esclamò. «Devi rispondere in qualche modo alle terribili accuse
che ti si fanno. Se mi dici che sono assolutamente false, dalla prima all'ultima, ti crederò. Negale, Dorian, negale! Non
vedi cosa sto passando? Mio Dio! Non dirmi che sei malvagio, corrotto, infame.»
Dorian Gray sorrise. Le labbra erano piegate in un'espressione sprezzante. «Vieni di sopra, Basil,» disse con
voce tranquilla, «tengo un diario della mia vita, giorno per giorno: non esce mai dalla stanza in cui viene scritto. Te lo
farò vedere se vieni con me.»
«Verrò, Dorian, se lo desideri. Vedo che ho perso il treno. Non importa, posso partire domani. Ma non
chiedermi di leggere nulla, stasera. Voglio solo una semplice risposta alla mia domanda.»
«Ti verrà data di sopra. Non posso dartela qui.

XIII
Uscì dalla stanza e cominciò a salire; Basil Hallward lo seguiva da vicino. Camminavano adagio, come si fa
istintivamente di notte. La lampada gettava ombre fantastiche sul muro e sulle scale. Un soffio di vento fece vibrare
rumorosamente qualche finestra.
Giunti all'ultimo pianerottolo, Dorian posò la lampada sul pavimento e, presa la chiave, la girò nella serratura.
«Vuoi proprio sapere, Basil?» domandò a bassa voce.
«Sì.»
«Ne sono felice,» assentì sorridendo. Poi aggiunse, con una certa asprezza: «Sei l'unica persona al mondo che
abbia il diritto di sapere tutto di me. Nella mia vita hai avuto un'influenza maggiore di quello che pensi.» Prese la
lampada, aprì la porta ed entrò. Una fredda corrente d'aria li investì e, per un momento, la fiamma si ridusse a una scura
lingua arancione. Rabbrividì. «Chiudi la porta,» sussurro posando la lampada sul tavolo.
Hallward si guardò intorno perplesso. La stanza sembrava abbandonata da anni. Un arazzo fiammingo, un
quadro coperto da un drappo, un vecchio cassone italiano, una libreria quasi vuota: non sembrava che ci fosse altro,
salvo un tavolo e una sedia. Mentre Dorian Gray accendeva una candela mezzo consumata posta sulla mensola del
caminetto, vide che tutto era coperto di polvere e che il tappeto era pieno di buchi. Un topo scappò con un guizzo dietro
i pannelli che rivestivano le pareti. C'era un umido odore di muffa.
«Dunque credi che solo Dio possa vedere l'anima, Basil? Togli quel drappo e vedrai la mia.»
La voce era fredda e crudele. «Sei pazzo, Dorian, oppure stai recitando,» mormorò Hallward, accigliato.
«Non vuoi? Allora lo farò io,» disse il giovane. Strappò il drappo dalla bacchetta e lo lasciò cadere sul
pavimento.
Un grido di orrore sfuggì dalle labbra del pittore appena vide, sotto la debole luce, il volto orrendo che gli
ghignava dalla tela. C'era in quell'espressione qualche cosa che lo riempiva di nausea e di disgusto. Santo cielo! Stava
guardando il volto di Dorian Gray! Qualche cosa di orrendo, qualunque ne fosse la causa, non aveva ancora
completamente distrutto la sua meravigliosa bellezza. C'era ancora dell'oro nei capelli radi e un'ombra scarlatta sulle
labbra sensuali. Gli occhi acquosi avevano mantenuto un poco del loro bel colore azzurro, le curve perfette non avevano
ancora abbandonato le narici cesellate e il collo scultoreo. Sì, era proprio Dorian. Ma chi lo aveva dipinto? Gli parve di
riconoscere la sua tecnica e anche la cornice era quella che lui aveva disegnato. L'idea era assurda, ma gli faceva
ugualmente paura. Afferrò la candela accesa e la avvicinò al quadro. Nell'angolo sinistro c'era il suo nome tracciato a
lunghe lettere di vermiglio brillante.
Era una sconcia parodia, una satira ignobile e infame. Non aveva mai fatto nulla di simile. E tuttavia il quadro
era suo. Lo riconobbe e gli parve che, in un attimo, il sangue gli si fosse tramutato da fuoco in una densa poltiglia di
ghiaccio. Il suo quadro? Che cosa significava questo? Perché si era alterato? Si voltò e fissò Dorian Gray con uno
sguardo nauseato. Le labbra gli tremavano e gli pareva che la lingua arida non riuscisse più ad articolare parola. Si
passò una mano sulla fronte: era madida di un sudore viscido.
Il giovane era appoggiato alla mensola del caminetto e lo osservava con quella strana espressione che si nota
sul viso di chi è avvinto da uno spettacolo nel momento in cui recita un grande artista. Non sembrava né vera gioia né
vero dolore: solo la passione dello spettatore e, forse, negli occhi, un bagliore di trionfo. Aveva tolto il fiore dalla giacca
e lo odorava, o fingeva di farlo.
«Che cosa significa?» gridò infine Hallward. La sua stessa voce gli suonò strana e stridula all'orecchio.
«Anni fa, quando ero ragazzo,» disse Dorian Gray, stritolando il fiore tra le dita, «mi hai incontrato, mi hai
colmato di adulazioni e mi hai insegnato a essere vanitoso della mia bellezza. Un giorno mi presentasti un amico che mi
spiegò il prodigio della giovinezza e finisti il ritratto che mi rivelò il prodigio della bellezza. In un momento di follia,
che persino ora non so se rimpiangere o meno, espressi un desiderio; forse tu lo chiameresti una preghiera...»
«Ricordo! Oh, come me ne ricordo bene! No! È impossibile. La stanza è umida, la muffa ha aggredito la tela. I
colori che ho usato contenevano qualche disgraziata sostanza velenosa. Ti dico che è impossibile.»
«Ah, che cosa è impossibile?» mormorò il giovane, andando alla finestra e appoggiando la fronte al vetro
appannato.
«Mi hai detto che lo avevi distrutto.»
«Sbagliavo: ha distrutto me.»
«Non credo che sia il mio quadro.»
«Non riesci a vederci il tuo ideale?» disse Dorian con voce amara.
«Il mio ideale, come tu lo chiami...»
«Come tu lo chiamavi.»
«Non aveva in sé nulla di malvagio, nulla di vergognoso. Tu per me rappresentavi un ideale che non troverò
mai più. Questo è il volto di un satiro.»
«È il volto della mia anima.»
«Cristo! Che cosa devo avere adorato! Ha gli occhi di Un demonio.»
«In ciascuno di noi, sono presenti l'inferno e il paradiso, Basil,» esclamò Dorian con un gesto incontrollato di
disperazione.
Hallward si voltò di nuovo verso il quadro e lo esaminò. «Mio Dio, se tutto questo è vero,» esclamò, «e se
questo è ciò che hai fatto della tua vita, allora devi essere anche peggiore di quel che immagina chi parla male di te!»
Sollevò ancora la candela, avvicinandola alla tela, ed esaminò il dipinto. La superficie pareva intatta, come quando
l'aveva finita. Evidentemente quella vergogna e quell'orrore venivano dall'interno. Per un singolare moto di vita
interiore la lebbra del peccato stava lentamente mangiandosi il quadro. La putrefazione di un cadavere in una tomba
piena d'acqua non era così spaventosa.
La mano gli tremò, la candela cadde dal bocciolo arrestandosi sul pavimento con un crepitio. Hallward la
premette sotto il piede e la spense. Poi si lasciò cadere nella sedia traballante accanto al tavolo e seppellì il viso tra le
mani.
«Buon Dio, Dorian, che lezione! Che tremenda lezione!» Non ottenne risposta, ma sentiva il giovane
singhiozzare accanto alla finestra. «Prega, Dorian, prega,» mormorò. «Che cosa ci hanno insegnato a dire durante
l'infanzia? "Non indurci in tentazione, perdona le nostre colpe e liberaci dal male." Ripetiamolo insieme. La preghiera
del tuo orgoglio è stata ascoltata. Sarà ascoltata anche la preghiera del tuo pentimento. Ti ho adorato troppo, e tutti e
due siamo stati puniti.»
Dorian Gray si voltò lentamente e lo guardò con occhi bagnati di lacrime. «È troppo tardi, Basil,» disse
balbettando.
«Non è mai troppo tardi, Dorian. Inginocchiamoci e cerchiamo di ricordare una preghiera. Non c'è un verso
che dice, "anche se i tuoi peccati sono scarlatti, io li renderò bianchi come neve"?»
«Queste parole non significano più nulla per me.»
«Zitto! Non dire queste cose. Hai fatto abbastanza male nella vita. Mio Dio! Non vedi quella maledetta cosa
che ci guarda?»
Dorian Gray lanciò un'occhiata al quadro e improvvisamente fu assalito da un incontrollabile sentimento di
odio nei confronti di Basil Hallward, come se glielo avesse suggerito l'immagine sulla tela, come se glielo avessero
sussurrato quelle labbra ghignanti. Sentì agitarsi dentro di sé la selvaggia emozione di un animale inseguito e odiò
l'uomo seduto al tavolo come non aveva mai odiato nessuno. Si guardò intorno con una luce selvaggia nello sguardo.
Qualche cosa riluceva sul cassettone dipinto che aveva di fronte. L'occhio vi cadde sopra. Sapeva che cosa era. Era un
coltello che, qualche giorno prima, aveva preso con sé per tagliare un pezzo di spago, dimenticando poi di riportarlo via.
Vi si avvicinò lentamente, passando accanto a Basil. Appena fu giunto alle sue spalle, lo afferrò e si voltò. Hallward si
mosse sulla sedia come se volesse alzarsi. Dorian Gray si precipitò su di lui e piantò il coltello nella grossa vena dietro
l'orecchio, premendogli la testa sul tavolo e colpendolo ancora ripetutamente.
Si udì un rantolo soffocato e l'orribile gorgoglio di un uomo che soffoca nel sangue. Per tre volte Hallward alzò
le braccia tese, agitando grottescamente le mani irrigidite. Lo colpì altre due volte, ma l'uomo non si mosse. Qualche
cosa cominciò a gocciolare sul pavimento. Attese un momento sempre tenendo la testa premuta sul tavolo. Poi gettò il
coltello sul tavolo e ascoltò.
Sentiva solo lo stillicidio del sangue sul tappeto logoro. Aprì la porta e uscì sul pianerottolo. La casa era del
tutto tranquilla. Non si sentiva nessuno. Rimase qualche secondo chino sulla balaustra scrutando nel nero pozzo di
oscurità ribollente. Poi tolse la chiave dalla serratura, ritornò nella stanza e vi si chiuse.
La cosa era sempre seduta sulla sedia, distesa sul tavolo a testa china, la schiena curva e le lunghe braccia
irreali. Se non fosse stato per lo squarcio rosso e slabbrato sul collo e per la chiazza nera e grumosa che si allargava
lentamente sul tavolo, si sarebbe detto che l'uomo dormisse semplicemente.
Come era successo tutto in fretta! Si sentiva stranamente calmo e, avvicinatosi alla finestra, la aprì e uscì sul
balcone. Il vento aveva disperso la nebbia e il cielo era simile a un'enorme coda di pavone, costellata da miriadi di occhi
d'oro. Guardò in basso e vide il poliziotto di ronda dirigere il lungo raggio della lanterna sulle porte delle case
silenziose. La macchia cremisi di una carrozza in cerca di clienti luccicò all'angolo, poi scomparve. Una donna avvolta
in uno scialle svolazzante scivolava lentamente, barcollando, vicino alla cancellata; ogni tanto si fermava e si guardava
alle spalle. Poi cominciò a cantare con voce rauca. Il poliziotto le si avvicinò e le disse qualche cosa. Lei si allontanò a
passi incerti, ridendo. Una fredda folata di vento spazzò la piazza. Le fiamme dei lampioni a gas tremolarono e
assunsero un colore blu, gli alberi spogli agitarono i rami di nero acciaio. Rientrò rabbrividendo e chiuse la finestra
dietro di sé.
Giunto alla porta, girò la chiave e aprì. Non lanciò neppure un'occhiata all'uomo assassinato. Sentiva che il
segreto stava nel non rendersi conto della situazione L'amico, che aveva dipinto quel fatale ritratto responsabile di tutte
le sue miserie era uscito dalla sua vita. Questo bastava.
Poi ricordò la lampada. Era un singolare esempio di artigianato moresco, in argento massiccio intarsiato con
arabeschi di acciaio brunito e tempestato di turchesi grezze. Forse il cameriere ne avrebbe notato la mancanza e avrebbe
fatto delle domande. Esitò un attimo, poi tornò indietro e la prese dal tavolo. Non poté fare a meno di vedere la cosa
morta. Com'era immobile! E quelle lunghe mani orribilmente pallide! Assomigliava ad una spaventosa figura di cera.
Dopo aver chiuso la porta alle sue spalle, scese cautamente. Il legno scricchiolava e pareva emettere gemiti di
sofferenza. Si fermò diverse volte e attese. No: tutto era tranquillo. Era solo il rumore dei suoi passi.
Quando fu nella biblioteca, vide in un angolo la borsa ed il soprabito. Bisognava nasconderli. Aprì un
ripostiglio segreto nel rivestimento a pannelli, dove teneva nascosti i suoi strani travestimenti, e li ripose. Poi estrasse
l'orologio: erano le due meno venti.
Sedette e cominciò a pensare. Tutti gli anni, quasi ogni mese, in Inghilterra venivano impiccati uomini per
avere commesso quello che lui aveva fatto. Era passata nell'aria una follia omicida? Forse qualche stella rossa era
passata troppo vicino alla terra... E tuttavia quali erano le prove contro di lui? Basil Hallward aveva lasciato la casa alle
undici. Nessuno lo aveva visto rientrare. Quasi tutti i domestici erano a Selby Royal. Il suo cameriere era andato a
letto... Parigi! Sì, Basil era andato a Parigi con il treno di mezzanotte, come aveva deciso. Con le sue strane abitudini
riservate, sarebbero passati mesi prima che nascessero sospetti. Mesi! Era possibile distruggere tutto molto prima.
Un'idea improvvisa lo colpì. Indossò la pelliccia e il cappello e uscì nel vestibolo. Qui si fermò, sentendo il
passo lento e pesante del poliziotto sul lastricato all'esterno e vedendo il raggio della lanterna cieca riflettersi nelle
finestre. Attese trattenendo il respiro.
Pochi momenti dopo, aprì il chiavistello e scivolò fuori chiudendo delicatamente la porta alle sue spalle. Poi
cominciò a suonare il campanello. Circa cinque minuti dopo il suo cameriere apparve, semivestito e molto assonnato.
«Mi dispiace di averti fatto alzare, Francis,» disse, entrando, «ma ho dimenticato la chiave. Che ora è?»
«Le due e dieci, signore,» rispose il cameriere, guardando l'orologio e socchiudendo gli occhi.
«Le due e dieci. È terribilmente tardi. Devi svegliarmi domani alle nove. Ho alcune cose da fare.»
«Benissimo, signore.»
«Mi ha cercato qualcuno, questa sera?»
«Il signor Hallward, signore. È rimasto qui fino alle undici, poi è andato a prendere il treno.»
«Oh, mi dispiace di non averlo visto. Ha lasciato detto qualche cosa?»
«No, signore, solo che le avrebbe scritto da Parigi se non l'avesse trovata al club.»
«Va bene, Francis. Non dimenticare di svegliarmi alle nove.»
«No, signore»
L'uomo si allontanò lungo il corridoio ciabattando.
Dorian Gray gettò sul tavolo pelliccia e cappello ed entrò in biblioteca. Per un quarto d'ora camminò avanti e
indietro nella stanza, mordendosi le labbra e riflettendo. Poi da uno degli scaffali prese il libro azzurro e cominciò a
sfogliarlo. «Alan Campbell, 152 Hertford Street, Mayfair». Sì, questo era l'uomo di cui aveva bisogno.

XIV
Il mattino dopo, alle nove, il cameriere entrò con una tazza di cioccolata su un vassoio e aprì le imposte.
Dorian dormiva pacificamente sul fianco destro, con una mano sotto la guancia. Sembrava un ragazzo che si fosse
stancato giocando o studiando.
Il cameriere dovette toccarlo due volte sulla spalla prima che si svegliasse. Mentre apriva gli occhi, un debole
sorriso gli sfiorò le labbra, come se si fosse smarrito in un sogno delizioso. In realtà non aveva sognato affatto. La notte
non era stata turbata da immagini di piacere o di dolore. Ma la gioventù sorride senza motivo: è una delle sue principali
attrattive.
Si voltò e, appoggiandosi sul gomito, cominciò a sorseggiare la cioccolata. Il dolce sole di novembre inondava
la stanza. Il cielo era limpido e nell'aria c'era un piacevole tepore. Pareva quasi un mattino di maggio.
Un poco alla volta gli eventi della notte precedente si insinuarono nella sua mente con piedi bagnati di sangue
e, pezzo a pezzo, ripresero forma, terribilmente precisi. Trasalì, ricordando quanto aveva sofferto, e per un momento
tornò in lui quello strano sentimento di odio per Basil Hallward che lo aveva spinto a ucciderlo mentre era là seduto. Si
sentì raggelare dall'emozione. Il morto era ancora là, sulla sedia, nella luce del sole. Che cosa orribile! Queste orribili
cose erano fatte per la notte, non per il giorno.
Sentì che, se avesse continuato a rimuginare su quello che aveva passato, si sarebbe sentito male o sarebbe
impazzito. Vi sono peccati il cui fascino sta più nel ricordo che nell'atto; strane vittorie che gratificano più l'orgoglio che
le passioni e che danno all'intelletto un più vivo senso di piacere, superiore a qualunque piacere esse diano, o possano
dare, ai sensi. Ma questo era diverso, era una cosa da scacciare dalla mente, da addormentare con l'oppio, da soffocare
per non venirne soffocati.
Quando batté la mezza, si passò una mano sulla fronte, si alzò in fretta e si vestì con più cura del solito,
scegliendo con molta attenzione la cravatta e la spilla e cambiando più volte gli anelli. Indugiò anche sulla colazione,
assaggiando i vari piatti, parlando con il cameriere di certe nuove livree che intendeva far fare per la servitù di Selby e
scorrendo la corrispondenza. Alcune lettere lo fecero sorridere, tre lo annoiarono, una la rilesse diverse volte e infine la
strappò con una leggera espressione di fastidio. «Che cosa incredibile, la memoria di una donna!» come aveva detto una
volta Lord Henry.
Dopo aver bevuto una tazza di caffè nero, si asciugò lentamente le labbra con un tovagliolo, ordinò con un
cenno al cameriere di attendere, sedette alla scrivania e scrisse due lettere. Una la infilò in tasca, l'altra la consegnò al
cameriere.
«Francis, portala al 152 di Hertford Street e, se il signor Campbell è fuori città, fatti dare il suo indirizzo.»
Rimasto solo, accese una sigaretta e cominciò a fare degli schizzi su un foglio di carta, disegnando prima fiori,
poi particolari architettonici, infine volti umani. Improvvisamente notò che ogni volto disegnato pareva avere
un'incredibile rassomiglianza con Basil Hallward. Si accigliò e, alzatosi, si avvicinò a uno scaffale dove prese un libro a
caso. Era deciso a non pensare all'accaduto finché non fosse assolutamente necessario.
Dopo essersi sdraiato sul divano, guardò il titolo del libro. Erano gli Émaux et Camées di Gauthier,
nell'edizione Charpentier in carta giapponese con le acqueforti di Jacquemart. Era rilegato in pelle verde limone, con
impresso un motivo di losanghe in oro e di melograni. Glielo aveva regalato Adrian Singleton. Mentre lo sfogliava,
l'occhio gli cadde sulla poesia che parla della mano di Lacenaire, la fredda mano gialla «du supplice encore mal lavée»,
con la liscia peluria rossa e le «doigts de faune». Si guardò le bianche dita affusolate e, suo malgrado, rabbrividì. Passò
oltre finché giunse a queste belle strofe su Venezia:
Sur une gamme chromatique
Le sein de perles ruisselant,
La Vénus de l'Adriatique,
Sort de l'eau son corps rose et blanc.
Les dômes, sur l'azur des ondes
Suivant la phrase au pur contour,
S'enflent comme des gorges rondes
Que soulève un soupir d'amour.
L'esquif aborde et me dépose
Jetant son amarre au pilier,
Devant une façade rose,
Sur le marbre d'un escalier.
Che versi squisiti! Leggendoli pareva di navigare lungo i verdi canali della città di rosa e di perla, seduti in una
nera gondola dalla prua d'argento e dalle cortine fluttuanti. I singoli versi gli ricordavano quelle linee rette azzurro
turchesi che ci seguono quando si prende il largo in direzione del Lido. Gli improvvisi lampi di colore gli ricordavano lo
splendore degli uccelli dalla gola color dell'opale e dell'iris che frullano intorno all'alto campanile a forma di alveare, o
che camminano con grazia così maestosa sotto gli archi scuri e polverosi. Disteso a occhi socchiusi, continuava a
ripetere tra sé:
Devant une façade rose,
Sur le marbre d'un escalier.
Tutta Venezia era in questi due versi. Ricordò l'autunno che vi aveva passato e un amore meraviglioso che lo
aveva spinto ad appassionate, deliziose follie. Lo spirito romantico si trova ovunque, ma Venezia, come Oxford, aveva
conservato lo scenario, e per un romantico lo scenario è tutto, o quasi tutto. Basil era stato con lui per, un po' di tempo
ed era impazzito per il Tintoretto. Povero Basil! Che morte orribile, la sua!
Sospirò, riprese in mano il libro e cercò di dimenticare. Lesse delle rondini che volano dentro e fuori dal
piccolo caffè di Smirne, dove gli Hagi siedono sgranando i loro rosari di ambra e i mercanti in turbante fumano le
lunghe pipe infiocchettate e parlano gravemente tra loro; lesse dell'obelisco di Place de la Concorde che piange lacrime
di granito nel suo esilio solitario e senza sole e desidera ritornare sul caldo Nilo coperto di loto dove sono le sfingi, gli
ibis rosso rosati, i bianchi avvoltoi dagli artigli d'oro e i coccodrilli dai piccoli occhi di berillo che strisciano sul verde
fango fumante; cominciò a meditare su quei versi che, traendo musica dal marmo consunto dai baci, parlano della
singolare statua da Gauthier paragonata a una voce di contralto: il «monstre charmant» che riposa nella camera di
porfido del Louvre. Ma dopo un poco il libro gli cadde dalle mani. Si innervosì e fu colto da un tremendo accesso di
terrore. Che cosa sarebbe successo se Alan Campbell non fosse stato in Inghilterra? Sarebbero trascorsi giorni prima
che potesse ritornare. Forse avrebbe rifiutato di venire. Che cosa avrebbe potuto fare in questo caso? Ogni istante era di
importanza vitale. Un tempo, cinque anni prima, erano stati grandi amici, quasi inseparabili. Poi la loro intimità era
improvvisamente finita. Quando si incontravano in società solo Dorian Gray sorrideva: Alan Campbell mai.
Era un giovane estremamente intelligente, anche se non apprezzava veramente le arti figurative e quel poco di
sensibilità estetica per la poesia lo aveva preso tutto da Dorian. La passione intellettuale che lo dominava era la scienza.
A Cambridge, aveva trascorso la maggior parte del tempo nel lavoro di laboratorio e aveva ricevuto un ottimo
punteggio nel concorso di scienze naturali del suo anno. Lo studio della chimica l'interessava ancora, e aveva un suo
laboratorio nel quale era solito chiudersi per tutta la giornata con grande dispiacere della madre che sarebbe stata felice
di vederlo presentarsi candidato al Parlamento e aveva la vaga idea che i chimici fossero una specie di farmacisti.
Tuttavia, era anche un eccellente musicista e suonava il piano e il violino meglio di molti dilettanti. Proprio la musica li
aveva avvicinati: la musica e quell'indefinibile attrazione che Dorian sembrava capace di esercitare quando voleva, e
che infatti esercitava, spesso senza saperlo. Si erano incontrati da Lady Berkshire la sera in cui aveva suonato
Rubinstein e da allora si erano visti sempre insieme all'Opera o ovunque si desse buona musica. La loro intimità era
durata diciotto mesi. Campbell era sempre a Selby Royal o a Grosvenor Square. Per lui, come per altri, Dorian Gray era
il modello di tutto ciò che vi è di meraviglioso e di affascinante nella vita. Nessuno seppe mai se tra loro fosse sorto un
litigio o meno ma, improvvisamente, la gente cominciò a notare che, quando si incontravano, si parlavano appena e che
Campbell pareva abbandonare presto ogni party in cui era presente Dorian Gray. Inoltre era cambiato: a volte era
stranamente malinconico, sembrava quasi che non gli piacesse più ascoltare la musica. Non suonava più: quando lo
pregavano di farlo si scusava dicendo che la scienza lo assorbiva a un punto tale che non aveva più tempo per tenersi in
esercizio. Ed era certamente vero: sembrava interessarsi sempre di più alla biologia e qualche volta il suo nome
appariva su riviste scientifiche a proposito di strani esperimenti.
Questo era l'uomo che Dorian Gray attendeva Ogni momento consultava l'orologio. Man mano che i minuti
passavano la sua agitazione aumentava terribilmente. Alla fine si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro per la
stanza, come un bell'animale in gabbia. Camminava a passi lunghi e furtivi, le mani erano stranamente fredde.
L'attesa divenne insopportabile. Aveva l'impressione che il tempo avanzasse con i piedi di piombo, mentre ali
mostruose lo sospingevano verso il bordo irregolare di una buia fenditura o di una voragine. Sapeva che cosa lo
aspettava, anzi lo vedeva, e scosso da un tremito premette le mani sudate sulle palpebre ardenti, come se volesse rubare
la vista alla sua stessa mente e schiacciare i bulbi oculari nelle orbite. Era inutile. La mente aveva un suo alimento che
divorava avidamente e l'immaginazione, resa grottesca dal terrore, aggrovigliata e contorta come una creatura viva
sofferente, danzava come un assurdo burattino con il ghigno di una maschera greca. Poi, improvvisamente, il tempo si
fermò. Sì: quella cosa cieca, dal lento respiro, non strisciava più, era morta e gli orrendi pensieri corsero turbinando
dinanzi a lui, estrassero dal suo sepolcro un futuro spaventoso e glielo mostrarono. Egli guardò e impietrì dall'orrore.
Finalmente la porta si aprì ed entrò il cameriere. Dorian portò su di lui uno sguardo vitreo.
«Il signor Campbell, signore,» annunciò l'uomo.
Un sospiro di sollievo gli uscì dalle labbra secche e le guance ripresero colore.
«Fallo entrare subito, Francis.» Si sentiva nuovamente se stesso: la crisi di paura era superata.
L'uomo fece un inchino e si ritirò. Pochi momenti dopo entrò Alan Campbell, pallido e con un'espressione di
estrema severità. I capelli neri come il carbone e le sopracciglia scure ne accentuavano il pallore.
«Alan, sei stato molto gentile. Grazie per essere venuto.»
«Avevo deciso di non entrare più in casa sua, Gray. Ma lei mi ha fatto dire che si trattava di una questione di
vita o di morte.» La voce era dura e fredda. Parlava lentamente, con decisione. Nel freddo sguardo indagatore che
rivolse a Dorian Gray c'era un'espressione di disprezzo. Teneva le mani nelle tasche del cappotto di astrakan e sembrava
non aver notato il gesto con cui era stato accolto.
«Sì, è una questione di vita o di morte, Alan, e per più di una persona. Siediti.»
Campbell prese la sedia accanto alla tavola e Dorian sedette di fronte a lui. I loro occhi si incontrarono. In
quelli di Dorian c'era un'infinità pietà. Sapeva che quello che stava per fare era spaventoso.
Dopo un prolungato silenzio, si chinò sul tavolo e disse, con molta tranquillità ma osservando l'effetto di ogni
parola sul viso dell'uomo che aveva mandato a chiamare: «Alan, in una stanza chiusa, all'ultimo piano di questa casa,
una stanza nella quale solo io posso entrare, c'è un morto seduto ad un tavolo. È morto da dieci ore, ormai. Non agitarti
e non guardarmi in quel modo. Chi sia l'uomo, perché è morto, come è morto, non sono cose che ti interessano. Quello
che tu devi fare è...»
«Basta, Gray. Non voglio sapere nient'altro. Se quello che lei ha detto è vero o no, non è cosa che mi riguarda.
Rifiuto assolutamente di immischiarmi nella sua vita. Tenga per lei i suoi orribili segreti. Non mi interessano più.»
«Devono interessarti, Alan. Questo dovrà interessarti. Sono terribilmente spiacente per te, Alan, ma non posso
farne a meno: sei l'unico in grado di salvarmi. Sono costretto a coinvolgerti in questa faccenda, non ho scelta. Alan, tu
sei uno scienziato, conosci la chimica e roba simile. Hai fatto esperimenti. Quel che devi fare è semplicemente
distruggere la cosa che c'è di sopra, distruggerla in modo che non ne rimanga traccia. Nessuno l'ha visto entrare in
questa casa. Anzi, in questo momento si pensa che sia a Parigi. La sua mancanza non verrà notata per mesi. Quando se
ne accorgeranno, bisogna che qui non si trovi nessuna traccia di lui. Tu, Alan, devi trasformare lui e tutto ciò che gli
appartiene in un pugno di cenere che io possa disperdere nell'aria.»
«Sei pazzo, Dorian.»
«Ah! Aspettavo che mi dessi del tu.»
«Sei pazzo, ti dico... pazzo a immaginare che avrei sollevato un dito per aiutarti, pazzo a farmi questa
mostruosa confessione. Non voglio aver nulla a che fare con questa faccenda, qualunque sia. Credi che voglia mettere in
pericolo la mia reputazione per te? Che cosa mi importa di questa diabolica faccenda in cui ti sei cacciato?»
«È stato un suicidio, Alan.»
«Me ne rallegro. Ma chi lo ha spinto a questo? Tu, immagino.»
«Insisti nel rifiutare di fare quel che ti ho chiesto ?»
«Certo che rifiuto. Non voglio averci assolutamente nulla a che fare. Non mi importa nulla della vergogna che
può venirtene. Te la meriti tutta. Non mi dispiacerebbe vederti disonorato, pubblicamente disonorato. Come osi
chiedere a me, proprio a me, di immischiarmi in questa orribile cosa? Pensavo che tu conoscessi meglio il carattere
umano. Il tuo amico Lord Henry Wotton non deve averti insegnato molto in fatto di psicologia, qualunque altro cosa
possa averti insegnato. Nulla mi indurrà ad accennare un passo per aiutarti. Non hai scelto la persona adatta. Va' da
qualcuno dei tuoi amici, non venire da me.»
«Alan, è stato un assassinio. L'ho ucciso. Non immagini che cosa mi ha fatto soffrire. Quale che sia la mia vita,
la sua responsabilità, nel farla o nel rovinarla, è stata molto maggiore di quella del povero Harry. Può darsi che non lo
abbia voluto, ma il risultato è stato lo stesso.»
«Un assassinio! Buon Dio, Dorian, sei arrivato a questo? Non ti denuncerò, la cosa non mi riguarda. Del resto,
se non mi occupassi di questa faccenda ti arresterebbero certamente: nessuno commette un delitto senza fare qualche
stupidaggine, ma io non voglio averci nulla a che fare.»
«Devi averci a che fare. Aspetta un momento; ascoltami. Ascolta soltanto, Alan. Ti chiedo solo di compiere un
certo esperimento scientifico. Tu entri negli ospedali e negli obitori e le cose orribili che fai là dentro non ti fanno
nessun effetto. Se in qualche ripugnante sala di dissezione o in qualche fetido laboratorio, trovassi quest'uomo disteso
su un tavolo di piombo con intorno dei canaletti rossi per far scorrere il sangue, ti limiteresti a ritenerlo un esemplare
interessante. Non batteresti ciglio. Non penseresti affatto di fare qualche cosa di male. Al contrario, probabilmente
avresti l'impressione di giovare alla specie umana, di aumentare la conoscenza del mondo, di gratificare la tua curiosità
intellettuale, o qualche cosa di simile. Io ti chiedo solo di fare una cosa che hai fatto molte altre volte. Distruggere un
cadavere deve essere molto meno orribile delle cose che sei solito fare. E, ricorda, è l'unica prova esistente contro di me.
Se la scoprono, sono perduto, e verrò certamente scoperto se non mi aiuti.»
«Non ho nessuna voglia di aiutarti, dimentichi questo. Tutta questa storia mi lascia semplicemente indifferente.
Non mi riguarda affatto.»
«Alan, ti supplico. Pensa alla situazione in cui mi trovo. Fino a un attimo prima che tu venissi, ero quasi
svenuto di terrore. Un giorno potresti trovarti anche tu nella stessa situazione. No! Non pensare a questo. Cerca di
vedere la cosa sotto l'aspetto puramente scientifico. Non ti chiedi da dove provengano i morti sui quali compi i tuoi
esperimenti. Non domandartelo nemmeno ora. Ti ho già detto anche troppo. Ma ti prego di farlo. Una volta eravamo
amici, Alan.»
«Non parlare di quei tempi, Dorian: sono morti.»
«A volte i morti se ne vanno in giro. L'uomo di sopra non se ne andrà. È seduto al tavolo con la testa reclinata e
le braccia distese. Alan, Alan, se non mi vieni in aiuto sono rovinato. Pensa, mi impiccheranno, Alan! Non capisci? Mi
impiccheranno per quel che ho fatto.»
«È inutile tirare in lungo questa scena. Rifiuto assolutamente di occuparmi di questa faccenda. È pazzesco che
tu me lo chieda.»
«Ti rifiuti?»
«Sì.»
«Te ne supplico, Alan.»
«È inutile.»
La stessa espressione di pietà ritornò negli occhi di Dorian Gray. Quindi allungò una mano, prese un pezzo di
carta e vi scrisse qualche cosa. Lo lesse due volte, lo piegò con cura e lo spinse attraverso la tavola. Fatto questo, si alzò
e andò alla finestra.
Campbell lo guardò sorpreso, poi prese il foglio e lo aprì. Mentre lo leggeva, sul volto gli apparve un pallore
mortale. Ricadde a sedere e fu sopraffatto da un orribile senso di nausea. Aveva l'impressione che il cuore pulsasse fino
a scoppiare in una vuota cavità.
Dopo un paio di minuti di terribile silenzio, Dorian si volse, gli si avvicinò e si fermò dietro di lui posandogli
una mano sulla spalla.
«Mi dispiace moltissimo per te, Alan,» mormorò, «ma non mi hai lasciato altra scelta. Ho già scritto una
lettera: eccola. L'indirizzo lo vedi. Se non mi aiuti», sarò costretto a spedirla. Sai quali saranno le conseguenze. Ma tu
mi aiuterai. Non puoi rifiutare, adesso. Ho cercato di risparmiarti. Sarai tanto onesto da ammetterlo. Sei stato severo,
aspro, offensivo. Mi hai trattato come nessuno ha mai osato trattarmi... nessuno che sia vivo, almeno. Ho sopportato
tutto. Adesso sono io a dettare le condizioni.»
Campbell seppellì il volto tra le mani, scosso da un brivido.
«Sì, sono io a dettare le condizioni, Alan. Sai quali sono. La cosa è semplicissima. Avanti, non perdere il
controllo dei nervi. La cosa deve essere fatta. Affrontala e falla.»
Un gemito sfuggì dalle labbra di Campbell; un tremito lo scuoteva tutto. Il ticchettio dell'orologio sulla
mensola del caminetto gli pareva dividesse il tempo in atomi separati di sofferenza, ognuno troppo spaventoso per
essere sopportato. Gli parve che un anello di ferro gli si stringesse lentamente intorno alla fronte, come se la disgrazia
che lo minacciava fosse già avvenuta. La mano sulla spalla pesava come se fosse di piombo. Era insostenibile,
sembrava schiacciarlo.
«Avanti, Alan, devi decidere immediatamente.»
«Non posso farlo,» disse meccanicamente, come se le parole potessero modificare le cose.
«Devi. Non hai scelta. Non perdere tempo.»
Campbell esitò un momento. «C'è del fuoco nella stanza?»
«Sì, una stufa a gas con il corpo di amianto.»
«Devo andare a casa a prendere alcune cose in laboratorio.»
«No, Alan, non devi lasciare questa casa. Scrivi su un foglio quello che ti occorre e il mio servo prenderà una
carrozza e lo porterà qui.»
Campbell scarabocchiò alcune righe, le asciugò con la carta assorbente e scrisse su una busta l'indirizzo del suo
assistente. Dorian Gray prese il biglietto e lo lesse con attenzione. Poi suonò il campanello, consegnò la busta al
cameriere, ordinandogli di tornare il più presto possibile, e di portare le cose con sé.
Quando la porta di casa si chiuse, Campbell ebbe uno scatto e, alzatosi, si diresse verso il caminetto. Tremava
come se avesse un attacco di malaria. Per circa venti minuti nessuno dei due pronunciò parola. Una mosca ronzava
fastidiosamente nella stanza e i battiti dell'orologio sembravano colpi di martello.
Quando la pendola suonò l'una, Campbell si voltò e, lanciando un'occhiata a Dorian Gray, vide che aveva gli
occhi pieni di lacrime. Nella purezza e nella perfezione di quel volto triste c'era qualche cosa che lo fece arrabbiare.
«Sei infame, assolutamente infame!» mormorò.
«Zitto, Alan: mi hai salvato la vita,» disse Dorian.
«La vita? Santo cielo! Che razza di vita! Sei passato di corruzione in corruzione, e adesso culmini in un delitto.
Facendo quel che stai per fare - che mi costringi a fare - non è alla tua vita che penso.»
«Ah, Alan,» mormorò Dorian con un sospiro, «vorrei che tu provassi per me un millesimo della pietà che io
provo per te.» Mentre pronunciava queste parole si voltò e rimase immobile, guardando fuori, nel giardino. Campbell
non rispose.
Dopo circa dieci minuti si sentì bussare alla porta ed entrò il cameriere con una grande cassa di mogano piena
di prodotti chimici, una lunga serpentina di acciaio, un rotolo di filo di platino e due morsetti di ferro di forma insolita.
«Devo lasciare tutto qui, signore?» domandò a Campbell.
«Sì,» disse Dorian. «E temo di avere un'altra incombenza per te, Francis. Come si chiama quell'uomo di
Richmond che fornisce le orchidee a Selby?»
«Harden, signore.»
«Già, Harden. Devi andare subito a Richmond, parlargli personalmente, dirgli di mandare il doppio delle
orchidee che ho ordinato, e di metterne il meno possibile di bianche. Anzi, di bianche non ne voglio. È una bella
giornata, Francis, e Richmond è un bel posto, altrimenti non ti infastidirei con questa cosa.»
«Nessun fastidio, signore. Per che ora devo tornare?»
Dorian guardò Campbell. «Quanto tempo ci vorrà per il tuo esperimento, Alan?» domandò con voce calma e
indifferente. La presenza di una terza persona nella stanza sembrava dargli un coraggio straordinario.
Campbell aggrottò le sopracciglia e si morse un labbro. «Ci vorranno cinque ore circa,» rispose.
«Allora, sarà sufficiente che tu sia di ritorno per le sette e mezzo, Francis. Anzi, aspetta: basta che tu tiri fuori il
mio vestito da sera, poi sarai libero per tutta la serata. Non ceno a casa, quindi non avrò bisogno di te.»
«Grazie, signore,» disse l'uomo e uscì.
«Adesso, Alan, non c'è un momento da perdere. Com'è pesante questa cassa! Te la porto io. Tu prendi le altre
cose.» Parlava rapidamente, in tono autoritario. Campbell si sentiva soggiogato. Lasciarono insieme la stanza.
Quando furono giunti sul pianerottolo dell'ultimo piano, Dorian levò di tasca la chiave e la girò nella toppa. Poi
si fermò e un'espressione turbata gli apparve negli occhi. Rabbrividì. «Non credo di poter entrare, Alan,» mormorò.
«Non importa, non ho bisogno di te,» disse Campbell freddamente.
Dorian socchiuse la porta. Nel farlo vide il viso ghignante del ritratto nella luce del sole. Sul pavimento,
davanti ad esso, era ammucchiato il drappo che aveva strappato. Ricordò che la notte precedente, per la prima volta in
vita sua, aveva dimenticato di nascondere la tela fatale. Stava per precipitarsi a farlo quando arretrò con un brivido.
Che cos'era quella disgustosa rugiada rossa che brillava, umida e lucente, su una delle mani, come se la tela
sudasse sangue? Com'era terribile!... ancor più orribile, gli sembrò in quel momento, della cosa silenziosa che sapeva
riversa sulla tavola, quella cosa la cui ombra, grottesca e informe sul tappeto macchiato, mostrava che non si era mossa
ma era ancora lì, come l'aveva lasciata.
Trasse un profondo respiro, aprì un poco di più la porta e, con gli occhi semichiusi, distogliendo il viso, entrò
rapidamente deciso a non posare nemmeno per un attimo gli occhi sul cadavere. Poi, chinatosi, afferrò il drappo e lo
gettò sul quadro.
Si fermò, timoroso di voltarsi, con gli occhi fissi sul complicato ricamo che aveva davanti. Sentì Campbell
trascinare all'interno la pesante cassa, i ferri e gli altri strumenti necessari per il suo terribile lavoro. Cominciò a
chiedersi se lui e Basil Hallward si fossero mai conosciuti e che cosa pensassero l'uno dell'altro.
«Adesso lasciami,» disse una voce severa alle sue spalle. Si voltò e uscì in fretta, appena consapevole del fatto
che il morto era stato rialzato contro la sedia e che Campbell stava esaminandone il volto giallo e lucente. Mentre
scendeva le scale sentì girare la chiave nella toppa.
Le sette erano passate da un pezzo quando Campbell ritornò in biblioteca. Era pallido, ma perfettamente calmo.
«Ho fatto quello che mi hai chiesto,» mormorò. «E adesso, addio. Facciamo in modo di non vederci più.»
«Mi hai salvato dalla rovina, Alan. Non me ne dimenticherò,» disse Dorian, semplicemente.
Appena Campbell fu uscito, salì di sopra. Nella stanza c'era un orribile odore di acido nitrico. Ma la cosa che
era stata seduta al tavolo era scomparsa.

XV
Quella sera, alle otto e mezzo, Dorian Gray, elegantissimo e con un mazzetto di violette di Parma all'occhiello,
entrò nel salotto di Lady Narborough tra gli inchini dei camerieri. Sulla fronte sentiva sussultare, i nervi impazziti e si
sentiva in preda a un'eccitazione selvaggia, Ma mentre si chinava sulla mano della sua ospite, i suoi modi erano come
sempre sciolti e pieni di grazia. Forse non ci si sente mai a proprio agio come quando si recita una parte. Certo quella
sera nessuno, guardando Dorian Gray, avrebbe potuto credere che era appena uscito da una tragedia orribile, come tutte
le tragedie del nostro tempo. Non era possibile che quelle dita sottili avessero afferrato un coltello per commettere un
delitto, né che quelle labbra sorridenti avessero bestemmiato contro Dio e contro la bontà. Lui stesso non poteva fare a
meno di meravigliarsi della propria calma e per un momento provò acutamente il piacere di vivere una doppia vita.
Al party c'era poca gente, messa insieme in fretta da Lady Narborough, una donna molto intelligente, dotata di
quelli che Lord Henry era solito chiamare i resti di una bruttezza davvero notevole. Si era dimostrata moglie eccellente
di uno dei nostri ambasciatori più noiosi e, dopo aver sepolto correttamente il marito in un mausoleo di marmo da lei
stessa ideato, aveva maritato le figlie a degli uomini più ricchi e piuttosto anziani e si era data ai piaceri del romanzo
francese, della cucina francese e dell'esprit francese, quando riusciva a capirlo.
Dorian era uno dei suoi favoriti: gli diceva sempre che era estremamente felice di non averlo incontrato in
gioventù. «Sono sicura, mio caro, che mi sarei follemente innamorata di lei,» era solita dire, «e per lei "avrei lasciato il
cappello dietro il mulino". È stata una grande fortuna che, a quel tempo, lei non fosse nemmeno un'intenzione. Del
resto, i nostri cappelli erano così brutti e i nostri mulini erano così occupati a far vento, che non ho mai avuto nemmeno
un flirt. Comunque, è stata tutta colpa di Narborough. Era tremendamente miope e non c'è nessun gusto quando si ha un
marito che non vede nulla.»
Gli ospiti della serata erano piuttosto noiosi. Il fatto era, come spiegò a Dorian Gray dietro un ventaglio
piuttosto male in arnese, che una delle figlie sposate era venuta improvvisamente a stare per qualche tempo con lei e,
per peggiorare le cose, aveva portato il marito. «Credo proprio che sia stato poco gentile da parte sua, mio caro,»
sussurrò. «È vero che d'estate sono loro ospite quando ritorno da Homburg, ma dopotutto una vecchia come me deve
prendere un po' d'aria fresca ogni tanto e d'altra parte li rianimo un po'. Non immagina che vita fanno laggiù. Pura e
intatta vita di campagna. Si alzano presto perché hanno moltissimo da fare e vanno a letto presto perché hanno
pochissimo da pensare. Non c'è stato uno scandalo nelle vicinanze dai tempi della regina Elisabetta e così si
addormentano subito dopo pranzo. Non deve mettersi vicino a nessuno dei due, lei si metterà vicino, a me e mi farà
divertire.»
Dorian mormorò un complimento gentile e si guardò intorno. Sì, era proprio un party noioso. C'erano due
ospiti che non aveva mai visto; gli altri erano Ernest Harrowden, una di quelle mediocrità di mezza età che sono così
comuni nei club londinesi, privi di nemici, ma accuratamente antipatici agli amici; Lady Ruxton, una donna sui
quarantasette vestita con troppo lusso, con il naso a becco, che cercava continuamente di compromettersi, ma così
scialba che, con suo grande disappunto, nessuno avrebbe mai pensato qualcosa di male sul suo conto; la signora
Erlynne, un'arrivista senza qualità, con una deliziosa balbuzie e i capelli rosso veneziano; Lady Alice Chapman, figlia
dell'ospite, una ragazza ottusa e malvestita; con una di quelle caratteristiche facce britanniche che una volte viste non si
ricordano mai più, e il marito, un essere rubizzo dalle basette bianche che, come molti della sua classe, pensava che una
giovialità disordinata possa compensare un'assoluta mancanza di idee.
Era piuttosto pentito di essere venuto, quando Lady Narborough guardando il grande orologio di bronzo
dorato, adagiato in ricche volute sulla mensola del camino coperta da un panno mauve, esclamò: «È indecente, da parte
di Henry Wotton, arrivare così in ritardo! L'ho fatto avvertire stamattina sperando di trovarlo, e mi ha assicurato che
non mi avrebbe delusa.»
Il fatto che Henry dovesse arrivare lo consolò, e quindi, quando la porta si aprì e Dorian udì la voce lenta e
musicale dare una veste affascinante a una falsa scusa, non si sentì più annoiato.
Ma a pranzo non riuscì a mangiare nulla. I Piatti passavano uno dopo l'altro senza che li toccasse. Lady
Narborough continuava a sgridarlo per quello che chiamava «un insulto al povero Adolphe, che ha composto il menù
apposta per lei» e, di tanto in tanto, Lord Henry gli lanciava un'occhiata, stupito del suo silenzio e dei suoi modi
distratti. Ogni tanto il cameriere gli riempiva il bicchiere di champagne. Beveva avidamente ma la sete sembrava
aumentare di continuo.
«Dorian,» disse Lord Henry alla fine, mentre veniva servito lo chaud-froid, «che cosa ti succede, stasera? Mi
sembri di pessimo umore.»
«Credo che sia innamorato,» esclamò Lady Narborough, «ma che abbia paura di dirmelo perché teme che io
sia gelosa. Ha assolutamente ragione: lo sarei di certo.»
«Cara Lady Narborough,» mormorò Dorian sorridendo, «è da una settimana che non sono innamorato... da
quando è partita Madame Ferrol.»
«Mi domando come facciate, voi uomini, a innamorarvi di quella donna!» esclamò la vecchia signora. «Non
riesco proprio a capirlo.»
«Semplicemente, perché assomiglia a lei da bambina, Lady Narborough,», disse Lord Henry. «È l'unico
legame che rimane tra noi e i suoi vestitini.»
«Non ricorda proprio per niente i miei vestitini, Lord Henry. Ma la ricordo benissimo a Vienna trent'anni fa e
ricordo anche l'ampiezza dei suoi décolletés.»
«L'ampiezza c'è ancora,» disse Lord Henry prendendo un'oliva con le lunghe dita; «e quando è molto elegante
ricorda l'edition de luxe di un brutto romanzo francese. È davvero stupefacente e piena di sorprese. L'intensità dei suoi
affetti familiari è straordinaria: quando morì il suo terzo marito divenne completamente bionda per il dispiacere.»
«Henry, come puoi... !» esclamò Dorian Gray.
«È una spiegazione molto romantica,» rise l'ospite. «Ma, il suo terzo marito, Lord Henry! Non vorrà dire che
Ferrol è il quarto.»
«Certo, Lady Narborough.»
«Non ci credo assolutamente.»
«Bene, lo chieda al signor Gray. È uno dei suoi più intimi amici.»
«È vero, signor Gray?»
«Me lo ha assicurato lei, Lady Narborough,» disse Dorian. «Le ho domandato se, come Margherita di Navarra,
aveva fatto imbalsamare i loro cuori e li aveva appesi alla cintura. Mi ha detto che non lo aveva fatto perché nessuno di
loro aveva un cuore.»
«Quattro mariti! Parola mia, questo si chiama trop de zèle.»
«Trop d'audace, io le ho detto,» disse Dorian Gray.
«Oh, Madame Ferrol è audace in tutto, mio caro. E che tipo è il marito? Non lo conosco.»
«I mariti delle donne molto belle appartengono alla categoria dei criminali,» disse Lord Henry sorseggiando il
vino.
Lady Narborough lo colpì con il ventaglio. «Lord Henry, non mi sorprende affatto che il mondo dica che lei è
estremamente maligno.»
«Ma quale mondo?» domandò Lord Henry, alzando le sopracciglia. «Non può essere che l'altro mondo, dato
che questo mondo ed io siamo in ottimi rapporti.»
«Tutti quelli che conosco dicono che lei è molto maligno,» esclamò la vecchia signora, scuotendo il capo.
Lord Henry prese per un momento un'aria seria. «È assolutamente mostruoso,» disse alla fine, «il modo che ha
oggi la gente di dire alle nostre spalle cose che sono assolutamente e completamente vere.»
«Non è incorreggibile?» esclamò Dorian Gray, piegandosi sulla sedia.
«Lo spero,» disse la sua ospite ridendo. «Ma davvero se tutti voi adorate Madame Ferrol in questo modo
ridicolo, sarò costretta a sposarmi per essere di moda.»
«Lei non si sposerà più, Lady Narborough,» interruppe Lord Henry. «È troppo felice. Quando una donna si
risposa lo fa perché detestava il primo marito. Quando si risposa un uomo, lo fa perché adorava la prima moglie. Le
donne mettono alla prova la loro fortuna, gli uomini la mettono a repentaglio.»
«Narborough non era perfetto,» disse la vecchia signora.
«Se lo fosse stato, lei non l'avrebbe amato, mia cara,» fu la risposta, «Le donne ci amano per i nostri difetti. Se
ne abbiamo a sufficienza, ci perdonano tutto, persino l'intelligenza. Dopo aver detto queste cose, temo che lei non mi
inviterà più a pranzo, Lady Narborough; comunque sono cose vere.»
«Certo che sono cose vere, Lord Henry. Se noi donne non vi amassimo per i vostri difetti, che cosa sarebbe di
tutti voi? Nessuno di voi si sposerebbe. Sareste una massa di disgraziati scapoli. Non è che con questo le cose
cambierebbero molto: di questi tempi tutti gli uomini sposati vivono da scapoli e tutti gli scapoli da sposati.»
«Fin de siècle,» mormorò Lord Henry.
«Fin du globe,» replicò la padrona di casa.
«Vorrei che fosse davvero fin du globe,» disse Dorian con un sospiro. «La vita è una grande delusione.»
«Ah, mio caro,» disse Lady Narborough infilandosi i guanti, «non mi dica che ha esaurito la vita. Quando un
uomo dice una cosa simile, si è sicuri che la vita ha esaurito lui. Lord Henry è molto maligno e a volte vorrei esserlo
stata anch'io: ma lei è fatto per essere buono, ha l'aria di esserlo. Devo trovarle una bella moglie. Lord Henry, non pensa
che il signor Gray dovrebbe sposarsi?»
«Glielo dico sempre, Lady Narborough,» disse Lord Henry con un inchino.
«Bene, dobbiamo cercargli un partito conveniente. Stasera sfoglierò attentamente il Debrett e ne tirerò fuori
una lista di tutte le giovani fanciulle desiderabili.»
«Con le rispettive età, Lady Narborough?» domandò Dorian.
«Naturalmente, con le rispettive età, in edizione leggermente riveduta. Ma non bisogna agire frettolosamente.
Voglio che sia quello che il Morning Post chiamerebbe un matrimonio ben assortito, e voglio che siate felici tutti e
due.»
«Quante assurdità si dicono sui matrimoni felici!» esclamò Lord Henry. «Un uomo può essere felice con
qualsiasi donna, finché non ne è innamorato.»
«Ah! Che cinico!» esclamò la vecchia signora, scostando la sedia e facendo un cenno a Lady Ruxton. «Deve
ritornare presto a cena da me. Lei è veramente un tonico straordinario, molto meglio di quello che mi prescrive Sir
Andrew. Deve dirmi chi le piacerebbe incontrare. Voglio che sia una riunione piacevolissima.»
«Mi piacciono gli uomini che hanno un futuro e le donne che hanno un passato,» rispose Lord Henry. «O
pensate che sarebbe un party di sole sottane?»
«Temo di sì,» rispose la donna ridendo e si alzò. «Mille scuse, mia cara Lady Ruxton,» aggiunse. «Non mi ero
accorta che non aveva finito la sigaretta.»
«Non importa, Lady Narborough. Fumo troppo. Ho intenzione di controllarmi, in futuro.»
«Non lo faccia, per favore, Lady Ruxton,» disse Lord Henry. «La moderazione è fatale. L'abbastanza è cattivo
come un pasto, il troppo è buono come un banchetto.»
Lady Ruxton lo guardò interessata. «Deve venire qualche pomeriggio a casa mia a spiegarmelo, Lord Henry.
Mi pare una teoria affascinante,» mormorò e scivolò fuori dalla stanza.
«Adesso, cercate di non discutere troppo di quella vostra politica e di scandali,» esclamò Lady Narborough
dalla porta. «Altrimenti, di sopra litigheremo di sicuro.»
Gli uomini risero e il signor Chapman si alzò solennemente, spostandosi da un estremo all'altro della tavola.
Dorian Gray cambiò posto e andò a sedere accanto a Lord Henry. Il signor Chapman cominciò a parlare a voce alta
della situazione alla Camera dei Comuni, dileggiando i suoi avversari. La parola doctrinaire, parola terrorizzante per
una mente inglese, riappariva di tanto in tanto tra le sue esplosioni di risa. Un prefisso allitterativo serviva da ornamento
alla sua retorica. Issò l'Union Jack sui pinnacoli del pensiero. L'ereditaria stupidità della razza - da lui giovialmente
definita sano buonsenso inglese - venne presentata come il giusto baluardo della società.
Un sorriso incurvò le labbra di Lord Henry che si voltò verso Dorian osservandolo.
«Ti senti meglio, caro amico?» domandò. «A cena sembravi piuttosto di malumore.»
«Sto benissimo, Harry. Sono stanco. Tutto qui.»
«Ieri sera eri affascinante. La piccola duchessa ti è completamente devota. Mi ha detto che verrà a Selby.»
«Mi ha promesso di venire il venti.»
«Ci sarà anche Monmouth?»
«Oh, sì, Harry.»
«È terribilmente noioso, per me, quasi quanto per lei. Lei è molto intelligente, troppo per una donna. Le manca
il fascino indefinibile della debolezza. Sono i piedi d'argilla che valorizzano l'oro della statua. I suoi piedi sono molto
graziosi, ma non sono d'argilla. Piedi di porcellana bianca, se vuoi. Sono passati attraverso il fuoco e quello che il fuoco
non distrugge, indurisce. Ha avuto delle esperienze.»
«Da quanto tempo è sposata?» domandò Dorian.
«Da un'eternità, mi ha detto. Credo da dieci anni, stando all'almanacco nobiliare, ma dieci anni con Monmouth
devono essere un'eternità più un po' di tempo ancora. Chi saranno gli altri?»
«Oh, i Willoughby, Lord Rugby con la moglie, la nostra ospite, Geoffrey Clouston: il solito giro. Ho chiesto a
Lord Grotrian di venire.»
«Mi è simpatico,» disse Lord Henry, «a moltissimi non lo è, ma io lo trovo piacevole. Si fa perdonare il fatto di
essere qualche volta un po' troppo ben vestito, con quello di essere sempre troppo ben educato. È un tipo molto
moderno.»
«Non so se potrà venire, Harry. Forse dovrà andare a Montecarlo con il padre.»
«Ah, che seccatura i parenti! Cerca di farlo venire. A proposito, Dorian, te ne sei scappato molto presto ieri
sera, prima delle undici. Che cosa hai fatto dopo? Sei andato subito a casa?»
Dorian gli lanciò una rapida occhiata, accigliandosi. «No, Harry,» disse alla fine, «sono stato fuori fino alle tre
circa.»
«Sei andato al club?»
«Sì,» rispose. Poi si morse un labbro. «No, non intendevo questo, non sono stato al club. Sono andato in giro.
Ho dimenticato cosa ho fatto... Come sei indiscreto, Harry! Vuoi sempre sapere che cosa fa la gente. Io cerco sempre di
dimenticare quel che ho fatto. Sono rientrato alle due e mezzo, se vuoi sapere l'ora precisa. Avevo dimenticato la chiave
a casa e ha dovuto aprirmi il mio cameriere. Se vuoi una testimonianza che appoggi la mia dichiarazione, puoi
domandarglielo.»
Lord Henry si strinse nelle spalle. «Mio caro amico, come se me ne importasse qualche cosa! Andiamo in
salotto. Niente sherry, grazie, signor Chapman. Ti è successo qualche cosa, Dorian. Dimmi di che cosa si tratta. Questa
sera non sei il solito.»
«Non badare a me, Harry. Sono nervoso e di cattivo umore. Verrò a trovarti domani o dopo. Fa' le mie scuse a
Lady Narborough. Non vengo di sopra, vado a casa. Devo andare a casa.»
«D'accordo, Dorian. Penso che ti vedrò domani all'ora del tè. Ci sarà anche la duchessa.»
«Cercherò di venire, Harry,» disse Dorian lasciando la stanza. Mentre tornava a casa in carrozza si rese conto
che il senso di terrore che credeva di aver soffocato, lo aveva nuovamente sopraffatto. Le domande casuali di Lord
Henry per un momento gli avevano fatto perdere il controllo dei nervi e voleva averli saldi. Bisognava distruggere
alcune cose pericolose. Rabbrividì: solo l'idea di toccarle gli dava un estremo fastidio.
Tuttavia era necessario. Se ne rese conto e, dopo aver chiuso a chiave la porta della biblioteca, aprì il
ripostiglio segreto nel quale aveva nascosto il cappotto e la borsa di Basil Hallward. Nel caminetto ardeva un grande
fuoco. Vi gettò un altro ceppo. L'odore della stoffa e del cuoio che bruciavano era orribile. Ci vollero tre quarti d'ora
prima che tutto fosse consumato. Alla fine si sentì fiacco e nauseato. Accese alcune pastiglie algerine in un braciere di
rame traforato e bagnò mani e fronte con fresco aceto muschiato.
Improvvisamente sussultò. Gli occhi assunsero una strana luminosità e si morse nervosamente il labbro
inferiore. Tra due finestre c'era un grande stipo fiorentino di ebano intarsiato di avorio e lapislazzuli blu. Lo guardò
come se fosse una cosa a un tempo affascinante e spaventosa, come se contenesse qualche cosa di cui fosse bramoso e,
insieme, disgustato. Fu sopraffatto da una folle bramosia. Accese una sigaretta, poi la gettò via. Le palpebre si
abbassarono finché le lunghe frange delle ciglia gli sfiorarono le guance. Ma continuava a fissare lo stipo. Alla fine si
alzò dal divano dove era sdraiato, si avvicinò al mobile e toccò una molla nascosta. Un cassetto triangolare uscì
lentamente. Le sue dita si avvicinarono istintivamente, vi entrarono, si chiusero su qualche cosa. Era una piccola scatola
cinese di lacca nera e oro minutamente lavorata, i fianchi erano decorati a motivi ondulati; dalla scatoletta pendevano
due cordoncini di seta, intrecciati con filo metallico terminanti in due cristalli rotondi. L'aprì. Conteneva una pasta
verde, lucente come cera, dall'odore stranamente greve e persistente.
Esitò qualche istante, con un sorriso stranamente immobile sul volto. Poi, rabbrividì, sebbene nella stanza ci
fosse un caldo terribile, si raddrizzò e guardò l'orologio. Mancavano venti minuti a mezzanotte. Rimise la scatoletta al
suo posto, richiuse il cassetto e si trasferì in camera da letto.
A mezzanotte, mentre nell'aria nebbiosa vibravano rintocchi di bronzo, Dorian Gray indossò un abito modesto,
mise una sciarpa al collo e scivolò silenziosamente fuori di casa. In Bond Street trovò una carrozza con un buon cavallo.
La chiamò con un cenno e a bassa voce diede un indirizzo al vetturino.
L'uomo scosse il capo. «Troppo lontano per me,» brontolò.
«Ecco una sovrana,» disse Dorian. «Se va in fretta ne avrà un'altra.»
«D'accordo, signore,» disse l'uomo, «ci sarà entro un'ora.» E, dopo aver intascato il prezzo della corsa, fece
girare il cavallo e si avviò rapido verso il fiume.

XVI
Cominciò a cadere una pioggia fredda; i lampioni offuscati proiettavano una luce debole nella bruma mista a
pioggia. I locali pubblici stavano chiudendo e gruppi indistinti di uomini e donne si andavano raccogliendo davanti agli
ingressi. Da qualche bar provenivano orribili scoppi di risa. In altri, degli ubriachi si azzuffavano e gridavano.
Adagiato contro il fondo della carrozza, con il cappello abbassato sulla fronte, Dorian Gray osservava
distrattamente la sordida vergogna della grande città e, di tanto in tanto, ripeteva tra sé le parole che Lord Henry gli
aveva detto il primo giorno del loro incontro, «Curare l'anima con i sensi e i sensi con l'anima». Sì, questo era il segreto.
Lo aveva sperimentato diverse volte, e adesso lo avrebbe sperimentato di nuovo. C'erano le fumerie d'oppio, dove si
poteva comperare l'oblio, rifugi di orrore dove era possibile distruggere il ricordo di vecchi peccati con la follia di
peccati nuovi.
La luna era sospesa in basso nel cielo, come un teschio giallo. Di tanto in tanto, una grossa nube informe
allungava un lungo braccio nascondendola. I lampioni a gas si andavano facendo più rari e le strade più strette e buie.
Ad un certo punto il vetturino sbagliò strada e fu costretto a ritornare indietro per mezzo miglio. Un velo di vapore
saliva dal cavallo quando schizzava intorno a sé l'acqua delle pozzanghere. I finestrini laterali della carrozza erano
appannati da una nebbia grigia.
«Curare l'anima con i sensi e i sensi con l'anima!» Come gli risuonavano nelle orecchie queste parole! Certo, la
sua anima era mortalmente malata. Era proprio vero che i sensi potevano curarla? Era stato versato del sangue
innocente. Come sarebbe stato possibile espiarlo? Ah! Non c'era espiazione per questo; ma se il perdono non era
possibile, era ancora possibile dimenticare, e lui era deciso a farlo, ad annientare quella cosa, a schiacciarla come si
schiaccia la vipera che ci ha morso. In realtà, che diritto aveva Basil di parlargli in quel modo? Chi l'aveva autorizzato a
giudicare? Aveva detto cose spaventose, orribili, insopportabili.
La carrozza continuava ad avanzare lentamente e gli sembrava che rallentasse ad ogni passo. Alzò il divisorio e
disse all'uomo di andare più in fretta. L'orribile fame d'oppio cominciava a roderlo. La gola gli bruciava e le mani
delicate si torcevano nervosamente. In un gesto folle, colpì il cavallo con il bastone. Il vetturino rise e usò la frusta.
Rispose a sua volta con una risata: l'uomo rimase in silenzio.
La via sembrava interminabile, le strade parevano la nera tela di un ragno enorme. La monotonia divenne
insopportabile e, quando la nebbia cominciò a diventare più fitta, si sentì prendere dalla paura.
Passarono davanti a fornaci solitarie. Qui la nebbia era meno fitta e poté vedere gli strani forni a forma di
bottiglia e le lingue di fuoco che ne uscivano, simili a ventagli arancione. Un cane abbaiò al loro passare e lontano
nell'oscurità si sentì lo strido di un gabbiano vagante. Il cavallo inciampò in un solco, poi scartò e si lanciò al galoppo.
Dopo qualche tempo lasciarono la via di terra battuta e ripresero a sobbalzare su strade dal lastricato irregolare.
Quasi tutte le finestre erano buie, ma, di tanto in tanto, ombre fantastiche si disegnavano in trasparenza contro le tende.
Dorian le osservava con curiosità. Si muovevano come mostruose marionette e gesticolavano come creature vive. Le
odiò. Una cupa ira gli gonfiava il cuore. Mentre svoltavano all'angolo di una strada, da una porta una donna gridò loro
qualche cosa e due uomini rincorsero la carrozza per un centinaio di metri. Il conducente li colpì con la frusta.
Dicono che la passione costringa il pensiero in circoli viziosi. Certo, con una mostruosa iterazione, le labbra di
Dorian Gray formavano e riformavano quelle sottili parole sull'anima e sui sensi, finché trovò in esse la piena
espressione, per così dire, del suo stato d'animo, giustificando con l'approvazione dell'intelletto passioni che altrimenti
lo avrebbero dominato. Da una cellula all'altra del cervello passò quell'unico pensiero e il selvaggio desiderio di vivere,
il più terribile degli istinti umani, diede una nuova forza ai nervi e alle fibre tremanti. La bruttezza, che un tempo gli era
stata odiosa perché rende le cose reali, adesso per la stessa ragione gli era cara. La bruttezza era l'unica realtà. Le risse
volgari, i covi disgustosi, la cruda violenza della vita disordinata, persino la bassezza dei ladri e degli emarginati, nella
loro intensa impressione di realtà erano più vividi di tutte le forme piene di grazia dell'arte, delle ombre sognanti del
canto. Erano quel che gli era necessario per dimenticare. In tre giorni si sarebbe liberato.
Improvvisamente il conducente arrestò la vettura con uno strappo all'inizio di un vicolo buio. Oltre i tetti bassi
e la lunga fila ineguale dei comignoli si levavano neri alberi di navi. Lembi di nebbia si aggrappavano ai pennoni come
vele spettrali.
«È da queste parti, vero, signore?» domandò brusco il vetturino attraverso il divisorio.
Dorian si riscosse e si guardò attorno. «Va bene qui,» disse. Scese in fretta, diede al vetturino la sovrana che gli
aveva promesso e si diresse rapido verso le banchine. Di quando in quando appariva la lanterna di poppa di qualche
grosso mercantile. La luce si rifletteva tremolando nelle pozzanghere. Un bagliore rosso proveniva da un vapore in
partenza che stava rifornendosi di carbone. Il fondo viscido sembrava un incerato bagnato.
Si avviò in fretta verso sinistra, guardandosi ogni tanto alle spalle per vedere se lo seguiva qualcuno. Dopo
sette o otto minuti arrivò davanti ad una casetta miserabile, stretta tra due fabbriche squallide. Una delle finestre in alto
era illuminata. Si fermò e bussò in modo particolare.
Pochi istanti dopo udì dei passi nel corridoio e qualcuno tirò il catenaccio. La porta si aprì silenziosamente.
Dorian entrò senza dire una parola alla figura acquattata e informe che si appiattì nell'ombra al suo passaggio. Il fondo
del vestibolo era chiuso da una tenda verde che ondeggiò e fremette nel vento entrato con lui dalla strada. La scostò ed
entrò in un locale lungo e basso che aveva l'aria di essere stata una sala da ballo di terz'ordine. Stridenti becchi a gas che
si riflettevano offuscati e distorti negli specchi macchiati dalle mosche, erano allineati lungo le pareti. Dietro di essi
erano posti dei riflettori di latta scanalata, sporchi di unto che proiettavano incerti circoli luminosi. Il pavimento era
coperto di segatura color ocra a tratti ridotta a fango dal calpestio e macchiata da cerchi scuri dove era stato rovesciato
del liquore. Alcuni malesi, accoccolati vicino a una piccola stufa a carbone, giocavano con tessere di osso, e parlavano
mettendo in mostra i denti candidi. In un angolo, un marinaio era riverso su un tavolo con la testa nascosta tra le
braccia; accanto al bancone dipinto a colori vistosi che teneva tutta una parete, due donne disfatte prendevano in giro un
vecchio che si passava le mani sulle maniche della giacca con un'espressione di disgusto. «Crede di avere addosso delle
formiche rosse,» disse ridendo una delle donne mentre Dorian le passava accanto. L'uomo la guardò terrorizzato e
cominciò a piagnucolare.
In fondo alla stanza c'era una scaletta che portava in una stanza debolmente illuminata. Mentre Dorian saliva in
fretta i tre gradini traballanti, fu investito da un pesante odore di oppio. Trasse un profondo respiro e le narici fremettero
di piacere. Appena entrato, un giovane dai capelli biondi e lisci che era chino su una lampada ad accendere una lunga
pipa sottile, alzò lo sguardo verso di lui, e gli rivolse un esitante cenno di saluto.
«Tu qui, Adrian?» mormorò Dorian.
«Dove dovrei essere?» rispose l'altro in tono indifferente. «Nessuno degli amici mi rivolge più la parola.»
«Pensavo che te ne fossi andato dall'Inghilterra.»
«Darlington non intende fare nulla. Mio fratello mi ha pagato la cambiale, finalmente. Anche George non mi
rivolge più la parola... ma non mi importa,» aggiunse con un sospiro. «Finché c'è questa roba, non si ha bisogno di
amici. Penso di averne avuti troppi.»
Dorian rabbrividì e fece passare lo sguardo sugli esseri grotteschi che giacevano in pose incredibili sui
materassi consunti. Lo affascinavano le membra contorte, le bocche spalancate, senza luce. Sapeva in quali strani
paradisi stessero soffrendo e quali cupi inferni stessero insegnando loro il segreto di qualche nuovo piacere. Stavano
meglio di lui. Lui era prigioniero del pensiero. La memoria, come, una terribile malattia, gli stava divorando l'anima. Di
quando in quando, gli pareva di vedere gli occhi di Basil Hallward che lo fissavano. Tuttavia sentiva che non poteva
rimanere: la presenza di Adrian Singleton lo turbava. Voleva essere in un posto dove nessuno lo conoscesse. Voleva
sfuggire a se stesso.
«Vado nell'altro posto,» disse, dopo un silenzio.
«Sulla banchina?.»
«Sì.»
«Ci troverai di certo quella gatta arrabbiata. Qui non la vogliono più, adesso.»
Dorian scrollò le spalle. «Sono nauseato dalle donne innamorate di me. Le donne che odiano sono molto più,
interessanti Inoltre, la roba è migliore là.»
«La stessa, più o meno.»
«A me piace di più. Vieni a bere qualche cosa. Devo bere qualche cosa.»
«Non voglio nulla,» mormorò il giovane.
«Non importa.»
Adrian Singleton si sollevò a fatica e seguì Dorian Gray al bar. Un mezzosangue che portava un turbante
consunto e un ulster male in arnese li accolse con un sorriso ripugnante, mentre posava davanti a loro una bottiglia di
brandy e due bicchieri. Le donne si accostarono esitando e cominciarono a chiacchierare. Dorian voltò loro le spalle e
disse qualche cosa a bassa voce ad Adrian Singleton.
Un sorriso contorto come un kriss malese passò come un tremito convulso sul viso di una delle donne.
«Siamo molto superbi, stasera,» disse in tono di scherno.
«Per l'amor di Dio, piantala,» esclamò Dorian Gray battendo il piede a terra. «Che cosa vuoi? Soldi? Eccoli.
Ma stattene zitta.»
Due lampi rossi balenarono per un momento negli occhi acquosi della donna, poi guizzarono via lasciandoli
vitrei e privi di vita. La donna scosse il capo e prese i soldi dal banco con dita avide. La sua compagna la osservava con
invidia.
«È inutile,» sospirò Adrian Singleton. «Non mi importa di ritornare indietro. Che cosa significa? Qui sono
felice.»
«Mi scriverai, se avrai bisogno di qualche cosa, non è vero?» disse Dorian dopo un silenzio.
«Forse.»
«Buona notte, allora.
«Buona notte,» rispose il giovane risalendo gli scalini e passandosi il fazzoletto sulla bocca inaridita.
Dorian si diresse verso la porta con un'espressione di sofferenza in viso. Mentre scostava la tenda una
disgustosa risata uscì dalle labbra rosse della donna che aveva preso i soldi. «Il Patto col Diavolo se ne va!» singhiozzò
con voce rauca.
«Maledetta!» si rivoltò lui. «Non chiamarmi così.»
La donna schioccò le dita. «Ti piacerebbe farti chiamare Principe Azzurro, vero?» gli gridò dietro.
A quelle parole il marinaio addormentato balzò in piedi e si guardò attorno con un'espressione selvaggia. Gli
giunse alle orecchie il rumore della porta di ingresso che si chiudeva. Si precipitò fuori come se volesse inseguire
qualcuno.
Dorian Gray si affrettava lungo la banchina sotto la pioggia sottile. L'incontro con Adrian Singleton lo aveva
stranamente commosso e si chiedeva se fosse davvero sua la responsabilità di quella giovane vita distrutta, come aveva
detto Basil Hallward con un tono così insultante. Si morse le labbra e, per un momento, una luce di tristezza gli si
accese negli occhi. Sì, dopotutto, che cosa gliene importava? La vita era troppo breve per caricarsi sulle spalle anche gli
errori degli altri. Ogni uomo vive la propria vita e paga il proprio prezzo per viverla. Peccato solo che così di frequente
si dovesse pagare per un unico errore. In realtà, si paga molte e molte volte Nei suoi rapporti con gli uomini il destino
non chiude mai conti..
Secondo gli psicologi ci sono momenti, in cui la passione per i peccati, o per quelli che il mondo chiama
peccati, domina talmente una persona che ogni fibra del corpo, ogni cellula del cervello, paiono imbevute di impulsi di
terrore. In questi momenti uomini e donne perdono la padronanza della volontà. Si muovono come automi verso la loro
terribile fine. Non hanno più la facoltà di scelta e la coscienza è morta o, se è viva, lo è solo per dare alla ribellione il
suo fascino, le sue attrattive alla disobbedienza. Tutti i peccati, infatti, come i teologi non si stancano di ripeterci, sono
peccati di disobbedienza. Quando quello spirito superiore, quella stella mattutina del male, cadde dal cielo, fu perché si
era ribellato.
Insensibile, concentrato nel male, con la mente guasta e l'anima assetata di ribellione, Dorian Gray si affrettava
a passi sempre più veloci ma, mentre piegava sotto un portico buio che molte volte aveva usato come scorciatoia per
raggiungere il luogo malfamato dove era diretto, si sentì afferrare improvvisamente alle spalle e, prima che avesse la
possibilità di difendersi, venne spinto contro il muro e una mano brutale lo afferrò alla gola.
Lottò follemente per la sopravvivenza e, con uno sforzo terribile, riuscì a strappare le dita che lo
attanagliavano. In un secondo udì lo scatto di una rivoltella, vide il bagliore di una canna lucida puntata diritta contro la
sua testa, e la sagoma indistinta di un uomo basso e tarchiato che gli si parava davanti.
«Che cosa vuoi?» ansimò.
«Sta' calmo,» disse l'uomo. «Se ti muovi ti sparo.»
«Sei pazzo. Che cosa ti ho fatto?»
«Hai distrutto la vita di Sibyl Vane,» fu la risposta; «e Sibyl Vane era mia sorella. Si è uccisa. Lo so. La sua
morte è colpa tua.. Ho giurato che ti avrei ucciso. Ti ho cercato per anni. Non avevo tracce, non avevo indizi: le uniche
due persone che ti conoscevano erano morte. Sapevo solo il soprannome che lei ti aveva dato. L'ho risentito questa sera
per caso. Raccomanda l'anima a Dio, perché questa notte morirai.»
Dorian si sentì prendere dal terrore. «Non l'ho mai conosciuta,» balbettò. «Non l'ho mai sentita nominare. Sei
pazzo.»
«È meglio che tu confessi i tuoi peccati perché, quanto è vero che io sono James Vane, tu morirai.» Ci fu un
momento terribile. Dorian non sapeva che cosa dire o che cosa fare. «Inginocchiati!» gridò rauco l'uomo. «Ti do un
minuto per dire le ultime preghiere. Non di più. Mi imbarco stanotte per l'India e prima devo sbrigare questa faccenda.
Un minuto. È tutto.»
Dorian Gray lasciò cadere le braccia. Paralizzato dal terrore, non sapeva che cosa fare. Improvvisamente una
folle speranza gli attraversò la mente. «Fermati,» gridò. «Da quando è morta tua sorella? Dimmelo, presto!»
«Da diciotto anni,» disse l'uomo. «Perché me lo domandi? Che cosa contano gli anni?»
«Diciotto anni,» rise Dorian Gray, con una nota di trionfo nella voce. «Diciotto anni! Portami sotto un fanale e
guardami in faccia!»
James Vane esitò un attimo, senza capire. Poi afferrò Dorian Gray e lo trascinò fuori dal portico.
Nonostante la luce fosse incerta e indebolita dal vento, fu sufficiente per rivelare a James Vane il terribile
equivoco, - almeno così pareva - nel quale era caduto, perché il viso dell'uomo che aveva cercato di uccidere aveva tutta
la freschezza dell'adolescenza, tutta l'intatta purezza della giovinezza. Sembrava un ragazzo di poco più di vent'anni,
appena più vecchio; forse, di sua sorella quando si erano separati, tanti anni prima. Era ovvio che non poteva essere
questo l'uomo che aveva distrutto la sua vita.
Lasciò la stretta e arretrò. «Mio Dio, mio Dio!» esclamò, «ed io che stavo per ucciderti.»
Dorian Gray trasse un lungo respiro. «Lei è stato sul punto di commettere un terribile delitto, amico,» disse
fissandolo con uno sguardo severo. «Che questo le serva da avvertimento a non cercare la vendetta con le proprie
mani.»
«Mi perdoni, signore,» mormorò James Vane. «Sono stato ingannato. Una parola che ho sentito per caso in
quella maledetta taverna mi ha messo su una pista sbagliata.»
«Farebbe meglio ad andare a casa e a mettere via quella pistola, se non vuole finire nei pasticci,» disse Dorian
voltandosi e incamminandosi lentamente lungo la via.
James Vane rimase immobile, sconvolto.
Tremava da capo a piedi. Poco dopo, un'ombra nera che era strisciata lungo il muro grondante di pioggia, uscì
sotto la luce e si avvicinò a lui cautamente. Sentì una mano posarglisi su un braccio e si guardò intorno sussultando. Era
una delle donne che bevevano al bar.
«Perché non l'hai ucciso?» sibilò, avvicinando a lui il viso devastato. «Sapevo che gli stavi correndo dietro
quando sei uscito da Daly. Stupido! Avresti dovuto ucciderlo. Ha un mucchio di soldi ed è cattivo come pochi.»
«Non è l'uomo che cerco,» rispose lui, «e non voglio i soldi di nessuno. Voglio la vita di un uomo. L'uomo che
sto cercando deve essere sulla quarantina. Questo era poco più di un ragazzo. Grazie a Dio non mi sono sporcato le
mani con il suo sangue.»
La donna scoppiò in un'amara risata. «Poco più di un ragazzo!» disse in tono di scherno. «Sono quasi diciotto
anni che il Principe Azzurro mi ha ridotta in questo stato.»
«Tu menti!» gridò James Vane. La donna sollevò le braccia al cielo. «Giuro davanti a Dio che dico la verità,»
disse a voce alta.
«Davanti a Dio?»
«Che diventi muta se non è vero. È il peggiore tra tutti quelli che vengono qui. Dicono che si sia venduto al
diavolo per conservare la sua bella faccia. Sono quasi diciannove anni che lo conosco e da allora non è cambiato molto.
Io sì, invece,» aggiunse con una smorfia di disgusto.
«Lo giuri?»
«Lo giuro,» fu l'eco rauca che uscì da quella bocca avvilita. «Ma non, tradirmi,» piagnucolò, «ho paura di lui.
Dammi qualche cosa per andare a dormire.»
James Vane si allontanò da lei bestemmiando e si precipitò all'angolo della strada, ma Dorian Gray era
scomparso. Quando si guardò indietro, anche la donna era svanita.

XVII
Una settimana dopo, Dorian Gray, seduto nella serra di Selby Royal, conversava con la graziosa duchessa di
Monmouth che, insieme al marito, un uomo sulla sessantina dall'aria affaticata, era tra i suoi ospiti. Era l'ora del tè e la
luce morbida della grande lampada di merletto posta sopra la tavola accendeva le delicate porcellane e gli argenti
battuti. La duchessa si era incaricata del servizio e le bianche mani si muovevano agilmente tra le tazze mentre le
labbra, rosse e piene, sorridevano a qualche cosa che Dorian Gray le aveva sussurrato. Lord Henry, sdraiato in una sedia
di vimini rivestita di seta, li guardava. Su un divano color pesca era seduta Lady Narborough che fingeva di ascoltare il
duca, immerso nella descrizione dell'ultimo scarabeo brasiliano che aveva aggiunto alla sua collezione. Tre giovani in
eleganti smoking servivano pasticcini ad alcune signore. La compagnia era composta da una dozzina di persone; se ne
attendevano altre il giorno dopo.
«Di che cosa state parlando?» domandò Lord Henry avvicinandosi al tavolo e posando la tazza. «Spero che
Dorian ti abbia parlato del mio progetto di ribattezzare tutto, Gladys. È una bellissima idea.»
«Ma io non voglio essere ribattezzata, Henry,» obiettò la duchessa, alzando su di lui due splendidi occhi.
«Sono soddisfattissima del mio nome, e sono sicura che il signor Gray è soddisfatto del suo.»
«Mia cara Gladys, non vorrei cambiare né l'uno né l'altro per nulla al mondo. Sono perfetti. Mi riferivo
soprattutto ai fiori. Ieri ho colto un'orchidea per metterla all'occhiello. Era splendidamente maculata, forte e viva come i
sette peccati capitali. In un momento di distrazione ne chiesi il nome ad uno dei giardinieri. Mi disse che era un
bell'esemplare di Robinsoniana, o qualche altro nome altrettanto orribile. È la triste verità, ma abbiamo perduto la
capacità di dare bei nomi alle cose. I nomi sono tutto. Io non litigo mai con le azioni. Litigo solo con le parole. Per
questo odio il realismo volgare nella letteratura. Chi chiama vanga una vanga dovrebbe essere costretto ad usarla. È
l'unica cosa per cui è adatto.»
«E allora come dovremmo chiamarti, Harry?»
«Il suo nome è Principe Paradosso,» disse Dorian.
«Gli sta alla perfezione,» esclamò la duchessa.
«Non ne voglio sapere,» rise Lord Henry, sprofondando in una sedia. «A un'etichetta non c'è scampo! Rifiuto il
titolo.»
«I sovrani non possono abdicare,» avvertirono le belle labbra.
«Allora vuoi che difenda il trono?»
«Sì.»
«Io do le verità di domani.»
«Preferisco gli errori di oggi,» lei rispose.
«Tu mi disarmi, Gladys,» esclamò lui cogliendo l'allusione.
«Del tuo scudo, Harry, non della tua spada.»
«Non combatto mai contro la bellezza,» disse lui con un gesto della mano.
«È qui che sbagli, Harry, credimi. Dai alla bellezza un valore troppo grande.»
«Come puoi dire una cosa simile? Ammetto di ritenere che sia meglio essere belli che essere buoni ma, d'altra
parte, nessuno è più pronto di me ad ammettere che è meglio essere buoni piuttosto che brutti.»
«Allora la bruttezza è uno dei sette peccati capitali,» esclamò la duchessa. «E che cosa succede del tuo
paragone a proposito delle orchidee?»
«La bruttezza è una delle sette virtù mortali, Gladys. E tu, da buona conservatrice, non devi sottovalutarle. La
birra, la Bibbia e le sette virtù mortali hanno ridotto la nostra Inghilterra nelle attuali condizioni.
«Allora non ti piace il tuo paese?» domandò.
«Ci vivo.»
«Per poterlo criticare meglio.»
«Vuoi che ti dica il parere dell'Europa?» domandò lui.
«Che cosa dicono di noi?»
«Che Tartufo è emigrato in Inghilterra e ha messo bottega.»
«È tua, Harry?»
«Te la regalo.»
«Non potrei usarla. È troppo vera.»
«Non devi aver paura. I nostri compatrioti non riconoscono mai una descrizione.»
«Sono pratici.»
«Sono più furbi che pratici. Quando fanno il bilancio, contrappongono la stupidità alla ricchezza, e il vizio
all'ipocrisia.»
«Però abbiamo fatto grandi cose.»
«Ce le hanno tirate addosso, Gladys.»
«Ne abbiamo sopportato il peso.»
«Solo fino alla Borsa.»
Lei scosse il capo. «Credo nella razza,» esclamò.
«La razza è solo la sopravvivenza degli arrivisti.»
«Ha uno sviluppo.»
«Mi interessa di più la decadenza.»
«E l'arte?» domandò lei.
«È una malattia.»
«L'amore?»
«Un'illusione.»
«La religione?»
«Un surrogato alla moda della fede.»
«Sei uno scettico.»
«Niente affatto! Lo scetticismo è l'inizio della fede.»
«Che cosa sei, allora?»
«Definire significa limitare.»
«Dammi un filo da seguire.»
«I fili si spezzano. Perderesti la strada nel labirinto.»
«Mi disorienti. Parliamo di qualcun altro.»
«Il nostro ospite è un soggetto piuttosto piacevole. Anni fa, fu battezzato Principe Azzurro.»
«Ah, non ricordarmi queste cose,» esclamò Dorian Gray.
«Il nostro ospite è un po' ispido stasera,» notò la duchessa arrossendo. «Suppongo pensi che Monmouth mi
abbia sposato esclusivamente per interesse scientifico, come il miglior esemplare di farfalla moderna che sia riuscito a
trovare.»
«Bene, spero che non la vorrà infilare con degli spilli, duchessa,» disse Dorian, ridendo.
«Oh, lo fa già la mia cameriera quando è arrabbiata con me, signor Gray.»
«E che cosa la fa arrabbiare con lei, duchessa?»
«Le cose più futili, signor Gray, le assicuro. Di solito perché arrivo alle nove meno dieci e le dico che devo
essere vestita per le otto e mezzo.»
«È davvero irragionevole. Dovrebbe farle una ramanzina.»
«Non ne ho il coraggio, signor Gray. Sa, è lei che inventa i miei cappelli. Ricorda quello che portavo per il
ricevimento all'aperto di Lady Hilstone? No, naturalmente. Ma è gentile da parte sua fingere di sì. Bene, l'ha messo
insieme con niente. Tutti i bei cappelli sono fatti con niente.»
«Come tutte le buone reputazioni, Gladys,» interruppe Lord Henry. «Ogni volta che si ottiene un certo
successo ci si fa un nemico. Per essere benvoluti da tutti bisogna essere mediocri.»
«Non vale per le donne,» disse la duchessa scuotendo il capo, «e sono le donne che governano il mondo. Le
assicuro che non riusciamo a sopportare la mediocrità. Noi donne, come ha detto qualcuno, amiamo con le orecchie,
proprio come voi uomini amate con gli occhi, se pure amate.»
«A me pare che non facciamo nient'altro,» mormorò Dorian.
«Ah, ma allora lei non ama veramente, signor Gray,» replicò la duchessa in tono scherzosamente triste.
«Mia cara Gladys,» esclamò Lord Henry. «Come puoi dirlo? Un idillio sentimentale vive ripetendosi e la
ripetizione trasforma il desiderio in arte. Inoltre, ogni volta che si ama è l'unica volta. La diversità dell'oggetto non muta
l'unicità della passione ma si limita a intensificarla. Nel migliore dei casi in tutta la vita si riesce ad avere una sola
esperienza, e il segreto della vita sta nel ripeterla il più spesso possibile.»
«Anche quando si è rimasti scottati, Lord Henry?» domandò la duchessa dopo una pausa di silenzio.
«Specialmente quando si è rimasti scottati,» rispose Lord Henry.
La duchessa si voltò e guardò Dorian Gray con una strana espressione negli occhi. «Che cosa ne pensa, signor
Gray?»
Dorian esitò un attimo. Poi gettò all'indietro la testa e rise. «Sono sempre d'accordo con Harry, duchessa.»
«Anche quando sbaglia?»
«Henry non sbaglia mai.»
«E la sua filosofia la rende felice?»
«Non ho mai cercato la felicità. Chi la vuole? Ho cercato il piacere.»
«E lo ha trovato, signor Gray?»
«Spesso. Troppo spesso.»
La duchessa sospirò. «Io cerco la pace,» disse, «e se non vado a vestirmi, questa sera non ne avrò affatto.»
«Lasci che le colga qualche orchidea, duchessa,» disse Dorian balzando in piedi e allontanandosi nella serra.
«Stai flirtando con lui scandalosamente,» disse Lord Henry alla cugina. «È meglio che tu stia attenta: è molto
affascinante.»
«Se non lo fosse, non ci sarebbe nessuna lotta.»
«I greci contro i greci, allora?»
«Io sono dalla parte dei troiani. Hanno combattuto per una donna.»
«Ma sono stati sconfitti.»
«Ci sono cose peggiori della cattura,» lei rispose.
«Stai galoppando a briglia sciolta.»
«È l'andatura a determinare la vita,» fu la risposta.
«Lo scriverò nel mio diario, questa sera.»
«Che cosa?»
«Che un bambino scottato ama il fuoco.»
«Non mi sono nemmeno bruciacchiata. Le ali sono intatte.»
«Le usi per tutto, fuorché per volare.»
«Il coraggio è passato dagli uomini alle donne. È una nuova esperienza per noi.»
«Hai una rivale.»
«Chi è?»
Lui rise. «Lady Narborough,» sussurrò. «Lo adora.»
«Mi metti in ansia. Il richiamo dell'antichità è fatale per noi romantiche.»
«Romantiche! Avete tutti i metodi della scienza.»
«Ci hanno educate gli uomini.»
«Ma non vi hanno spiegate.»
«Prova a definirci come sesso,» lo sfidò.
«Sfingi senza segreti.»
Lei lo guardò sorridendo. «Quanto tempo ci mette, il signor Gray!» disse. «Andiamo a dargli una mano. Non
gli ho ancora detto il colore del mio vestito.»
«Ah, ma devi intonare il vestito ai suoi fiori, Gladys.»
«Sarebbe una resa prematura.»
«L'arte romantica comincia dal punto culminante.»
«Devo lasciarmi una via di ritirata.»
«Alla maniera dei Parti?»
«Loro si salvarono nel deserto. Io non potrei farlo.»
«Le donne non sempre hanno la possibilità di scelta,» rispose, ma aveva appena finito la frase quando,
dall'altra estremità della serra, giunse un gemito soffocato, seguito dal tonfo sordo di un corpo che cade pesantemente.
Tutti balzarono in piedi. La duchessa era impietrita dal terrore. Con la paura negli occhi, Lord Henry si precipitò tra le
palme alitanti e trovò Dorian Gray disteso con il volto contro il pavimento di mattoni, svenuto.
Venne immediatamente portato nel salotto azzurro e disteso su un divano. Dopo poco tempo rinvenne e si
guardò intorno con un'espressione inebetita.
«Che cosa è successo?» domandò. «Oh! ricordo. Sono al sicuro qui?» Cominciò a tremare.
«Mio caro Dorian,» rispose Lord Henry, «sei semplicemente svenuto, tutto qui. Devi esserti stancato troppo. È
meglio che tu non scenda a cena. Prenderò io il tuo posto.»
«No, scenderò,» disse Dorian rimettendosi in piedi. «Preferisco scendere. Non devo stare solo.»
Salì in camera sua e si vestì. A tavola fu di un'allegria sfrenata e noncurante, ma ogni tanto lo scuoteva un
fremito di terrore quando ricordava di aver visto, premuto contro il vetro della serra come un fazzoletto bianco, il viso
di James Vane che lo fissava.

XVIII
Il giorno dopo non uscì di casa ma passò quasi tutto il tempo nella sua stanza, in preda ad una folle paura della
morte e tuttavia indifferente alla vita. Cominciava a dominarlo la consapevolezza di essere cacciato, spiato, preso.
Sussultava se il vento muoveva appena una tenda. Le foglie morte che urtavano i vetri piombati gli sembravano i suoi
proponimenti sprecati e i suoi folli rimpianti. Quando chiudeva gli occhi, rivedeva il viso del marinaio che lo spiava
attraverso i vetri annebbiati e, di nuovo, gli pareva che l'orrore gli avvolgesse il cuore.
Forse, però, era stata solo la sua fantasia che aveva gridato vendetta nel buio della notte mettendogli dinanzi
agli occhi le orrende immagini della punizione. La vita concreta è un caos, ma c'è qualche cosa di tremendamente logico
nell'immaginazione. È l'immaginazione che spinge il rimorso sulle tracce del peccato. È l'immaginazione che fa
sopportare a ogni delitto le sue conseguenze deformi. Nella realtà di ogni giorno i malvagi non vengono puniti, né i
buoni ricompensati: il successo premia i forti, il fallimento schiaccia i deboli. Nient'altro. D'altra parte, se intorno alla
casa si fosse aggirato un estraneo i domestici o i custodi lo avrebbero visto. Se i giardinieri avessero scoperto delle
impronte sulle aiuole lo avrebbero riferito. Sì, era stata solo la sua fantasia. Il fratello di Sibyl Vane non era ritornato per
ucciderlo. Era salpato con la sua nave per naufragare in qualche bufera invernale. Da lui, ad ogni modo, era al sicuro.
Dopotutto quell'uomo non sapeva chi fosse: non poteva saperlo. La maschera della giovinezza lo aveva salvato.
Se però era stata semplicemente un'illusione, quanto era terribile pensare che la coscienza potesse far sorgere
così terribili fantasmi, dare loro forma visibile, farli muovere davanti a noi! Che vita sarebbe mai stata la sua se giorno e
notte le ombre del suo delitto l'avessero spiato da angoli silenziosi, l'avessero deriso da luoghi nascosti, gli avessero
bisbigliato all'orecchio durante i banchetti, l'avessero svegliato con dita di ghiaccio mentre dormiva! Mentre quest'idea
si impadroniva lentamente della sua mente, divenne pallido di paura e l'aria gli parve farsi improvvisamente gelida. Oh!
in quale selvaggio istante di follia aveva ucciso il suo amico! Com'era orribile il solo ricordo della scena. La rivedeva
tutta. Ogni disgustoso particolare tornava a lui ancora più orribile. Dalla nera caverna del tempo, terribile e fasciata di
scarlatto, sorgeva l'immagine della sua colpa. Quando Lord Henry alle sei entrò nella sua stanza lo trovò che piangeva
come se gli si spezzasse il cuore.
Soltanto tre giorni dopo si arrischiò ad uscire. Nell'aria limpida e odorosa di pino, di quel mattino d'inverno
c'era qualche cosa che sembrava restituirgli l'allegria e la voglia di vivere. Ma non erano state solo le condizioni
ambientali a produrre il cambiamento: la sua natura si era ribellata all'eccessiva angoscia che aveva cercato di tarpare e
di guastare la sua perfetta serenità. Ai temperamenti delicati e complicati succede sempre così: le forti passioni, li
schiacciano o ne vengono schiacciate, li uccidono o ne vengono uccise. Solo le passioni o i dispiaceri superficiali
continuano a vivere, mentre i grandi amori, o i grandi dolori, sono distrutti dalla loro stessa, pienezza. D'altra parte, si
era convinto di essere stato vittima della sua immaginazione sconvolta dal terrore, e ripensava alle sue paure con un po'
di pietà e non poco disprezzo.
Dopo colazione fece una passeggiata di un'ora nel giardino con la duchessa, poi attraversò in carrozza il parco
per raggiungere la partita di caccia. Uno strato di brina scricchiolante ricopriva l'erba come se fosse sale. Il cielo era una
coppa rovesciata di metallo blu. Un sottile strato di ghiaccio orlava lo stagno coperto di giunchi.
All'angolo della pineta scorse Sir Geoffrey Clouston, fratello della duchessa, che estraeva dal fucile due
cartucce esplose. Scese con un salto dalla carrozza e, dopo aver detto al servo di riportare la cavalla nella scuderia, andò
in direzione dell'ospite facendosi strada tra i rami spogli e il fitto, sottobosco.
«Hai fatto buona caccia, Geoffrey?» domandò.
«Non tanto, Dorian. Credo che la maggior parte degli uccelli sia andata, all'aperto. Penso che le cose
miglioreranno dopo mezzogiorno, quando, passeremo in un'altra zona.»
Dorian si incamminò al suo fianco. L'aria sottile e profumata, le luci rosse e brune che balenavano nel bosco, le
grida rauche dei battitori che si levavano ogni tanto, i secchi colpi di fucile che le seguivano, lo affascinavano e lo
colmavano di un senso di deliziosa libertà. Si sentiva dominato dalla spensieratezza della felicità, dall'estrema
indifferenza della gioia. Improvvisamente, da un ciuffo di erba secca una ventina di metri davanti a loro, le orecchie
dalla punta nera erette, le lunghe zampe posteriori scattanti, uscì di corsa una lepre e fuggì verso un folto di ontani. Sir
Geoffrey imbracciò il fucile, ma nella grazia dei movimenti dell'animale c'era qualche cosa che incantava stranamente
Dorian Gray; gridò subito: «Non sparare, Geoffrey. Lasciala vivere.»
«Che assurdità, Dorian!» rispose il compagno. E sparò mentre la lepre si infilava nel folto.
Si sentirono due grida: quello terribile di una lepre ferita, e quello di un uomo colpito a morte, più terribile
ancora.
«Santo cielo! Ho colpito un battitore!» esclamò Sir Geoffrey. «Che somaro a mettersi di fronte a un fucile!
Smettete di sparare, laggiù!» gridò a tutta voce. «C'è un ferito.»
Il capocaccia arrivò di corsa con un bastone in mano.
«Dove, signore? Dov'è?» gridò. Contemporaneamente, lungo la linea dei cacciatori gli spari cessarono.
«Qui,» rispose rabbioso Sir Geoffrey, correndo verso il folto. «Perché diavolo non tiene indietro i suoi uomini?
Mi ha rovinato la caccia per tutta la giornata.»
Dorian li osservò entrare nel boschetto di ontani, scostando i rami. Pochi momenti dopo ne uscirono
trascinando un corpo alla luce del sole. Si girò sopraffatto dall'orrore. Pareva che la sfortuna lo seguisse ovunque
andasse. Udì Sir Geoffrey domandare se l'uomo era morto davvero e la risposta affermativa del guardiacaccia. Gli parve
che il bosco si fosse improvvisamente animato di facce. Si sentiva il calpestio di migliaia di piedi e un sommesso
mormorio. Un grande fagiano dal petto color rame passò alto sopra i rami, battendo le ali.
Dopo pochi istanti, che nel suo turbamento gli parvero ore di sofferenza interminabili, sentì una mano
posarglisi sulla spalla. Sobbalzò e si guardò intorno..
«Dorian,» disse Lord Henry, «sarebbe meglio dire che per oggi la caccia è sospesa. Non farebbe una bella
impressione se si continuasse.»
«Vorrei che venisse sospesa per sempre, Harry,» rispose amaro. «È una cosa ripugnante e crudele. Quell'uomo
è... ?»
«Temo di sì,» rispose Lord Henry. «Si è preso tutta la scarica nel petto. Deve essere morto quasi
istantaneamente. Vieni, andiamo a casa.»
Camminarono insieme lungo il viale per una cinquantina di metri, in silenzio. Poi Dorian guardò Lord Henry e
disse, con un profondo sospiro: «È un cattivo presagio, Harry, molto cattivo.»
«Che cosa?» domandò Lord Henry. «Oh, l'incidente, suppongo. Mio caro amico, non lo si poteva evitare. È
stata colpa dell'uomo. Perché si è messo davanti ai fucili? D'altra parte, non ci riguarda direttamente. È piuttosto
scocciante per Geoffrey, naturalmente. La gente poi dice che uno non sa sparare. E Geoffrey non se lo merita: ha
un'ottima mira. Ma è inutile parlare ancora di questa faccenda.»
Dorian scosse il capo. «È un cattivo presagio, Harry. Sento come se, qualche cosa di terribile dovesse capitare
a qualcuno di noi. A me, forse,» aggiunse, passandosi una mano sugli occhi con un gesto di sofferenza.
Il più anziano dei due rise. «L'unica cosa terribile al mondo è l'ennui, Dorian. È l'unico peccato per il quale non
esiste perdono. Ma non è probabile che ne soffriremo, a meno che gli amici non si mettano a parlare della faccenda a
pranzo. Devo dire loro che l'argomento è tabù. E per quanto riguarda i presagi, cose simili non esistono. Il destino non
invia araldi. È troppo saggio o troppo crudele per farlo. D'altronde, che cosa ti potrebbe capitare, Dorian? Hai tutto ciò
che un uomo può desiderare. Non esiste nessuno che non sarebbe felice di essere al tuo posto.»
«E non esiste nessuno con cui non sarei disposto a cambiarlo, Harry. Non ridere così. Ti sto dicendo la verità.
Quel disgraziato contadino che è appena morto, sta meglio di me. Non ho paura della morte. È il suo approssimarsi che
mi fa paura. Mi sembra che le sue ali mostruose battano intorno a me nell'aria plumbea. Santo cielo! Non vedi un uomo
che si muove tra gli alberi, laggiù, che mi sta osservando, che mi aspetta?»
Lord Henry guardò nella direzione che la mano coperta dal guanto indicava tremando. «Sì,» disse sorridendo.
«Vedo il giardiniere che ti aspetta. Immagino che voglia chiederti quali fiori vuoi sulla tavola stasera. Sei assurdamente
nervoso, mio caro! Quando ritorneremo in città dovrai andare dal mio medico.»
Dorian sospirò di sollievo, vedendo avvicinarsi il giardiniere. L'uomo si toccò il berretto, diede un'occhiata
esitante a Lord Henry, poi estrasse una lettera e la porse al padrone. «Sua Grazia mi ha detto di aspettare la risposta,»
mormorò.
Dorian infilò la lettera in tasca. «Di' a Sua Grazia che sto rientrando,» disse freddamente. L'uomo si voltò e si
diresse rapido verso la casa.
«Le donne hanno la passione di fare le cose pericolose,» disse ridendo Lord Henry. «È una delle doti che
ammiro di più in loro. Una donna sarebbe disposta a flirtare con chiunque purché la notassero.»
«E tu hai la passione di dire le cose pericolose, Harry. In questo momento sei completamente fuori strada. La
duchessa mi piace molto ma non l'amo.»
«E la duchessa ti ama molto, ma le piaci molto meno, quindi siete perfettamente assortiti.»
«Stai facendo pettegolezzi, Harry, e i pettegolezzi, non hanno mai una base.»
«La base di tutti i pettegolezzi è una certezza immorale,» disse Lord Henry accendendo una sigaretta.
«Tu, Harry, saresti disposto a sacrificare chiunque sull'altare di una battuta.»
«La gente sale sull'altare di sua volontà,» fu la risposta.
«Vorrei poter amare,» esclamò Dorian Gray con una commozione profonda nella voce. «Ma mi pare di aver
perso la passione e dimenticato il desiderio. Mi concentro troppo su me stesso. La mia personalità si è fatta un peso.
Voglio fuggire, andarmene via, dimenticare. Ho fatto una sciocchezza a venire qui. Credo che spedirò un telegramma a
Harvey perché mi faccia allestire lo yacht. Su uno yacht si è al sicuro.»
«Al sicuro da che cosa, Dorian? Tu devi trovarti in qualche guaio. Perché non mi dici di che cosa si tratta? Sai
che ti aiuterei.»
«Non posso dirtelo, Harry,» rispose Dorian tristemente. «E forse si tratta solo di una mia fantasia. Questo
disgraziato incidente mi ha sconvolto. Ho l'orribile presentimento che succederà anche a me qualche cosa del genere.»
«Che assurdità.»
«Lo spero, ma non posso fare a meno di sentire così. Ah, ecco la duchessa: sembra Artemide con un abito su
misura. Come vede, siamo tornati, duchessa.»
«Ho saputo tutto, signor Gray,» lei rispose. «Il povero Geoffrey è terribilmente sconvolto. E pare che lei gli
abbia chiesto di non sparare. Che strano!»
«Sì, è molto strano. Non so che cosa mi abbia spinto a dirlo. Un capriccio, immagino. Mi pareva un animaletto
bellissimo. Mi dispiace che le abbiano raccontato di quell'uomo. È un argomento odioso.»
«È un argomento noioso,» interruppe Lord Henry. «Non ha nessun interesse psicologico. Quanto sarebbe stato
interessante, invece, se Geoffrey lo avesse fatto apposta! Mi piacerebbe conoscere qualcuno che ha commesso un delitto
vero e proprio.»
«È orribile da parte tua, Harry!» esclamò la duchessa. «Non le pare, signor Gray? Il signor Gray si sente male
di nuovo. Sta per svenire.»
Dorian Gray si riprese con uno sforzo e sorrise. «Non è nulla, duchessa,» mormorò, «ho i nervi terribilmente
scossi, tutto qui. Temo di aver camminato troppo questa mattina. Non ho sentito quel che ha detto Harry. Era una cosa
molto brutta? Devi dirmela, in qualche altra occasione. Credo di dover andare a stendermi un poco. Mi scusate, vero?»
Erano arrivati alla grande gradinata che portava dalla serra al terrazzo. Appena la porta a vetri si fu chiusa alle
spalle di Dorian, Lord Henry si voltò e si rivolse alla duchessa, fissandola con i suoi occhi sonnolenti. «Ne sei molto
innamorata?» domandò.
Per un po' la duchessa non rispose; osservava immobile il paesaggio. «Vorrei saperlo,» rispose alla fine.
Lord Henry scosse il capo. «Il saperlo sarebbe fatale. È l'incertezza che affascina. La nebbia rende le cose
meravigliose.»
«Si può perdere la strada.»
«Mia cara Gladys, tutte le strade conducono allo stesso punto.»
«E cioè?»
«Alla disillusione.»
«È stato il mio debut nella vita,» sospirò lei.
«Ti è arrivato con la corona.»
«Sono stanca delle sue foglie di fragola.»
«Ti stanno bene.»
«Solo in pubblico.»
«Ti mancherebbero,» disse Lord Henry.
«Non vorrei perderne nemmeno una.»
«Monmouth ha le orecchie.»
«I vecchi sono duri d'orecchio.»
«Non è mai stato geloso?»
«Vorrei che lo fosse stato.»
Lord Henry si guardò intorno cercando qualcosa. «Che cosa stai cercando?» domandò lei.
«Il bottone del tuo fioretto,» rispose Lord Henry. «Lo hai lasciato cadere.»
Lei rise. «Ho ancora la maschera.»
«Ti abbellisce gli occhi,» fu la risposta.
La duchessa rise di nuovo. I denti apparvero come minuscoli semi bianchi in un frutto scarlatto.
Sopra, nella sua stanza, Dorian Gray, sdraiato su un divano, fremeva di terrore in ogni fibra. D'improvviso la
vita era diventata un fardello troppo pesante da sopportare. L'orribile morte dello sfortunato battitore, colpito nel
boschetto come un animale selvatico, gli pareva prefigurare anche la sua morte. Le parole che Lord Henry aveva detto
in un moto casuale di scherzoso cinismo, per poco non lo avevano fatto svenire.
Alle cinque suonò per il cameriere e gli ordinò di preparargli le valige, in tempo per il rapido della sera per
Londra, e di far preparare la carrozza alla porta per le otto e mezzo. Era deciso a non dormire a Selby Royal una notte di
più. Era un luogo di malaugurio. La morte vi appariva alla luce del sole. L'erba del bosco era macchiata di sangue.
Poi scrisse un biglietto per Lord Henry, dicendogli di intrattenere gli ospiti durante la sua assenza. Mentre
stava infilandolo nella busta, bussarono alla porta e il cameriere lo informò che il sovrintendente desiderava vederlo. Si
accigliò e si morse le labbra. «Fallo entrare,» mormorò, dopo alcuni attimi di esitazione.
Appena l'uomo fu entrato Dorian tirò fuori il libretto degli assegni da un cassetto e lo aprì davanti a sé.
«Immagino che lei sia venuto per la disgrazia di questa mattina, Thornton,» disse, prendendo la penna.
«Sì, signore,» rispose il capocaccia.
«Era sposato quel poveretto? Aveva qualcuno a carico?» domandò Dorian con espressione annoiata. «In caso
positivo, non vorrei che questa gente si trovasse in difficoltà e farò loro avere qualunque somma lei ritenga necessaria.»
«Non sappiamo chi sia, signore. Per questo mi sono preso la libertà di venire da lei.»
«Non sa chi sia?» domandò Dorian in tono indifferente. «Che cosa intende dire? Non era uno dei suoi
uomini?»
«No, signore. Mai visto prima. Sembra un marinaio, signore.»
Dorian lasciò cadere la penna di mano e gli parve che il cuore avesse improvvisamente smesso di battere. «Un
marinaio?» gridò. «Ha detto un marinaio?»
«Sì, signore. Ha l'aria di essere stato qualche cosa di simile. Ha tatuaggi su tutte e due le braccia e roba del
genere.»
«Aveva qualche cosa addosso?» domandò Dorian, piegandosi in avanti e guardando l'uomo con occhi sbarrati.
«Qualche cosa che permetta di identificarlo?»
«Un po' di soldi, signore... non molti, e una pistola a sei colpi. Ma nessun nome. Sembra una persona come si
deve, signore, ma un po' rude. Una specie di marinaio, diremmo.»
Dorian balzò in piedi. Una terribile speranza aleggiava in lui e vi si aggrappò follemente. «Dov'è il corpo?»
esclamò. «Presto! Devo vederlo!»
«È in una stalla vuota alla fattoria, signore. I contadini non lo vogliono in casa: dicono che un morto porta
disgrazia.»
«Alla fattoria! Vada là immediatamente e mi aspetti. Dica a uno dei mozzi di portarmi qui un cavallo. No. Non
importa. Andrò alla scuderia a piedi, farò prima.»
Meno di un quarto d'ora dopo Dorian Gray galoppava a briglia sciolta sul lungo viale. Gli alberi sembravano
passargli a fianco in una spettrale processione, mentre ombre tumultuose si gettavano davanti a lui. La cavalla scartò a
un cancello bianco e per poco non lo disarcionò. La colpì sul collo col frustino. L'animale fendeva l'aria nebbiosa come
una freccia. I sassi schizzavano via sotto gli zoccoli.
Alla fine raggiunse la fattoria. Due uomini oziavano sull'aia. Balzò di sella e gettò le redini a uno dei due. Nella
stalla più lontana tremolava una luce. Qualche cosa sembrava dirgli che il corpo era là. Si affrettò verso la porta e posò
una mano sul chiavistello.
Si arrestò un attimo, sentendo che stava per fare una scoperta che gli avrebbe ridato la vita o gliel'avrebbe
distrutta. Quindi spalancò la porta ed entrò.
Nell'angolo più lontano, su un mucchio di sacchi, era disteso il corpo senza vita di un uomo vestito con una
camicia grezza e un paio di calzoni blu. Sul volto gli avevano messo un fazzoletto sudicio. Accanto crepitava una
candela grezza, infilata in una bottiglia.
Dorian Gray rabbrividì. Si rese conto che, con le sue mani, non sarebbe stato in grado di togliere il fazzoletto e
chiamò uno degli uomini della fattoria.
«Togligli quell'affare dalla faccia. Voglio vederlo,» disse, appoggiandosi allo stipite per sostenersi.
Quando l'uomo ebbe eseguito, avanzò di un passo. Un grido di gioia gli sfuggì dalle labbra. L'uomo che era
stato colpito nel folto era James Vane.
Rimase immobile per alcuni minuti a guardare il cadavere. Mentre cavalcava verso casa, aveva gli occhi pieni
di lacrime, perché sapeva di essere salvo.

XIX
«È inutile che tu mi dica che hai l'intenzione di diventare buono,» esclamò Lord Henry, immergendo le bianche
dita in una coppetta di rame rosso riempita di acqua di rose. «Così sei perfetto. Ti prego di non cambiare.»
Dorian scosse il capo. «No, Harry. Ho commesso troppe cose orribili nella mia vita. Non voglio commetterne
più. Ho cominciato ieri le mie buone azioni.»
«Dove sei stato ieri?»
«In campagna, Harry. In una piccola locanda, da solo.»
«Mio caro ragazzo,» esclamò Lord Henry, sorridendo, «in campagna tutti possono essere buoni: non ci sono
tentazioni. Per questo chi non vive in città è così profondamente incivile. La civiltà non è affatto facile da raggiungere.
Ci si può arrivare solo in due modi: attraverso la cultura o attraverso la corruzione. La gente di campagna non ha la
possibilità di essere né colta né corrotta: per questo ristagna.»
«Cultura e corruzione,» gli fece eco Dorian Gray. «Ho conosciuto un poco sia l'una che l'altra. Mi Pare terribile
ora che si debba sempre trovarle insieme. Adesso infatti ho un nuovo ideale, Harry. Sto cambiando, credo di essere già
cambiato.»
«Non mi hai ancora raccontato la tua buona azione. Oppure mi hai detto di averne fatta più di una?» domandò
l'amico, ammucchiando nel piatto una minuscola piramide cremisi di fragole e spolverandola di zucchero con un
cucchiaio traforato a forma di conchiglia.
«Te la posso dire, Harry, ma non è una storia che potrei raccontare a chiunque. Ho risparmiato una persona.
Potrà sembrarti vanità, ma capisci cosa voglio dire. Era molto bella e assomigliava moltissimo a Sibyl Vane. Forse per
questo mi ha attratto, all'inizio. Ricordi Sibyl, non è vero? Quanto tempo sembra che sia passato! Bene, Hatty non era
una del nostro ceto, naturalmente. Era solo una ragazza di campagna, ma l'amavo davvero. Sono sicuro che l'amavo. Per
tutto questo splendido mese di maggio sono andato a trovarla due o tre volte alla settimana. Ieri ci siamo incontrati in un
piccolo frutteto. I fiori del melo le cadevano di continuo sui capelli e lei rideva. Avremmo dovuto fuggire insieme
questa mattina all'alba. Improvvisamente decisi di lasciarla pura come un fiore, come l'avevo trovata.»
«Direi che la novità dell'emozione debba averti procurato un brivido di vero piacere, Dorian,» lo interruppe
Lord Henry. «Ma posso finire io la storia di questo idillio. Le hai dato dei buoni consigli e le hai spezzato il cuore.
Questo è stato l'inizio della tua redenzione.»
«Harry, sei terribile! Non devi dire queste cose tremende. Non ho spezzato il cuore di Hatty. Naturalmente ha
pianto, e così via. Ma non l'ha colpita nessuna disgrazia. Può continuare a vivere, come Perdita, nel suo giardino di
menta e calendule.»
«E piangere su un infedele Florizel,» disse Lord Henry ridendo e abbandonandosi all'indietro sulla sedia. «Mio
caro Dorian, sei stranamente infantile. Credi che questa ragazza, adesso, sarà mai veramente soddisfatta con uno della
sua condizione? Immagino che un giorno la sposeranno a un rozzo carrettiere o a un bifolco dall'espressione ebete.
Bene, il semplice fatto di averti incontrato, di averti amato, le insegnerà a disprezzare il marito e sarà rovinata. Dal
punto di vista morale, non mi pare che la tua grande rinuncia abbia un notevole valore. Anche come inizio, è misero.
D'altra parte, come fai ad essere sicuro che in questo momento questa Hatty non stia galleggiando in qualche stagno
illuminato dalla luna, circondata da belle ninfee come Ofelia?»
«È insopportabile, Harry! Ridi di tutto e poi suggerisci le peggiori tragedie. Ora mi dispiace di avertelo
raccontato. Ma non mi importa di ciò che mi dici. So di aver avuto ragione comportandomi così. Povera Hatty! Questa
mattina mentre passavo a cavallo davanti alla fattoria ho visto alla finestra il suo pallido viso, come un tralcio di
gelsomini. Non parliamone più e non cercare di convincermi che la prima buona azione che ho fatto da anni, il mio
primo piccolo sacrificio, sia in realtà una specie di peccato. Voglio essere migliore. Ma parlami un poco di te. Che cosa
succede in città? Non vado al club da diversi giorni.»
«La gente parla sempre della scomparsa del povero Basil.»
«Pensavo che se ne fossero stancati, ormai,» disse Dorian, versandosi un po' di vino e aggrottando leggermente
le sopracciglia.
«Mio caro ragazzo, ne parlano soltanto da sei settimane e il pubblico britannico non ha assolutamente le
capacità intellettuali di trovare più di un argomento nuovo ogni tre mesi. Tuttavia, negli ultimi tempi ha avuto molta
fortuna. Ci sono stati il mio processo di divorzio e il suicidio di Alan Campbell. Adesso c'è la misteriosa scomparsa di
un artista. Scotland Yard insiste ancora nel dire che l'uomo dall'ulster grigio partito il nove di novembre per Parigi con
il treno di mezzanotte fosse il povero Basil mentre la polizia francese dichiara che Basil non è affatto giunto a Parigi.
Immagino che fra un paio di settimane verremo a sapere che è stato visto a San Francisco. È strano, ma tutti quelli che
scompaiono li vedono a San Francisco. Dev'essere una città deliziosa, dotata di tutte le attrattive dell'altro mondo.»
«Che cosa credi che sia successo a Basil?» domandò Dorian, osservando controluce il borgogna e chiedendosi
come mai potesse parlare con tanta calma dell'argomento.
«Non ne ho la minima idea. Se Basil decide di nascondersi, non è affar mio. Se è morto, non voglio pensarci.
La morte è l'unica cosa che mi terrorizza. La odio.»
«Perché?» domandò il giovane con voce stanca.
«Perché,» disse Lord Henry, passandosi sotto le narici la griglia dorata di una boccettina di sali, «oggi a tutto si
può sopravvivere fuorché a questo. La morte e la volgarità, nel diciannovesimo secolo, sono gli unici due fenomeni che
non si riescono a spiegare. Andiamo a prendere il caffè nella sala da musica, Dorian. Devi suonarmi Chopin. L'uomo
con cui è scappata mia moglie suonava Chopin divinamente. Povera Victoria! Le volevo molto bene. La casa è vuota
senza di lei. Ovviamente la vita coniugale è solo un'abitudine, una cattiva abitudine. Ma si rimpiangono sempre le
perdite, anche delle peggiori abitudini. Forse sono quelle che si rimpiangono di più. Sono una parte così essenziale della
nostra personalità.»
Dorian non disse nulla ma si alzò e, trasferitosi nella stanza accanto, sedette al pianoforte facendo scorrere le
dita sull'avorio bianco e nero dei tasti. Quando ebbero portato il caffè, si interruppe e, guardando Lord Henry, disse.:
«Harry, hai mai pensato che Basil possa essere stato assassinato?»
Lord Henry sbadigliò. «Basil era simpatico a tutti e portava sempre un orologio Waterbury. Perché avrebbero
dovuto assassinarlo? Non era abbastanza intelligente per avere nemici. Naturalmente, per la pittura aveva un talento
straordinario, ma si può dipingere come Velasquez ed essere tuttavia la persona più ottusa del mondo. Basil era davvero
alquanto ottuso. Mi ha interessato una sola volta, quando mi ha detto che aveva per te un'adorazione folle e che eri il
motivo dominante della sua arte.»
«Volevo molto bene a Basil,» disse Dorian con una nota di tristezza nella voce. «Ma non si dice che è stato
assassinato?»
«Oh, lo sostengono alcuni giornali. A me però sembra del tutto improbabile. So che ci sono dei posti pericolosi
a Parigi, ma Basil non era il tipo da frequentarli. Non era curioso. Era il suo principale difetto.»
«Che cosa diresti, Harry, se ti confessassi che sono stato io ad uccidere Basil?» disse il giovane osservandolo
attentamente mentre pronunciava queste parole.
«Direi, mio caro amico, che cerchi di recitare una parte che non ti si addice. Ogni delitto è volgare, proprio
come è un delitto la volgarità. Commettere un delitto, Dorian, non è da te. Mi dispiacerebbe ferire la tua vanità,
dicendoti questo, ma ti assicuro che è vero. Il delitto è un'esclusività delle classi inferiori, e non le biasimo affatto per
questo. Immagino che per loro rappresenti quello che per noi è l'arte: semplicemente un metodo per procurarsi
straordinarie sensazioni.»
«Un metodo per procurarsi sensazioni? Allora, secondo te, chi ha commesso un delitto una volta ne potrebbe
commettere un altro? Non mi dirai una cosa simile.»
«Oh, ogni cosa si trasforma in un piacere se la si fa troppo spesso,» disse Lord Henry ridendo. «Questo è uno
dei più importanti segreti dell'esistenza. Tuttavia, secondo me il delitto è sempre un errore. Non si dovrebbe mai fare
nulla di cui non si possa parlare dopo pranzo. Ma lasciamo perdere il povero Basil. Vorrei poter credere che abbia avuto
davvero una morte romantica come quella che hai immaginato, ma non posso. Forse è caduto nella Senna da un
omnibus e il conduttore ha soffocato lo scandalo. Sì, suppongo che questa sia stata la sua fine. Lo vedo disteso supino
sotto quell'acqua verde sporco mentre le chiatte gli passano sopra e le lunghe alghe gli si impigliano nei capelli. Sai,
penso che non avrebbe più fatto nulla di buono. Negli ultimi dieci anni la sua pittura era molto calata di tono.»
Dorian sospirò; Lord Henry attraversò la stanza e cominciò ad accarezzare uno strano pappagallo di Giava, un
grosso uccello dalle piume grige con la cresta e la coda rosa, in equilibrio su un trespolo di bambù. Al tocco delle dita
affusolate, l'uccello lasciò cadere la bianca pellicola rugosa delle palpebre sui neri occhi di cristallo e cominciò a
oscillare avanti e indietro.
«Sì,» proseguì voltandosi e levando di tasca il fazzoletto, «la sua pittura era assolutamente calata di tono. Mi
pareva che avesse perso qualche cosa. Aveva perduto, un ideale. Da quando non foste più grandi amici, cessò di essere
un grande artista. Che cosa vi aveva divisi? Immagino che ti sia venuto a noia. Se è così, non te lo perdonò mai. È tipico
delle persone noiose. A proposito, che cosa è successo di quel meraviglioso ritratto che ti fece? Non mi sembra di
averlo visto da quando fu terminato. Ah, ricordo: un giorno, anni fa, mi hai detto che lo avevi spedito a Selby e che era
stato rubato o era andato perduto durante il viaggio. Non l'hai più ritrovato? Che peccato! Era davvero un capolavoro.
Ricordo che volevo comperarlo. Vorrei averlo fatto, ora. Era del miglior periodo di Basil. Da allora la sua pittura è stata
quel curioso, miscuglio di pessima pittura e di ottime intenzioni che permette sempre a un uomo di essere chiamato un
esponente rappresentativo dell'arte britannica. Hai fatto delle inserzioni per ritrovarlo? Dovresti farlo.»
«Me ne sono dimenticato,» disse Dorian. «Forse le ho fatte. Ma non mi è mai piaciuto veramente. Mi dispiace
di aver posato: il suo ricordo mi è odioso. Perché ne parli? Mi ha sempre ricordato quegli strani versi di una commedia -
l'Amleto mi pare - come dicono?
"Come il ritratto di una pena
un volto senza cuore,"
Sì, era proprio così.»
Lord Henry rise. «Se un uomo ha con la vita un rapporto artistico, ha il cervello nel cuore,» rispose,
affondando in una poltrona.
Dorian Gray scosse il capo e toccò alcune note basse. «Come il ritratto di una pena,» ripeté, «un volto senza
cuore.»
Il più anziano si allungò sulla poltrona e lo guardò socchiudendo gli occhi. «A proposito, Dorian,» disse dopo
un silenzio, «"che cosa guadagna un uomo se conquista il mondo intero e perde" - com'è la citazione? - "e perde
l'anima?"»
La musica ebbe una dissonanza. Dorian Gray sussultò poi fissò l'amico. «Perché me lo domandi, Harry?»
«Mio caro amico,» disse Lord Henry inarcando meravigliato le sopracciglia, «te lo chiedo perché pensavo che
fossi capace di darmi una risposta. Tutto qui. Domenica scorsa attraversavo il Park; vicino a Marble Arch c'era una
piccola folla di straccioni che ascoltava uno dei soliti predicatori di strada. Mentre passavo sentii urlare questa domanda
all'auditorio. Mi colpì perché era piuttosto drammatica. Londra ti dà molte impressioni di questo genere: una domenica
piovosa, un cristiano arruffato con un impermeabile, un cerchio di facce pallide e malaticce sotto un tetto ineguale di
ombrelli gocciolanti e una magnifica frase lanciata nell'aria da una voce stridula, isterica... era davvero bellissimo, a suo
modo, molto suggestivo. Pensavo di rispondere al profeta che l'arte ha un'anima, l'uomo no. Temo però che non mi
avrebbe capito.» «No, Harry. L'anima è una terribile realtà; la si può comperare, vendere e barattare. La si può
avvelenare o rendere perfetta. Ognuno di noi ha un'anima. Lo so.»
«Ne sei assolutamente certo, Dorian?»
«Assolutamente certo.»
«Ah! Allora dev'essere un'illusione. Le cose di cui si è assolutamente certi non sono mai vere. È questa la
fatalità della fede, la lezione del sentimento. Che aria solenne! Non essere così serio. Che cosa abbiamo a che fare, tu ed
io, con le superstizioni della nostra epoca? No: abbiamo abbandonato la nostra fede nell'anima. Suonami qualche cosa,
suonami un notturno, Dorian. E mentre suoni, dimmi a bassa voce come hai fatto a conservare la giovinezza. Devi avere
un segreto. Ho solo dieci anni più di te e sono pieno di rughe, sono logoro e ingiallito. Sei proprio meraviglioso, Dorian.
Non sei mai stato bello come stasera. Mi ricordi il giorno in cui ti vidi per la prima volta. Eri piuttosto sfacciato, molto
timido e assolutamente straordinario. Certo sei cambiato, ma non nell'aspetto. Vorrei che mi dicessi il tuo segreto. Farei
di tutto per ritrovare la giovinezza, fuorché ginnastica, alzarmi presto e comportarmi come si deve. Giovinezza! Non c'è
nulla che la equivalga. È assurdo parlare dell'ignoranza della giovinezza. Le sole persone di cui oggi ascolto le opinioni
con un certo rispetto sono molto più giovani di me. Mi pare che siano più avanti di me. La vita ha rivelato loro le sue
più recenti meraviglie. Quanto ai vecchi, li contraddico sempre. Per motivi di principio. Se chiedi qual'è il loro punto di
vista su un fatto accaduto ieri, ripetono solennemente le opinioni -correnti del 1820 quando la gente portava il colletto
alto, credeva a tutto e non sapeva assolutamente nulla. Che bello il pezzo che stai suonando! Chissà se Chopin l'ha
scritto a Maiorca mentre il mare singhiozzava intorno alla villa e gli spruzzi salmastri si frangevano contro i vetri? È
meravigliosamente romantico. È una benedizione che ci sia rimasta un'arte non contraffatta! Non smettere. Stasera ho
voglia di musica. Mi pare che tu sia il giovane Apollo e io Marsia che l'ascolta. Intimamente soffro, Dorian, per cose
che nemmeno tu sai. La tragedia della vecchiaia non sta nel fatto di essere vecchi ma in quello di essere giovani. A volte
la mia stessa sincerità mi sorprende. Ah, Dorian, come sei felice! Che vita splendida hai avuto! Hai bevuto a sazietà
ogni cosa, hai mangiato l'uva direttamente dal grappolo, nulla ti è rimasto nascosto e tutto è stato per te solo il suono
della musica. Non ti ha logorato. Sei sempre lo stesso.»
«Non sono lo stesso, Harry.»
«Sì, lo sei. Mi domando come sarà il resto della tua vita. Non rovinarlo con rinunce. Attualmente sei perfetto.
Non togliere qualcosa alla tua perfezione. Non hai difetti, ora. Non far segno di no: lo sai benissimo. E poi, Dorian, non
ingannare te stesso. La vita non è retta dalla volontà o dalle intenzioni. La vita è una questione di nervi di fibre e di
cellule in lenta formazione, in cui il pensiero si nasconde e la passione elabora i suoi sogni. Puoi immaginare di essere
salvo e crederti forte, ma una nota casuale di colore in una stanza o nel cielo mattutino, un particolare profumo che un
tempo hai amato e che associ a sottili ricordi, il verso di una poesia dimenticata che ti si ripresenta:, il ritmo di un pezzo
musicale che hai smesso di suonare... ti dico, Dorian, da cose come queste dipende la vita. Browning lo ha scritto da
qualche parte, ma i nostri sensi lo immaginano per noi. Ci sono momenti in cui l'odore di lilas blanc mi colpisce
all'improvviso e sono costretto a rivivere quello strano mese della mia vita. Vorrei essere al tuo posto, Dorian. La gente
ha sempre parlato male di noi due ma per te ha sempre avuto un'adorazione e ti adorerà sempre. Tu sei il modello di ciò
che la nostra epoca sta cercando e che teme di aver trovato. Sono così contento che non hai mai fatto nulla, che non hai
mai scolpito una statua, dipinto un quadro o creato qualche cosa se non te stesso! La vita è stata la tua arte: ti sei dato
alla musica e i tuoi giorni sono i tuoi sonetti.»
Dorian si alzò dal pianoforte passandosi una mano fra i capelli. «Sì, la vita è stata squisita,» mormorò, «ma non
condurrò più questa vita, Harry. E non devi dirmi queste cose bizzarre. Di me non sai tutto. Credo che se lo sapessi,
anche tu ti allontaneresti da me. Ridi, ma non è il caso.»
«Perché hai smesso di suonare, Dorian? Torna al pianoforte e suonami di nuovo quel notturno. Guarda quella
grande luna color miele sospesa nell'aria fosca. Aspetta che tu la incanti e, se suoni, si avvicinerà alla terra. Non vuoi?
Andiamo al club, allora. È stata una serata affascinante e dobbiamo finirla in modo affascinante. C'è una persona da
White che desidera infinitamente conoscerti: il giovane Lord Poole, il figlio minore di Bournemouth. Ha già copiato le
tue cravatte e mi ha pregato di presentartelo. È molto piacevole e ti assomiglia un poco.»
«Spero di no,» disse Dorian con un'espressione di tristezza nello sguardo. «Ma stasera sono stanco, Harry. Non
verrò al club. Sono quasi le undici e voglio andare a letto presto.»
«Rimani. Non hai mai suonato bene come questa sera. C'era nel tuo tocco qualche cosa di meraviglioso: una
forza espressiva che non avevo mai sentito prima.»
«È perché sto per diventar buono,» rispose Dorian, sorridendo. «Un poco sono già cambiato.»
«Per me non puoi cambiare, Dorian,» disse Lord Henry. «Tu ed io saremo sempre amici.»
«Tuttavia una volta mi hai avvelenato con un libro e non lo dimenticherò. Harry, promettimi che non presterai
a nessuno quel libro: è dannoso.»
«Mio caro ragazzo, adesso fai davvero il moralista. Tra poco andrai in giro come i convertiti e i revivalisti a
mettere in guardia la gente contro i peccati di cui ti sei stancato. Ma sei troppo bello per farlo. E, d'altra parte, è inutile:
tu ed io siamo quel che siamo e saremo quel che saremo. Quanto all'essere avvelenato da un libro, è una cosa
impossibile. L'arte non ha nessuna influenza sulle azioni: annulla il desiderio di agire. I libri che la gente dice immorali
sono quelli che rivelano alla gente le sue vergogne. Tutto qui. Ma non voglio discutere di letteratura. Fatti vedere,
domani. Andrò a cavalcare alle undici. Potremmo andare insieme e dopo ti porterò a cena da Lady Branksome. È una
donna piena di fascino e vorrebbe il tuo parere su alcune tappezzerie che intende comperare. Ricordati di venire.
Oppure andremo a pranzo con la nostra duchessina? Dice che non ti ha più visto. Ti sei forse stancato di Gladys? Lo
pensavo. Quei suoi discorsi intelligenti danno sui nervi. Bene, ad ogni modo, vieni alle undici.»
«Devo proprio venire?»
«Certo. Il Park è molto bello in questo periodo. Non credo che ci siano stati dei lillà così belli da quando ti ho
conosciuto.»
«Benissimo. Sarò qui alle undici,» disse Dorian. «Buona notte Harry.» Quando fu sulla soglia esitò un attimo,
come volesse dire ancora qualche cosa, poi sospirò ed uscì.

XX
Era una bella nottata, così tiepida che gettò il soprabito sul braccio e non si avvolse nemmeno la sciarpa di seta
intorno al collo. Mentre si dirigeva verso casa fumando una sigaretta, due giovani in abito da sera gli passarono accanto.
Sentì uno dei due sussurrare all'altro: «Quello è Dorian Gray.» Ricordò come gli faceva piacere una volta quando lo
indicavano, lo fissavano o parlavano di lui. Adesso era stanco di sentire ripetere il suo nome. Il fascino del piccolo
villaggio dove era stato tanto spesso negli ultimi tempi era dovuto per metà al fatto che nessuno sapeva chi fosse. Aveva
detto molte volte alla ragazza che aveva lusingato a innamorarsi di lui, di essere povero e lei gli aveva creduto. Una
volta le aveva detto di essere malvagio e lei aveva riso, dicendogli che i malvagi sono sempre vecchi e brutti. Quella sua
risata pareva il canto di un tordo. E come era bella con i suoi vestitini di cotone e i suoi grandi cappelli! Non sapeva
nulla ma aveva tutto ciò che lui aveva perduto.
A casa trovò il cameriere che lo attendeva. Lo mandò a letto, si distese sul divano della biblioteca e cominciò a
pensare ad alcune delle cose che Lord Henry gli aveva detto.
Era proprio vero che è impossibile cambiare? Provava un desiderio sfrenato per l'immacolata purezza
dell'adolescenza: la sua infanzia bianco rosata, come l'aveva chiamata una volta Lord Henry. Sapeva di essersi
macchiato, di aver colmato lo spirito di corruzioni, di aver nutrito di orrori la sua fantasia; sapeva di aver avuto
un'influenza maligna sugli altri e di aver provato una gioia terribile nel farlo; e sapeva che delle vite che avevano
attraversato la sua, proprio le più belle e le più ricche di promesse, erano state da lui condotte all'infamia. Ma era
irreparabile, tutto questo? Non aveva nessuna speranza?
Ah! in quale mostruoso attimo di orgoglio e di passione aveva invocato che il ritratto portasse il peso dei suoi
giorni, lasciando a lui l'immacolato candore dell'eterna giovinezza! A questo era dovuto il suo fallimento. Sarebbe stato
meglio, per lui, se ogni peccato avesse portato con sé il suo castigo certo e immediato. Il castigo purifica. Non «perdona
i nostri peccati», ma «colpiscici per le nostre iniquità» dovrebbe essere la preghiera dell'uomo nei confronti di un Dio
più giusto.
Lo specchio stranamente intagliato che Lord Henry gli aveva regalato molti anni prima era sulla tavola e, come
un tempo, gli amorini dalle bianche membra ridevano tutto intorno alla cornice. Lo sollevò, come aveva fatto in quella
notte tremenda quando per la prima volta aveva notato il cambiamento nel quadro fatale, e guardò la liscia superficie
con occhi disperati e colmi di lacrime. Una volta, una persona che lo aveva amato terribilmente gli aveva scritto una
lettera folle che terminava con queste parole di adorazione: «Il mondo è cambiato perché tu sei fatto di avorio e d'oro.
La curva delle tue labbra riscrive la storia.» La frase gli ritornò alla mente e la ripeté più volte tra sé, poi imprecò contro
la propria bellezza e, gettato lo specchio sul pavimento, lo ridusse a schegge d'argento sotto i tacchi. La bellezza lo
aveva rovinato, la bellezza e la giovinezza da lui invocata. Senza queste due cose, la sua vita avrebbe potuto essere
senza macchie. La sua bellezza era stata solo una maschera, la gioventù solo una beffa. Che cos'era la gioventù, nel
migliore dei casi? Un'età verde, acerba, un'età di amori superficiali e di pensieri morbosi. Perché ne aveva indossato la
livrea? La gioventù lo aveva rovinato.
Meglio non pensare al passato. Nulla poteva mutarlo. A se stesso, al suo futuro, doveva pensare. James Vane
era sepolto in una tomba senza nome nel cimitero di Selby. Alan Campbell si era sparato una sera nel suo laboratorio,
senza però rivelare il segreto che era stato costretto a conoscere. L'eccitazione per la scomparsa di Basil Hallward si
sarebbe esaurita presto. Stava già affievolendosi. Da quel lato si sentiva al sicuro. E, d'altra parte, non era la morte di
Basil Hallward che gli opprimeva la mente. Lo preoccupava piuttosto la morte vivente della sua anima. Basil aveva
dipinto il ritratto e gli aveva rovinato la vita. Non glielo poteva perdonare. Il ritratto era la causa di tutto. Basil gli aveva
detto delle cose intollerabili e tuttavia le aveva sopportate pazientemente. L'omicidio era stato solo un atto di follia
momentanea. Per quanto riguardava Alan Campbell, poi, era lui che si era ucciso. Lo aveva fatto di sua volontà, la cosa
non lo riguardava affatto.
Una nuova vita! Ecco che cosa voleva. Ecco che cosa attendeva. Certo l'aveva già iniziata. In ogni caso aveva
risparmiato una creatura innocente. Non avrebbe mai più insidiato l'innocenza, sarebbe stato buono.
Pensando a Hatty Merton, si domandò se il ritratto nella camera chiusa fosse cambiato. Certo, non doveva più
essere così orribile. Forse, se fosse riuscito a purificare la sua vita, sarebbe stato in grado di eliminare dal viso le tracce
di ignobili passioni. Forse le tracce del male erano già scomparse. Sarebbe andato a vedere.
Prese la lampada sulla tavola e salì cautamente le scale. Mentre apriva la porta, un sorriso di gioia gli sfiorò il
viso stranamente giovane e indugiò un attimo sulle labbra. Sì, sarebbe stato buono e l'orrenda cosa nascosta non lo
avrebbe più terrorizzato. Gli parve che il peso gli fosse già stato tolto di dosso.
Entrò tranquillamente, chiuse la porta alle sue spalle, come era solito fare, e tolse il panno cremisi dal ritratto.
Un grido di dolore e di indignazione gli sfuggì dalle labbra. Non riusciva a scorgere nessun cambiamento, se non negli
occhi che avevano assunto un'espressione scaltra e nella bocca sulla quale erano apparse le rughe dell'ipocrisia. La cosa
era sempre disgustosa - più ripugnante di prima, se possibile - e la rugiada scarlatta che macchiava la mano sembrava
più brillante, più simile a sangue appena versato. Allora cominciò a tremare. Solo per vanità aveva compiuto la sua
unica buona azione? Oppure per desiderio di una nuova sensazione, come aveva suggerito Lord Henry con la sua risata
beffarda? O per quel desiderio di recitare una parte che a volte ci fa compiere azioni migliori di noi? O forse per tutte
queste cose insieme? E come mai la macchia rossa si era allargata? Pareva essersi diffusa come un'orribile malattia sulle
dita rugose. C'era del sangue sui piedi come se fosse colato, sangue anche sulla mano che non aveva impugnato il
coltello. Confessare? Voleva dire che doveva confessare? Denunciarsi e farsi condannare a morte? Rise. L'idea gli
sembrava mostruosa. D'altra parte, se anche avesse confessato, chi gli avrebbe creduto? Della vittima non rimanevano
tracce. Tutto quello che gli apparteneva era stato distrutto. Lui stesso aveva bruciato le cose che erano rimaste dabbasso.
La gente avrebbe detto semplicemente che era matto. Se avesse insistito lo avrebbero chiuso in manicomio... Tuttavia
era suo dovere confessare per soffrire pubblicamente la vergogna che gliene sarebbe venuta e per espiare davanti a tutti.
C'era un Dio che imponeva agli uomini di rivelare i peccati in terra così come in cielo. Qualunque sua azione non lo
avrebbe mondato finché non avesse confessato la sua colpa. La sua colpa? Scosse le spalle. La morte di Basil Hallward
gli sembrava una cosa di minima importanza. Pensava a Hatty Merton: non era infedele, questo specchio della sua
anima che stava fissando. Vanità? Curiosità? Ipocrisia? Solo questi erano i motivi della sua rinuncia? No, c'era stato
qualche cosa di più. Almeno così pensava. Ma chi poteva dirlo? ... No, non c'era stato nient'altro. L'aveva risparmiata
per vanità, per ipocrisia aveva indossato la maschera della bontà, per curiosità era stato spinto alla rinuncia. Ora se ne
rendeva conto.
Ma questo delitto... lo avrebbe perseguitato per tutta la vita? Sarebbe sempre stato costretto a sopportare il peso
del suo passato? Doveva proprio confessare? Mai. Era rimasto solo un elemento di prova contro di lui. Il ritratto: ecco la
prova. Lo avrebbe distrutto. Perché lo aveva conservato per tanto tempo? Una volta gli faceva piacere vederlo cambiare
e invecchiare. Negli ultimi tempi questo piacere era scomparso. Lo teneva sveglio la notte. Quando era lontano lo
terrorizzava l'idea che altri potessero vederlo, aveva portato la malinconia nelle sue passioni, il suo ricordo gli aveva
rovinato diversi momenti di gioia. Per lui aveva rappresentato la coscienza. Sì, era stato una coscienza. L'avrebbe
distrutto.
Si guardò in giro e vide il coltello che aveva colpito Basil Hallward. Lo aveva pulito molte volte e non vi era
rimasta nessuna macchia: era liscio e lucente. Come aveva ucciso il pittore così avrebbe ucciso la sua opera e tutto ciò
che essa significava. Avrebbe ucciso il passato e, quando il passato fosse morto, sarebbe stato libero. Avrebbe ucciso la
mostruosa vita della sua anima e, senza i suoi infami avvertimenti, si sarebbe sentito in pace. Afferrò il coltello e colpì
la tela.
Si udì un grido poi un tonfo. Un grido di agonia così terribile che i domestici si svegliarono spaventati e
uscirono intimoriti dalle loro stanze. Due signori che passavano nella piazza si fermarono e guardarono in alto, verso la
grande casa. Proseguirono finché incontrarono un poliziotto e lo condussero lì. L'uomo suonò diverse volte il
campanello ma non ottenne risposta. Tranne una finestra illuminata all'ultimo piano, la casa era immersa nell'oscurità.
Dopo un poco si allontanò, si fermò sotto un portico vicino e rimase a osservare.
«Di chi è questa casa, agente?» domandò il più giovane dei due.
«Del signor Dorian Gray, signore,» rispose il poliziotto.
I due uomini si guardarono e si allontanarono con una smorfia di scherno. Uno dei due era lo zio di Sir Henry
Ashton.
All'interno, nei quartieri della servitù, i domestici semisvestiti parlavano tra loro a bassa voce. La vecchia
signora Leaf piangeva e si torceva le mani. Francis era pallido come un morto.
Dopo un quarto d'ora circa prese con sé un cocchiere e uno degli uomini di fatica. Bussarono, ma non ottennero
risposta. Chiamarono. Tutto era silenzioso. Alla fine, dopo aver tentato invano di forzare la porta, salirono sul tetto e si
calarono sul balcone. La finestra cedette facilmente: la serratura era vecchia.
Quando furono entrati, videro appeso alla parete uno splendido ritratto del loro padrone come lo avevano visto
l'ultima volta, in tutto lo splendore della sua gioventù e della sua bellezza. Disteso sul pavimento c'era un uomo, in abito
da sera, con un coltello piantato nel cuore. Era sfiorito, rugoso, con un volto ripugnante. Solo quando esaminarono i
suoi anelli lo riconobbero.

per andare alla prima parte del libro clicca quì: 
http://perchiamalalettura.blogspot.it/2012/04/il-ritratto-di-dorian-gray-oscar-wild.html

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