sabato 7 aprile 2012

I FANTASMI DEL CAPPELLAIO (Georges Simenon)


Era il 3 dicembre, e continuava a piovere. Il numero 3 spiccava, enorme, nerissimo, panciuto, sul bianco smagliante del calendario appeso, a destra della cassa, al tramezzo di legno scuro che divideva il negozio dalla vetrina. Erano passati esattamente venti giorni, dato che la cosa era accaduta il 13 novembre (un altro 3 ugualmente panciuto sul calendario), dal primo delitto, da quando, cioè, un'anziana donna era stata assassinata vicino alla chiesa di Saint-Sauveur, a pochi passi dal canale.
E dal 13 novembre pioveva. Si può dire che piovesse ininterrottamente da venti giorni. Una lunga pioggia battente.
Quando si camminava per la città rasentando i muri si sentiva l'acqua scorrere nelle grondaie. La gente sceglieva di preferenza strade con i portici per trovarsi un po' al riparo; rientrando, si toglieva le scarpe, e in tutte le case cappotti e cappelli erano messi ad asciugare vicino alla stufa. Chi non aveva indumenti di ricambio viveva in un perenne stato di freddo e di umidità.
Alle quattro del pomeriggio era già buio da un pezzo, e a certe finestre la luce restava accesa dalla mattina alla sera.

E proprio alle quattro, come ogni pomeriggio, il signor Labbé aveva lasciato il retrobottega, dove una serie di teste in legno di tutte le misure stava allineata sugli scaffali, ed era salito su per la scala a chiocciola in fondo alla cappelleria. Arrivato sul pianerottolo, si era fermato un attimo, tirata fuori di tasca una chiave, aveva aperto la porta della camera per accendere la luce.

Forse, prima di girare l'interruttore, era andato alla finestra, le cui tende di grosso merletto, pesanti e polverose, stavano sempre accostate... Probabile, perché di solito, prima di accendere, abbassava l'avvolgibile.
E lì, dalla finestra, aveva potuto vedere, nella casa di fronte, a pochi metri di distanza, il sarto Kachoudas nel suo laboratorio. La strada era così stretta che sembrava di vivere nella stessa casa.
Il laboratorio di Kachoudas si trovava al primo piano, sopra il negozio, e non aveva tende. Ogni minimo particolare della stanza risaltava come su un'incisione: i fiori della tappezzeria, i segni lasciati dalle mosche sullo specchio, il gessetto piatto attaccato a una cordicella, i modelli in carta marrone appesi al muro, e lo stesso Kachoudas, seduto a gambe incrociate sul tavolo da lavoro, con a portata di mano una lampadina senza paralume che all'occorrenza lui avvicinava mediante un filo di ferro. La porta in fondo, che dava sulla cucina, era sempre mezza aperta, ma solitamente non abbastanza da lasciar vedere l'interno del locale. Tuttavia s'indovinava la presenza della signora Kachoudas, perché ogni tanto le labbra del marito si muovevano.
Evidentemente i due si parlavano da una camera all'altra mentre lavoravano.
Anche il signor Labbé aveva parlato: Valentin, il commesso che stava giù in negozio, aveva sentito un mormorio di voci e un rumore di passi sopra la sua testa. Poi aveva visto tornar giù il cappellaio, prima i piedi, elegantemente calzati, poi i pantaloni, la giacca, e infine il viso, un viso dai tratti un po'' molli, sempre grave ma in modo misurato, senza severità: il viso di un uomo che basta a se stesso e non prova alcun bisogno di manifestare i propri sentimenti.
Quel giorno, prima di uscire, il signor Labbé aveva stirato, passandoli al vapore, due cappelli (uno era quello grigio del sindaco), e per tutto il tempo si era sentito il rumore della pioggia, l'acqua che scendeva impetuosa lungo la grondaia e il sibilo leggero della stufa a gas all'interno del negozio.
Faceva sempre troppo caldo, lì dentro. Fin da quando arrivava, al mattino, Valentin, il commesso, aveva la faccia tutta rossa, e al pomeriggio si sentiva la testa pesante; a volte, guardandosi negli specchi fissati tra uno scaffale e l'altro, scopriva di avere gli occhi lucidi, come se avesse la febbre.
Il signor Labbé non era quel giorno più loquace del solito. A volte restava per ore e ore con il suo commesso senza aprir bocca.
Nella stanza si udiva solo il ticchettio dell'orologio, interrotto ogni quarto d'ora dallo scatto del bilanciere. All'ora e alla mezza, il meccanismo si metteva in moto ma,  dopo uno sforzo impotente, si fermava di botto: probabilmente l'orologio era dotato, in origine, di un carillon che in seguito si era guastato.
Se il piccolo sarto non poteva vedere l'interno della camera al primo piano - durante il giorno glielo impedivano le tende, di sera l'avvolgibile -, in compenso non aveva che da sporgere un po' la testa per guardare nella bottega del cappellaio.
E non mancava di farlo. Il signor Labbé non si prendeva la briga di accertarsene, ma lo sapeva. Questo però non influiva minimamente sul suo ritmo di lavoro e sui suoi movimenti, sempre pacati, meticolosi. Aveva mani molto belle, un po’ grassocce, straordinariamente bianche.
Alle cinque meno cinque, lasciato il retrobottega che chiamavano laboratorio, aveva spento la luce e pronunciato una delle sue frasi rituali:
«Salgo a vedere se mia moglie ha bisogno di qualcosa».
Ed era di nuovo salito su per la scala a chiocciola. Valentin aveva sentito al piano di sopra i suoi passi, un sussurrare smorzato di voci, quindi aveva rivisto spuntare i piedi, le gambe, l'intero corpo.
Poi il signor Labbé aveva aperto la porta della cucina, in fondo al locale, e aveva detto a Louise:
«Rientrerò presto. Il negozio lo chiuderà Valentin».
Ogni giorno le stesse parole, a cui la domestica rispondeva:
«Bene, signore».
S'infilava quindi il pesante cappotto nero e ripeteva a Valentin, che aveva già sentito:
«Chiuderà lei».
«Sì, signore. Buonasera, signore».
«Buonasera, Valentin».
Prendeva un po’ di soldi dalla cassa e indugiava un momento a osservare le finestre di fronte. Era sicuro che Kachoudas, il quale doveva aver visto, poco prima, la sua ombra profilarsi attraverso l'avvolgibile del primo piano, era sceso dal suo tavolo da lavoro.
Che cosa stava dicendo alla moglie? Perché senz'altro qualcosa le diceva. Aveva bisogno di un pretesto, anche se lei non gli chiedeva niente. Non si sarebbe mai permessa di discutere le sue decisioni. Da un po’ di anni, pressappoco da quando si era messo in proprio, verso le cinque del pomeriggio Kachoudas andava a bere uno o due bicchieri di bianco al Café des Colonnes. Ci andavano anche Labbé e altri, che non si limitavano al vino, né a due soli bicchieri. Per la maggior parte di loro quel rito segnava la fine della giornata. Kachoudas, invece, appena tornato a casa cenava in fretta in mezzo ai suoi marmocchi per poi tornare ad appollaiarsi sul suo tavolo, dove spesso restava a lavorare fino alle undici o a mezzanotte.
«Vado a prendere una boccata d'aria».
Aveva paura di lasciarsi scappare il signor Labbé, e questi l'aveva capito. La cosa era iniziata all'epoca non della prima vecchia assassinata, ma della terza, quando la città aveva cominciato davvero a perdere la testa.
A quell'ora, la rue du Minage era quasi sempre deserta, specie quando pioveva a dirotto. Ed era più deserta che mai da quando molta gente evitava di uscire col buio. I commercianti, che erano stati i primi a risentire del panico, erano stati anche i primi a organizzare delle ronde. Ma neppure quelle erano servite a impedire la morte della signora Geoffroy-Lambert e della signora Léonide Proux, la levatrice di Fétilly.
Il piccolo sarto era un pavido, e il signor Labbé si concedeva il piacere maligno - se non addirittura diabolico - di aspettarlo senza averne l'aria.
Finalmente apriva la porta, facendone così tintinnare il campanello, passava sotto l'enorme cappello a cilindro di lamiera rossa che fungeva da insegna al negozio, alzava il bavero del cappotto e affondava le mani nelle tasche. Anche alla porta di Kachoudas c'era un campanello, e Labbé sapeva con certezza che dopo qualche istante l'avrebbe sentito risuonare.
Come in quasi tutta la parte vecchia della Rochelle, la strada aveva dei portici che riparavano dalla pioggia: là sotto, i marciapiedi erano simili a tunnel umidi e freddi, rischiarati solo, di tanto in tanto, da un portone che si apriva sulle tenebre della notte.
Per raggiungere la place d'Armes Kachoudas regolava il proprio passo su quello del cappellaio, ma nonostante tutto aveva tanta paura di un'imboscata che preferiva camminare in mezzo alla strada, sotto la pioggia.
Arrivarono all'angolo senza incontrare anima viva. Poi, ecco le vetrine della profumeria, della farmacia, della camiceria, e finalmente le ampie vetrate del caffè. Jeantet, il giovane giornalista dai capelli lunghi, con il volto affilato e gli occhi ardenti, era seduto al solito posto, al primo tavolino vicino alla vetrata, e stava scrivendo il suo articolo davanti a una tazza di caffè.
Labbé non sorrise, né diede segno di averlo visto. Sentiva avvicinarsi i passi del piccolo sarto. Girò la maniglia, s'inoltrò nell'accogliente tepore del locale, si diresse senz'altro verso i tavoli centrali, intorno alla stufa, tra le colonne, e restò lì in piedi alle spalle degli habitué che giocavano a bridge, mentre Gabriel, il cameriere, gli prendeva cappello e cappotto.
«Come va, Léon?».
«Non c'è male».
Si conoscevano tutti da troppo tempo - la maggior parte dagli anni della scuola - per aver voglia di chiacchierare. Quelli che stavano giocando facevano un piccolo cenno con il capo o davano meccanicamente la mano al nuovo venuto. E, come ogni sera, Gabriel domandò:
«Il solito?».
A quel punto il cappellaio si sedette, con un sospiro di soddisfazione, dietro uno dei giocatori, il dottor Chantreau, che lui chiamava confidenzialmente Paul. Gli era bastata un'occhiata per rendersi conto di come stava andando la partita. Una partita che, si poteva dire, durava da anni, poiché ricominciava ogni giorno alla stessa ora, allo stesso tavolo, con le stesse consumazioni davanti agli stessi giocatori, le stesse pipe e gli stessi sigari.
Il riscaldamento centrale doveva essere insufficiente, visto che Oscar, il padrone, aveva lasciato in funzione la grande stufa di ghisa, di un bel nero brillante, verso la quale Labbé protese le gambe per far asciugare le scarpe e l'orlo dei pantaloni. Nel frattempo il piccolo sarto era entrato a sua volta, si era diretto anche lui (ma non con la stessa disinvoltura) verso i tavoli centrali, aveva salutato rispettosamente, senza che nessuno si desse la pena di rispondere, e si era quindi messo a sedere.
Non faceva parte del gruppo, lui. Non aveva frequentato le stesse scuole, né le stesse caserme. All'epoca in cui quelli che stavano giocando a bridge si davano già del tu, Kachoudas viveva in qualche angolo sperduto del Medio Oriente, dove la gente della sua razza veniva trasportata come bestiame dall'Armenia a Smirne e da Smirne in Siria, in Grecia o chissà dove.
Da principio, qualche anno prima, si sedeva un po’ in disparte a bere il suo bicchiere di bianco e seguiva il gioco, che molto probabilmente non conosceva, con la fronte corrugata dallo sforzo di concentrarsi. Poi si era a poco a poco avvicinato, prima spingendo avanti la sedia, poi cambiando decisamente sedia, e alla fine cambiando tavolo, fino a trovarsi dietro i giocatori.
Nessuno parlava delle vecchie assassinate, né del terrore che regnava in città. Forse se ne discuteva a qualche altro tavolo, ma non lì. Laude, il senatore, si tolse la pipa di bocca per domandare, girandosi appena verso il cappellaio:
«E tua moglie?».
«Sempre uguale».
Una routine consolidata da quindici anni. Gabriel gli aveva servito il solito aperitivo di un caldo color mogano e lui lo sorseggiava lentamente, lanciando ogni tanto un'occhiata al giovane Jeantet, intento a buttar giù il suo articolo per «L'Echo des Charentes». Un orologio con un profilo di ottone intorno al quadrante era appeso tra il caffè propriamente detto e la zona in fondo al locale, dove si trovavano i biliardi. E segnava le cinque e un quarto allorché Julien Lambert, l'assicuratore, che come al solito stava perdendo, domandò al cappellaio:
«Prendi tu il mio posto?».
«Stasera no».
Niente di straordinario, in questo. Erano in sei o sette che a volte giocavano, a volte stavano seduti a guardare alle spalle dei giocatori. Solo Kachoudas non veniva mai invitato a giocare, ed è probabile che neppure aspirasse a farlo.
Era minuto, gracile. Emanava un cattivo odore e lo sapeva, lo sapeva così bene che cercava di non stare troppo vicino agli altri. Era un odore che apparteneva solo a lui e ai suoi familiari, tanto che lo si sarebbe potuto definire un «odore Kachoudas», in cui si mescolavano l'aroma dell'aglio che mangiavano e la puzza di grasso delle stoffe che lui teneva sempre fra le mani. Lì, al Café des Colonnes, non gli dicevano niente e fingevano educatamente di non accorgersene, ma a scuola capitava che alcune ragazze, meno discrete, se venivano messe vicino alle piccole Kachoudas protestassero energicamente:
«Come puzzi! E anche tua sorella puzza! Puzzate tutti, voialtri!».
Dato che non poteva fumare sul lavoro per non correre il rischio di bruciare i vestiti, Kachoudas fumava lì, al caffè, una delle poche sigarette della giornata, e il mozzicone era sempre abbondantemente bagnato di saliva.
Era il 3 dicembre, dunque, e l'orologio segnava le cinque e un quarto. Pioveva. Fuori era buio. Nel caffè faceva caldo e Labbé, il cappellaio della rue du Minage, stava guardando le carte del dottore che aveva dichiarato cinque fiori, incautamente «contrati» dall'assicuratore. 
La mattina dopo, leggendo il giornale, tutti avrebbero appreso quello che il giovane Jeantet era intento a scrivere a proposito delle vecchie assassinate: stava conducendo un'inchiesta appassionata sul fatto e aveva persino lanciato una sorta di sfida alla polizia.
Il suo capo, Jérome Caillé, il tipografo che dirigeva il giornale, giocava tranquillamente a bridge senza preoccuparsi del focoso giovanotto; avrebbe dato una scorsa al suo pezzo di lì a poco, tornando al lavoro.
Chantreau aveva battuto le atout e stava arrischiando l'impasse decisivo quando, con la coda dell'occhio, Labbé vide il sarto alzarsi a metà senza staccarsi del tutto dalla sedia, chinarsi verso di lui e allungare il braccio come per raccogliere qualcosa in mezzo alla segatura che ricopriva il pavimento.
Ma ad attirare la sua attenzione erano stati i pantaloni del cappellaio. Il suo occhio da professionista aveva subito notato qualcosa di bianco vicino a un risvolto. Probabilmente aveva pensato che si trattasse di un filo... Certo non aveva cattive intenzioni, il piccolo sarto, e comunque non avrebbe mai potuto intuire l'importanza del suo gesto.
E neppure Labbé, che lo lasciò fare, un po’ sorpreso ma per niente preoccupato.
«Mi scusi» disse Kachoudas afferrando quel qualcosa di bianco, che non era un filo ma un minuscolo pezzetto di carta, mezzo centimetro appena di una carta leggera e ruvida, come di giornale.
Nessuno dei presenti prestò la benché minima attenzione alla cosa. Kachoudas teneva il pezzetto di carta stretto fra il pollice e l'indice, e fu solo per caso che, mentre era chino, con la testa bassa e il sedere ancora a metà sulla sedia, vi gettò un'occhiata. Non era un qualunque frammento di giornale: era stato accuratamente ritagliato con le forbici. Per essere precisi, erano state ritagliate le due lettere finali di una parola, una «n» e una «t».
Il signor Labbé guardò dall'alto in basso il piccolo sarto, che di colpo, preso dal panico, s'immobilizzò e alzò la testa. Poi, raddrizzando il busto ma evitando di guardare in faccia il cappellaio, gli porse il minuscolo oggetto balbettando:
«Le chiedo scusa...».
Invece di gettare il pezzetto di carta, lo restituiva, ed era un errore, perché dimostrava in tal modo di averne capito l'importanza. E poiché era timido e per natura incline all'umiltà, commise un secondo errore: cominciò una frase che non ebbe il coraggio di concludere.
«Credevo che...».
Dalla sua posizione vedeva solo sedie, schiene, vestiti, la segatura sul pavimento, i piedi neri della stufa, e li vedeva come attraverso una nebbia luminosa, mentre una voce calma e grave gli diceva:
«Grazie, Kachoudas».
Il cappellaio e il sarto, infatti, si parlavano. Ogni mattina, alle otto, uscivano dalle rispettive case per togliere i pannelli che servivano da imposte alle loro botteghe. A quell'ora, la salumeria attigua all'abitazione di Kachoudas era già aperta da un pezzo.
Il sabato, le contadine dei dintorni, che venivano in città a vendere ortaggi e pollame, ingombravano la strada con i loro panieri, ma gli altri giorni, quando a separare i due uomini c'erano solo le pietre del selciato, Kachoudas aveva preso l'abitudine di dire:
«Buongiorno, signor Labbé».
E di aggiungere, a seconda del tempo:
«Bella giornata, oggi».
Oppure:
«Continua a piovere...».
E il cappellaio rispondeva, bonario:
«Buongiorno, Kachoudas».
Tutto qui. Erano solo due commercianti con i negozi l'uno di fronte all'altro.
Quel giorno, però, il signor Labbé aveva detto:
«Grazie, Kachoudas».
E la voce era pressappoco quella di sempre. Anzi, proprio la stessa, nonostante la terribile scoperta del piccolo sarto...
Kachoudas aveva una gran voglia di buttar giù il suo vino tutto d'un fiato. Batté con i denti contro il bordo del bicchiere e, mentre beveva, si affannava a pensare, a decidere il da farsi, ma più sforzi faceva, più gli si ingarbugliavano le idee.
Non doveva assolutamente girare la testa verso destra. Questo lo aveva deciso fin dal primo istante.
Al tavolo di centro sedevano il senatore, il tipografo, il medico, il cappellaio: tutti uomini sulla sessantina, i più importanti della città, per dirla in breve, ma agli altri tavoli sedevano altri giocatori, e in particolare, a destra, i giocatori di belote, che rappresentavano la generazione dei quarantenni e dei cinquantenni. E a uno di quei tavoli si poteva vedere ogni giorno, dalle cinque alle sei, il commissario Pigeac, il funzionario preposto alle indagini sulle vecchie assassinate.
Kachoudas doveva assolutamente evitare di guardare da quella parte. E non poteva neppure voltarsi verso il giovane giornalista, sempre intento a scrivere. Probabilmente stava rispondendo per l'ennesima volta a uno dei messaggi dell'assassino...
In venti giorni, quella era ormai diventata un'abitudine, quasi una tradizione. Dopo ogni delitto, al giornale arrivava una lettera in cui i caratteri, e spesso intere parole, erano stati ritagliati da vecchi numeri dell'«Echo des Charentes»; il giornale la pubblicava regolarmente, seguita da un commento del giovane Jeantet. Uno o due giorni dopo, l'assassino rispondeva a sua volta, sempre mediante lettere ritagliate dal giornale e incollate su un foglio bianco.
Proprio il giorno prima, il messaggio conteneva una frase che ora, di colpo, fece gelare il sangue nelle vene al piccolo sarto.
«Lei si sbaglia, giovanotto. Non sono un vigliacco Non è per vigliaccheria che me la prendo con delle vecchie, ma per necessità. Se un'analoga necessità m'imponesse domani di affrontare un uomo, anche grande e grosso, lo farei».
Alcune lettere, lunghe mezza colonna, erano composte da centinaia di caratteri pazientemente ritagliati, il che aveva indotto Jeantet a scrivere: «Non solo l'assassino è un tipo paziente e meticoloso, ma dispone di molto tempo libero».
Il diciannovenne giornalista, dotato anche lui di grande pazienza, aveva fatto un esperimento: aveva calcolato il tempo necessario a mettere insieme una lettera di trenta righe interamente composta di caratteri ritagliati da giornali vecchi.
Kachoudas non ricordava il risultato esatto dell'esperimento, che era comunque sbalorditivo. 
«Se un'analoga necessità m'imponesse domani di affrontare un uomo...».
Uno fumava la pipa a piccole boccate guardando quelli che giocavano a carte, l'altro, con un mozzicone sporco incollato al labbro, non osava neanche girare gli occhi attorno. Ogni tanto il signor Labbé gettava un'occhiata all'orologio, ed erano solo le cinque e venticinque quando ordinò il secondo aperitivo. Alle cinque e mezzo si alzò, e subito Gabriel si precipitò verso di lui porgendogli cappello e cappotto.
Kachoudas ebbe come l'impressione che gli rivolgesse uno sguardo di benevola ironia. C'era una coltre di fumo sopra le teste dei giocatori. Dalla stufa uscivano vampate di calore.
Sembrava che il signor Labbé aspettasse, che indovinasse perfettamente quello che passava per la testa al piccolo sarto.
«Se lo lascio andar via da solo, è capace di acquattarsi in un angolo buio della rue du Minage...».
E se invece Kachoudas avesse parlato lì, subito, al commissario per esempio, o anche al giornalista? Se avesse dichiarato, puntando l'indice: «É lui!».
Il pezzetto di carta era sparito. Kachoudas lo cercava invano con lo sguardo. Si ricordò che il cappellaio lo aveva arrotolato fra le dita facendone una pallottolina grigiastra. Ma anche se le due lettere ritagliate fossero state per terra, come provare che le aveva prese dai pantaloni del signor Labbé?
Nemmeno questo sarebbe bastato. Tanto è vero che il signor Labbé non aveva battuto ciglio, non si era minimamente spaventato, e aveva detto semplicemente:
«Grazie, Kachoudas».
E c'erano in ballo ventimila franchi, una fortuna per un piccolo sarto che si vedeva affidare solo riparazioni o vestiti da rivoltare, e la cui figlia maggiore lavorava come commessa al Prisunic.
Ma per guadagnarsi quei ventimila franchi non si potevano certo lanciare accuse campate in aria. E bisognava evitare di mettere in allarme l'assassino.
Adesso, il signor Labbé sapeva. E uno che dal 13 novembre, vale a dire in venti giorni, aveva ucciso cinque vecchie poteva benissimo far fuori anche lui.
Forse Kachoudas non ebbe nemmeno il tempo di pensare a tutto questo... Il cappellaio stava dando la mano agli amici, che a loro volta lo salutavano:
«Buonasera, Léon».
Si chiamava Léon, infatti. Dette un colpetto sulla spalla al dottore, che aveva le mani occupate perché stava distribuendo le carte, e che borbottò:
«Salutami Mathilde».
Sembrava proprio che facesse apposta a tirare per le lunghe, quasi volesse dare a Kachoudas il tempo di decidersi. La sua faccia era la stessa di poco prima, quando Valentin lo guardava venir giù dalla scala a chiocciola. Era un ex grasso. Forse era stato molto grasso e dopo era dimagrito: lo si intuiva dai lineamenti flosci, come indecisi. Anche adesso, doveva comunque pesare il doppio di Kachoudas.
«A domani».
La lancetta dell'orologio segnava le cinque e mezzo passate, e la porta si era appena richiusa alle spalle del cappellaio, quando Kachoudas afferrò il cappotto dalla sedia vicina. Poco mancò che se ne andasse senza pagare, tanta era la sua paura che il signor Labbé potesse svoltare in rue du Minage prima che lui fosse uscito dal caffè. A quel punto, poteva succedere di tutto.
Pertanto, doveva assolutamente tornare a casa.
Il signor Labbé camminava con il suo passo regolare, né lento né spedito, e per la prima volta il piccolo sarto notò che, come la maggior parte delle persone grasse o ex grasse, il cappellaio era molto agile e camminava senza far rumore.
Svoltò a destra in rue du Minage. Kachoudas lo seguiva a circa venti metri di distanza, tenendosi scrupolosamente in mezzo alla strada. All'occorrenza, avrebbe sempre avuto il tempo di gridare.
Un paio di negozi erano ancora aperti, se ne vedevano le luci attraverso la pioggia, e quasi tutte le finestre, ai vari piani delle case, erano illuminate.
Il signor Labbé procedeva lungo il marciapiede di sinistra, quello su cui dava la cappelleria, ma invece di fermarsi davanti al negozio, andò un po’ più avanti e poi girò la testa, come per assicurarsi che il sarto continuasse a seguirlo. Non ce n'era bisogno, del resto, perché i passi di Kachoudas risuonavano sul selciato.
Il piccolo sarto poteva dunque rincasare. La strada era libera.
La sua bottega era ancora aperta e lui aveva tutto il tempo di mettere in fretta e furia il catenaccio alla porta. Attraverso la finestra del primo piano vide il gessetto che penzolava sopra il tavolo da lavoro, vicino alla lampadina. Le bambine erano tornate da scuola; la maggiore, Esther, quella del Prisunic, sarebbe invece rientrata poco dopo le sei, di corsa, perché anche lei aveva paura dell'assassino e nessuna delle sue colleghe abitava nel quartiere.
Continuò a camminare. Girò a sinistra, come il signor Labbé, e per un momento si ritrovarono in una strada più illuminata. Era rassicurante vedere un po’ di gente nei negozi e qualche automobile che passava sollevando schizzi di fango.
I portici erano finiti, e il signor Labbé aveva le spalle bagnate di pioggia. La strada era di nuovo buia, e il cappellaio ora spariva e ora riappariva nell'alone luminoso di un fanale.
Kachoudas camminava proprio in mezzo alla strada e tratteneva il respiro, paralizzato dal terrore ma al tempo stesso incapace di tornare indietro.
Quante erano, a quell'ora, le pattuglie di volontari che percorrevano la città? Probabilmente quattro o cinque, compresi alcuni giovani, divertiti da quella novità, che giravano con le loro lampadine tascabili. Era l'ora più critica. Tre delle vittime erano state assassinate fra le cinque e mezzo e le sette di sera.
L'uno alle calcagna dell'altro, i due raggiunsero il tranquillo quartiere del museo, con le sue piccole case a un piano; dietro a qualche finestra si vedevano famiglie riunite, bambini che facevano i compiti, donne che preparavano già la tavola per la cena.
Improvvisamente, il signor Labbé sparì nell'ombra, e dopo pochi passi Kachoudas si fermò di botto come se gli fosse venuto a mancare qualcosa di essenziale, non riusciva più a localizzare il cappellaio, inghiottito dall'oscurità della strada. Che si fosse rintanato in un angolo? Che avesse, invece, continuato a camminare?... Non era forse capace di muoversi senza far rumore?
Come poter escludere che si stesse avvicinando? Il piccolo sarto stava lì paralizzato, gelato dal terrore.
Gli arrivavano, abbastanza vicine, le note di un pianoforte. Un debole chiarore filtrava dalle persiane di una casa. In una stanza illuminata, una bambina o un bambino stava prendendo lezione di piano, e continuava a ripetere instancabilmente una serie di scale, sempre le stesse.
Per la strada non passava nessuno, né in un senso né nell'altro, e il signor Labbé doveva essere sempre acquattato da qualche parte, silenzioso, invisibile, mentre Kachoudas non osava avvicinarsi alle case.
Il pianoforte tacque, e il silenzio fu totale. Poi, il rumore sordo del coperchio che cadeva sopra i tasti bianchi e neri. Una lama di luce dietro una porta, delle voci soffocate che divennero più distinte nel momento in cui si aprì l'uscio, a una ventina di metri dal piccolo sarto, e le gocce di pioggia si trasformarono in scintille.
«É proprio decisa ad andare, signorina Mollard? Non sarebbe più prudente aspettare che mio marito torni dall'ufficio? Sarà qui fra cinque minuti...».
«Ma sono pochi passi! Su, torni dentro! Non prenda freddo. Ci vediamo venerdì prossimo».
Già, era venerdì. Evidentemente, la bambina (o il bambino) prendeva lezione di piano ogni venerdì dalle cinque alle sei...
«Lascio la porta aperta finché non sarà arrivata».
«Non ci pensi neppure! Vuole far gelare tutta la casa? Non ho paura, mi creda».
Dalla voce, Kachoudas se la immaginava piccola e magra, un po' curva, un po’ affettata. La sentì scendere i gradini e incamminarsi lungo il marciapiede. La porta restò aperta ancora un momento, poi si richiuse. Kachoudas fu sul punto di gridare.
Tentò di gridare. Ma ormai era troppo tardi; del resto, ne sarebbe stato fisicamente incapace.
Il rumore fu quasi impercettibile, come il frullo di un fagiano che si alzi in volo da un bosco. Probabilmente era il fruscio dei vestiti. Tutti sapevano, in città, come si svolgevano i fatti, e Kachoudas si portò istintivamente una mano alla gola, immaginò la corda di violoncello stretta intorno al collo e fece un vero e proprio sforzo per strapparsi alla sua immobilità.
Tutto si era compiuto, non aveva dubbi, e adesso lui doveva allontanarsi in tutta fretta e correre al più vicino posto di polizia. Ce n'era uno in rue Saint-Yon, subito dopo il mercato.
Credette di aver parlato a voce alta, mentre le sue labbra si erano mosse a vuoto. Stava camminando. Era già una vittoria.
 Ancora non riusciva a correre, ma forse era meglio così, meglio evitare di correre lì, in quelle strade deserte dove anche l'altro poteva mettersi a correre, raggiungerlo e farla finita con lui come aveva fatto con l'anziana signorina...
Una vetrina. Ironia della sorte: era quella di un armaiolo! É vero, però, che il cappellaio non si era mai servito di armi.
Kachoudas non si sentiva più tanto solo. Poteva riprendere fiato.
Avrebbe voluto voltarsi. Ancora venti metri, dieci metri, e avrebbe visto la luce rossa del commissariato.
Aveva sguazzato nelle pozzanghere, e i suoi piedi erano bagnati, i lineamenti irrigiditi dal freddo. Camminando di nuovo come una persona normale, oltrepassò la rue du Minage, la sua strada.
Era quasi arrivato a destinazione. Non sentiva nessun rumore di passi, ma sapeva che qualcuno gli camminava alle spalle e stava per raggiungerlo. Non osava ancora mettersi a correre, ma neppure fermarsi, quando una sagoma più alta e più imponente di lui si profilò alla sua sinistra, un passo si accordò con il suo e una voce stranamente calma disse:
«Al suo posto non lo farei, Kachoudas».
Non guardò da quella parte. Non rispose. E non scappò subito.
Era solo. Vide la luce rossa e un poliziotto che usciva dal commissariato e montava in sella alla bicicletta.
Si voltò. Senza più badargli, il signor Labbé, che aveva fatto dietro front, si avviava, con le mani in tasca e il bavero rialzato, verso la rue du Minage, la loro strada.
Giunto davanti al suo negozio, che Valentin aveva chiuso, si sbottonò il cappotto per prendere il mazzo di chiavi dalla tasca dei pantaloni. Gli stessi gesti di ogni sera, quando tornava a casa. Qualcuno si era fermato all'angolo di rue du Minage. Era
Kachoudas: aspettava che la porta del cappellaio si richiudesse per entrare in casa a sua volta.
Il signor Labbé alzò gli occhi e scorse la moglie del sarto nel laboratorio del primo piano. Un po’ preoccupata, era venuta alla finestra per dare un'occhiata fuori.
Il cappellaio girò la chiave nella serratura, entrò nella calda oscurità del negozio, richiuse la porta, girò l'interruttore e mise la spranga; poi restò un momento lì, in piedi, con la faccia accostata a una fessura delle imposte.
Tenendosi sempre prudentemente in mezzo alla strada, il piccolo sarto arrivò infine all'altezza di casa sua. Camminava in modo strano, a piccoli balzi; per la prima volta il signor Labbé notò che gettava un po’ la gamba in fuori. Anche Kachoudas guardò in su, verso il primo piano, ma sua moglie era già tornata in cucina. S'infilò nella bottega e dovette subito tornar fuori per mettere gli scuri, perché non aveva nessuno che lo facesse al posto suo. Si muoveva nervosamente, a scatti. Probabilmente, girandosi verso la scala - una scala a chiocciola come quella della cappelleria -, aveva gridato:
«Sono io!». Con gesti affrettati mise il catenaccio alla porta. Al pianoterra la luce si spense per accendersi poco dopo nel laboratorio, dove per prima cosa il sarto andò a guardare fuori dalla finestra.
Il signor Labbé si allontanò dalla sua postazione, rimise nella cassa il resto del denaro che aveva preso prima di uscire e si avviò verso il retrobottega giocherellando distrattamente con qualcosa che aveva tirato fuori di tasca e che aveva l'aria di uno di quegli aggeggi che i monelli s'inventano per giocare: due pezzetti di legno tenuti insieme da una specie di cordicella.
Aveva ancora addosso il cappotto bagnato e, quando si chinava, dal cappello gli cadevano delle gocce d'acqua; se lo tolse solo una volta arrivato ai piedi della scala, dove c'era un attaccapanni, e allora vide una lama di luce filtrare da sotto la porta della cucina.
La tavola era apparecchiata con un solo coperto: sulla tovaglia bianca c'era una bottiglia di vino chiusa da un tappo d'argento.
«Buonasera, Louise. La signora ha chiamato?».
«NO, signore».
Mentre lui si sedeva davanti alla stufa, la domestica, dopo avergli guardato i piedi, andò a prendergli le pantofole e gli s'inginocchiò davanti. Il signor Labbé non glielo aveva mai chiesto, ma alla fattoria dovevano averle insegnato a togliere le scarpe agli uomini di casa quando tornavano dai campi.
Faceva caldo come nel negozio e l'aria aveva la stessa immobilità greve, che avvolgeva gli oggetti conferendo loro un aspetto immutabile, eterno.
Dietro la finestra che dava sul cortile si sentiva lo scrosciare incessante della pioggia e, dentro, il tic tac di un orologio antico, nella cui cassa di noce oscillava un disco di ottone, più lentamente, c'era da giurarlo, che da qualsiasi altra parte. E segnava un'ora diversa dall'orologio della cappelleria, da quello del signor Labbé, e anche dalla sveglia del primo piano.
«É venuto qualcuno?».
«No, signore».
E intanto gli infilava le pantofole di morbido e lucido capretto. La stanza era più una sala da pranzo che una cucina, perché fornello e acquaio erano collocati a parte, in un bugigattolo lungo e stretto. La tavola era rotonda, le sedie rivestite di cuoio capitonné. C'erano parecchi oggetti in rame e, su una credenza rustica, dei vecchi piatti di ceramica comprati a un'asta.
«Salgo a vedere se la signora ha bisogno di qualcosa».
«Posso mettere in tavola la minestra?».
Il signor Labbé sparì su per la scala a chiocciola e la donna sentì la porta che si apriva, al primo piano, poi dei passi, un mormorio e il rumore della poltrona a rotelle che veniva spostata, come ogni sera, attraverso la stanza. Infine lui tornò giù, e mettendosi a tavola disse:
«La signora non ha molta fame. Cosa c'è da mangiare?».
Aveva posato un libro davanti al piatto e tirato fuori dall'astuccio gli occhiali di tartaruga. La stufa gli scaldava la schiena. Mangiava lentamente. Louise lo serviva e, fra una portata e l'altra, aspettava, immobile nel suo bugigattolo, con lo sguardo perso nel vuoto.
Non aveva ancora vent'anni. Era piuttosto grossa, molto stupida, e aveva due occhi bovini assolutamente inespressivi.
Lo sgabuzzino che serviva da cucina non era abbastanza largo da farci stare un tavolo, così lei mangiava in piedi o aspettava che il cappellaio avesse finito per andare a sedersi al suo posto.
Al signor Labbé la ragazza non piaceva. Non aveva fatto un buon affare assumendola, ma era sempre in tempo per rimediare.
Alle otto meno un quarto si pulì le labbra, infilò il tovagliolo arrotolato nell'anello d'argento, rimise il tappo alla bottiglia dalla quale si era versato un solo bicchiere e si alzò sospirando.
«É pronto» disse la ragazza.
Allora lui prese il vassoio sul quale era preparato un altro pasto e salì ancora una volta al primo piano. Quante volte al giorno la faceva, quella scala?
La cosa più difficile era tenere il vassoio con una mano senza rovesciare niente e intanto tirar fuori di tasca la chiave e farla girare nella serratura, giacché quella porta era sempre chiusa a chiave, anche quando lui era in casa. Girò l'interruttore e, dalla finestra di fronte, Kachoudas vide accendersi la luce dietro l'avvolgibile. Il signor Labbé posò il vassoio al solito posto, e si richiuse la porta alle spalle.
Il tutto era molto complicato, e c'era voluto parecchio tempo per organizzare ogni cosa a puntino. I movimenti del cappellaio avvenivano in base a un ordine rigorosissimo, che aveva un enorme Importanza.
Per prima cosa, bisognava parlare. Non sempre lui si prendeva la briga di articolare bene le parole, perché da giù, comunque, non si sentiva altro che un mormorio confuso. Quella sera, per esempio, continuava a ripetere con una certa soddisfazione:
«Al suo posto non lo farei, Kachoudas!».
Non c'era niente di particolarmente appetitoso, sul vassoio, ma lui cercò almeno di scegliere il pezzo più tenero della cotoletta. C'erano dei giorni in cui mangiava tutto per la seconda volta.
Andò alla finestra. Aveva tempo. Scostò un po’ l'avvolgibile e vide il sarto che, dopo aver finito di mangiare, era tornato sul suo tavolo da lavoro, mentre le bambine giocavano per terra e la maggiore stava probabilmente lavando i piatti con la madre.
Tornando verso il vassoio disse a voce alta:
«Hai mangiato bene? Ottimo!».
Andò quindi a svuotare i piatti - tranne l'osso della cotoletta - nel gabinetto, evitando però di tirare l'acqua. All'inizio lo faceva, ma era un errore. Come tanti altri errori e imprudenze del genere, che a poco a poco aveva smesso di commettere.
Tornò giù con i piatti vuoti mentre Louise finiva di mangiare seduta al suo posto. Per avere meno stoviglie da lavare, usava il piatto del padrone e beveva nel suo bicchiere. Anche lei leggeva intanto che mangiava, e nel suo caso si trattava di giornaletti popolari.
«Non esce, Louise?».
«Non ho mica voglia di farmi strangolare». «Buonanotte».
«Buonanotte, signore».
Aveva quasi finito. Mancava solo qualche rito da compiere: assicurarsi che la porta del negozio fosse ben chiusa, spegnere le luci, salire per l'ennesima volta su per la scala a chiocciola, tirar fuori la chiave di tasca, aprire, richiudere.
Di lì a poco, Louise sarebbe salita a coricarsi nella camera in fondo e lui avrebbe sentito per un buon quarto d'ora il suo passo pesante, seguito dal cigolio della rete metallica del letto.
«Che idiota!».
Aveva tutto il diritto di parlare ad alta voce. Anzi, era quasi necessario farlo, di tanto in tanto. Ora poteva tirare l'acqua nel gabinetto, togliersi il solino, la cravatta, la giacca, e infilarsi la vestaglia marrone. Non aveva finito del tutto, però; doveva ancora mettere tre o quattro ceppi nel caminetto.
Louise li portava su al mattino e li accatastava sul pianerottolo del primo piano.
Tutte le case della strada appartenevano alla stessa epoca, quella di Luigi XIII. All'esterno erano rimaste tali e quali, con i loro portici e i tetti spioventi, ma all'interno avevano tutte subìto, nel corso dei secoli, diverse trasformazioni. Sopra la testa del signor Labbé, per esempio, c'era un secondo piano, al quale però non si poteva accedere se non dalla strada. Attraverso una porta di fianco al negozio si entrava in un corridoio che finiva nel cortile. E lì cominciava la scala che portava direttamente al secondo piano, senza comunicare con il primo.
Molto pratico quando lassù c'erano degli inquilini. Da tempo, però, quei locali erano vuoti, esattamente dal primo anno della malattia di Mathilde, che non sopportava di sentirsi camminare sopra la testa tutto il giorno.
Per sbarazzarsi di quella gente c'era voluto un processo. Ma era niente al confronto di quanto era successo dopo!
Aveva dimenticato qualcosa? I ceppi ardevano. L'avvolgibile era abbassato. Ora poteva spegnere la luce centrale, che gli sembrava troppo forte, e tenere accesa solo la lampada sul secrétaire, perché c'era sempre stato un piccolo secrétaire, in un angolo, con tanti minuscoli cassetti che adesso si rivelavano molto utili.
Prese la pila di giornali, le forbici, e caricò la vecchia pipa di schiuma. Un paio di volte si girò verso la finestra pensando a Kachoudas.
«Povero diavolo!».
All'inizio, mettere insieme quelle lettere era stato un lavoro di pazienza, perché ritagliava i caratteri uno per uno. Ora, però, conosceva il giornale così bene che sapeva in quale rubrica trovare quasi a colpo sicuro le parole che gli servivano.
Inoltre, aveva scovato nel cestino da lavoro di Mathilde delle forbicine da ricamo che tagliavano alla perfezione.
«É morta la sesta, giovanotto, e ancora una volta tutta la città piangerà sulla sua sorte».
Aveva preso l'abitudine di rivolgersi direttamente a Jeantet.
«Le faccio notare che la signorina Mollard soffre da molti anni di mal di cuore, che è povera, vive da sola, non ha nessuno che l'accudisca ed è costretta a dare lezioni di piano ai figli delle amiche. Quanto al cognato, l'architetto, che pure guadagna bene, si è sempre rifiutato di aiutarla.
«Non l'ho uccisa per questo, naturalmente. L'ho uccisa, come le altre, perché era necessario. E questo, nessuno lo vuole capire.
Diranno e scriveranno ancora che sono un pazzo, un maniaco, un sadico, un indemoniato, e non è così.
«Faccio quello che devo fare, punto e basta.
«Convincetevi di questo e vi libererete di quell'assurdo panico che impedisce alla gente di uscire di casa e incide tanto negativamente sul commercio.
«A meno che qualcuno non faccia delle sciocchezze, sul mio elenco ne resta ancora una sola. Così saranno esattamente sette, in barba a tutte le inchieste del mondo.
«La prova, giovanotto, è che le annuncio fin d'ora che sarà per lunedì».
L'indirizzo era facile da compilare: bastava ritagliare il nome di Jeantet in calce a un articolo e il recapito del giornale stampato in testa agli annunci economici.
Louise era entrata in camera sua e come al solito si preparava rumorosamente per la notte.
Il signor Labbé chiuse la busta, vi appiccicò un francobollo e la fece scivolare nella tasca della giacca che era appesa a una gruccia. L'indomani mattina, dopo aver tolto gli scuri dalla vetrina, avrebbe aspettato l'arrivo di Valentin e poi, pioggia o non pioggia, sarebbe andato a fare il solito giro in città.
La cosa più sorprendente è che non aveva dovuto cambiare niente delle sue abitudini. Al mattino aveva sempre fatto una passeggiatina nel quartiere, così come la sera si era sempre recato al Café des Colonnes.
Le nove e mezzo: gli restava un'ora buona. Andò a sedersi davanti al fuoco allungando le gambe e tenendo sulle ginocchia un grosso libro dalle pagine ingiallite.
Era uno dei volumi dei Processi celebri del XIX secolo. Cinque mesi prima, a un'asta, ne aveva comprati venti, scompagnati.
Gliene restavano da leggere sette.
Fumava a brevi boccate, con lunghe pause fra l'una e l'altra.
Faceva caldo. Louise doveva essersi finalmente addormentata.
Sentiva solo il rumore monotono della pioggia, di tanto in tanto il crepitare di un ceppo, e nessuno disturbava la sua lettura.
Era calmo, sereno. Ogni tanto gettava un'occhiata alla sveglia.
«Ancora venti minuti!».
Ancora dieci. Ancora cinque. Alle dieci e mezzo chiuse il libro con un sospiro, si alzò e andò in bagno. Alle undici meno un quarto si coricò nel letto di destra.
Una volta c'era un solo letto, nella camera, un bellissimo letto che ben si accordava con gli altri mobili. All'epoca della malattia di Mathilde lo avevano trasportato, passando dalla strada - dato che non c'era una scala fra i due piani -, nell'appartamento vuoto di sopra, e lo avevano sostituito con due letti gemelli separati da un comodino.
Si voltò a controllare che la brace ancora rovente nel caminetto non rischiasse di rotolare sul tappeto appiccandovi il fuoco. Kachoudas, nella casa di fronte, stava ancora lavorando. Era un povero diavolo. Faceva tutto lui, compresi i calzoni e i gilè, che i sarti più rinomati affidano in genere a lavoranti esterne.
Ora che la stanza era immersa nell'oscurità, il signor Labbé poteva vedere, attraverso l'avvolgibile, il rettangolo luminoso dall'altra parte della strada.
E prima di addormentarsi disse a mezza voce, poiché era sempre opportuno far sentire che parlava:
«Buonanotte, Kachoudas».
Non faceva mai suonare la sveglia: si svegliava da solo alle cinque e mezzo del mattino. Quella cicciona di Louise dormiva ancora, rannicchiata nel suo letto madido. Probabilmente lo sentiva alzarsi, andare a prendere della legna sul pianerottolo, richiudere la porta, accendere il fuoco nel caminetto. Quella mattina il signor Labbé notò subito che mancava qualcosa, ed era il crepitare della pioggia, il rumore dell'acqua nella grondaia.
Era ancora troppo buio per vedere il cielo, ma si percepiva il vento che dal mare spingeva le nuvole verso l'interno.
Doveva rifare il letto, mettere in ordine la camera, portar fuori il secchio con la cenere del caminetto; e tutto questo lo faceva con movimenti precisi e in base a un ordine minuziosamente studiato.
Ogni tanto parlava, senza badare a quel che diceva, e ben presto vide illuminarsi la finestra di fronte. Non era Kachoudas, che dormiva ancora, ma la moglie, che accendeva il fuoco, spazzava il laboratorio, toglieva la polvere.
Sentì passare i carretti che andavano al mercato, seguiti da altri che si fermavano nella strada, e poi voci di contadine, tonfi di ceste e di sacchi lasciati cadere a terra.
Era sabato. Fece il bagno e si vestì, mentre Louise si lavava proprio dietro la parete divisoria.
La ragazza scese per prima, preparò il caffè, e quando lui arrivò da basso il fuoco era già acceso.
«Buongiorno, Louise».
«Buongiorno, signore».
Entrò in negozio e introdusse un fiammifero nel piccolo foro della stufa a gas. I rumori della strada si andavano intensificando, ma non era ancora il momento di togliere gli scuri.
Doveva prima far colazione, poi portare su il vassoio a Mathilde. Il cielo cominciava a impallidire. Il signor Labbé spinse vicino alla finestra la poltrona a rotelle che sistemava sempre allo stesso posto, nello stesso angolo, e si assicurò che la testa di legno, proveniente dal retrobottega, non ruzzolasse sul pavimento.
Spegnere la luce. Alzare l'avvolgibile. Tutto era grigio, quasi bianco. La pioggia si era trasformata in nebbia e la lampada di Kachoudas si vedeva appena, come attraverso un velo di foschia.
Sui vetri, una crosta di ghiaccio. Forse stava per arrivare il gelo... In strada, le contadine, imbacuccate negli scialli, smettevano ogni tanto di sistemare i loro cesti e si battevano i fianchi con le mani livide dal freddo. Una di loro, una vecchina che da quarant'anni si piazzava sempre allo stesso posto, aveva acceso una specie di braciere. In quella stagione, vendeva castagne e noci.
Kachoudas non si era ancora appollaiato sul suo tavolo da lavoro. Attraverso la porta aperta della cucina si vedeva tutta la famiglia che stava facendo colazione. La signora Kachoudas non si era né lavata né pettinata, e il bambino più piccolo, l'unico maschio, che aveva grandi occhi neri a mandorla, aveva ancora indosso la camicia da notte.
Gente strana, i Kachoudas. Mangiavano salumi già di prima mattina. Il sarto era voltato di schiena e aveva una spalla più alta dell'altra.
Il signor Labbé si dispose ad aspettarlo. C'erano sempre tante piccole cose da fare. I giornali dai quali aveva ritagliato lettere e parole erano già stati bruciati. Fece stirare a Louise il completo che aveva indossato il giorno prima; era molto ordinato, e portava sempre abiti di ottima qualità e scarpe fatte su misura.
Quello che era stato all'inizio solo il rimbombo dei carretti sul selciato e l'echeggiare di poche voci qua e là era ormai diventato, da un capo all'altro della strada, il frastuono assordante di ogni sabato, e già prima di uscire lui sapeva che appena avesse aperto la porta del negozio lo avrebbe assalito l'odore di ortaggi freschi, di cavoli bagnati, di conigli e galline.
Dovette aspettare ancora un bel po', con l'occhio incollato alla fessura, prima che Kachoudas si decidesse a uscire di casa.
Allora si mosse anche lui, lanciando sopra le teste delle contadine un:
«Buongiorno, Kachoudas!».
Le gracili spalle del sarto sussultarono, poi Kachoudas si voltò, aprì la bocca e restò muto per qualche secondo prima di riuscire a spiccicare un:
«Buongiorno, signor Labbé».
Aveva l'aria di uno che non crede ai suoi occhi, o che è vittima di un'allucinazione - forse a causa della nebbia... Tutto si svolgeva come le altre mattine, in ogni caso come sempre di sabato: il cappellaio, rasato di fresco e vestito con cura, toglieva con gesti pacati i pannelli di legno dalla vetrina, li portava dentro a uno a uno e li appoggiava in un angolo, dietro la porta.
Il selciato era ancora bagnato, con pozze d'acqua lungo i marciapiedi. La salumeria attigua alla bottega di Kachoudas aveva ancora le luci accese.
Alle otto e mezzo arrivò Valentin, con il naso tutto rosso, e appena messo piede in negozio cominciò a soffiarselo.
«Mi sono preso il raffreddore» disse.
Col caldo che faceva nella cappelleria, gli sarebbe certo passato!
Il signor Labbé s'infilò il cappotto e prese il cappello.
«Torno fra un quarto d'ora».
Si diresse verso il mercato coperto, e molti lo salutavano perché era nato alla Rochelle e ci aveva passato tutta la vita.
Optò per la cassetta delle lettere situata in rue des Merciers: quella mattina, nell'andirivieni della folla, non rischiava di esser notato. Poi, come gli piaceva fare di sabato, entrò nel mercato coperto e si mise a gironzolare fra i banchi del pesce e dei crostacei. Comprò il giornale, all'angolo della strada, solo al momento di rientrare, e se lo cacciò in tasca senza neppure dargli un'occhiata per curiosità.
Una contadina aveva portato in negozio il figlio, e Valentin, sempre col fazzoletto in mano, gli stava provando dei berretti.
Era ormai giorno fatto. Il signor Labbé andò a togliersi cappello e cappotto e, affacciandosi alla porta della cucina, disse a Louise:
«Più tardi, vada a comprare degli scampi. La vecchietta di Charron ne ha di bellissimi. La signora ha chiamato?».
«No, signore».
Prima avrebbe mangiato la sua porzione di scampi seduto a tavola, e dopo quella di Mathilde, su in camera. Era una fortuna che la domestica precedente, Delphine, fosse andata a vivere con la figlia all'isola d'Oléron, perché, essendo stata da loro per vent'anni, sapeva perfettamente che a Mathilde non piaceva niente di ciò che proveniva dal mare.
Avrebbe potuto trovarne una meglio di Louise, e tante cose sarebbero magari filate via più lisce. Cominciava perfino a detestarla, quella zoticona. Non faceva mai domande. Era impossibile capire a cosa stesse pensando. Ma forse non pensava affatto...
Non gli piaceva che restasse lì a dormire. Delphine, che aveva dei figli, subito dopo cena tornava a casa sua, dall'altra parte della città. Anche Louise, all'inizio, dormiva fuori. Poi, a causa di quella serie di delitti, aveva dichiarato che non se la sentiva più di uscire dopo il tramonto.
Perché aveva acconsentito a darle una camera al primo piano?
Chissà, forse in quel momento ci aveva anche fatto un pensierino... Se non la si guardava con occhio troppo critico, era abbastanza appetitosa, la ragazza. Ma adesso che la sentiva fare le sue abluzioni di là dal tramezzo, sapeva che in fatto di pulizia lasciava alquanto a desiderare. Ogni volta che gli era capitato di entrare nella sua camera, l'odore che vi stagnava lo aveva nauseato, come pure la vista di certi capi di biancheria buttati su una sedia.
Probabilmente non era pericolosa, ma rappresentava pur sempre una complicazione, e lui aveva fatto il possibile per evitarle, le complicazioni.
Ma ci avrebbe pensato più avanti.
Si cambiò la giacca: per lavorare, ne indossava sempre una più vecchia. Entrò nel retrobottega e accese il fornello che gli serviva per stirare a vapore i cappelli.
Aprì quindi un armadio con la chiave più piccola del mazzo.
Quelle chiavi avevano un'enorme importanza ed erano levigate e lucenti come strumenti da lavoro. Le teneva sempre nella stessa tasca e non dimenticava mai di posarle sul comodino prima di andare a letto.
In fondo all'armadio pendeva una cordicella che partiva dal soffitto: la tirò due o tre volte.
Valentin, che era sempre occupato con la cliente e il suo ragazzino, andò verso di lui e gli disse:
«La signora la chiama, signor Labbé».
Infatti, tirando la cordicella, si azionava un congegno che produceva l'effetto di colpi battuti sul pavimento del primo piano, proprio come quando era Mathilde che, per chiamarlo, batteva su quello stesso pavimento con un bastone.
«Vado» rispose con un sospiro.
Richiuse l'armadio e si rimise la chiave in tasca. Cosa strana, nel negozio di fronte Kachoudas stava prendendo le misure a un ragazzino portato lì dalla madre. Un ragazzino e una madre di qua, un ragazzino e una madre di là... E, cosa ancor più strana, tutti dello stesso villaggio.
Sparì su per la scala a chiocciola e Valentin poté sentire i suoi passi. In camera, richiuse la porta. Le tende impedivano la vista dall'esterno. In cucina, la signora Kachoudas, che non si preoccupava minimamente dei suoi dirimpettai, era lì con le braccia per aria che si stava infilando un vestito sopra la sottoveste: per stare più al caldo, quella gente si vestiva e perfino si lavava in cucina. Per le bambine e il piccolino mettevano un catino di smalto sopra una sedia.
Aggiunse un altro ceppo nel caminetto, si sedette, accese la pipa, e solo a quel punto aprì il giornale.
«Lo Strangolatore ha fatto un'altra vittima».
Curioso come le parole possano alterare la realtà! «Lo Strangolatore»! Con la maiuscola, per di più! Come se uno ci nascesse, strangolatore. Come se fosse una vocazione! Mentre le cose stavano in tutt'altro modo! Questo lo irritava sempre un po', ed era proprio quella irritazione che lo aveva spinto a mandare la prima lettera al giornale. Allora avevano scritto:
«Un pazzo pericoloso si aggira per la città».
Lui aveva replicato:
«Nossignore, non si tratta di un pazzo. Non parli di quello che non sa».
Il giovane Jeantet, però, non era uno stupido. Mentre la polizia rastrellava vagabondi e marinai ubriachi, e fermava a caso i passanti chiedendo loro i documenti, lui seguiva con pazienza un filo logico. Dopo la terza vittima, la signorina Lange, la merciaia di rue Saint-Yon, e quando erano già state organizzate le ronde notturne, Jeantet scriveva:
«A torto si prendono di mira i vagabondi e, in generale, chi attira l'attenzione per com'è vestito o come si comporta.
L'assassino è necessariamente un uomo che passa inosservato.
Dunque, non è un forestiero, come è stato ipotizzato. Dato che, per commettere i suoi delitti, ha dovuto inevitabilmente andare avanti e indietro per la città, è più che probabile che gli sia capitato d'imbattersi, almeno una volta, in una delle pattuglie di volontari che la perlustrano Ogni sera».
Verissimo! Il cappellaio aveva effettivamente incontrato una pattuglia e continuato imperturbabile per la sua strada. Gli avevano puntato addosso una torcia elettrica, dopodiché una voce aveva detto:
«Buonasera, signor Labbé».
«Buonasera, signori!».
«... Solo un cittadino noto e stimato ha potuto...». E si spingeva ben oltre nelle sue deduzioni, il giovanotto che ogni sera scriveva i suoi articoli seduto al primo tavolino del Café des Colonnes:
«... Tenuto conto dell'ora in cui sono stati perpetrati i crimini, è evidente che si tratta di un uomo sposato, dalle abitudini regolari...».
Basava quell'affermazione sul fatto che nessun delitto era stato commesso dopo l'ora di cena.
«... Un uomo, dunque, che la sera non esce mai da solo...».
E proseguiva facendo delle ipotesi più dettagliate. Dopo il quinto delitto, il penultimo, quello di cui era stata vittima Léonide Proux, la levatrice di Fétilly, aveva scritto:
«É probabile che l'ostetrica sia stata indotta a uscire di casa da una telefonata, il che sembra confermato dalla borsa dei ferri che aveva con sé quando è stata aggredita...».
Falso! La levatrice era stata invece la sola che il signor Labbé avesse incontrato quasi per caso. Era sulla lista, certo, e forse, se il signor Labbé non l'avesse incontrata, le avrebbe effettivamente telefonato...
«Poiché sarebbe stato pericoloso fare una telefonata così compromettente da una cabina pubblica o da un caffè...».
Voleva mostrarsi fin troppo intelligente, più intelligente dell'assassino. Arrivava ad affermare che questi aveva il telefono in casa: ma non pensava, allora, che la moglie o la domestica avrebbero potuto sentire qualcosa?
E invece, guarda caso, il signor Labbé non aveva il telefono, si era sempre rifiutato di farselo mettere.
Adesso, il giovane Jeantet era proprio in alto mare:
«Probabilmente si tratta di un uomo che lavora in qualche ufficio, esce fra le cinque e le sei e commette i suoi delitti prima di rientrare a casa».
Era piuttosto sconcertante che queste cose le scrivesse al caffè, dove ogni giorno vedeva commercianti e liberi professionisti passare un'ora o due giocando a carte prima di cena.
Quel giorno c'era di meglio. Il giornale recava, come sottotitolo:
«La polizia conosce l'identità dell'assassino?».
Il corpo della signorina Irène Mollard era stato scoperto poco dopo le otto di sera. Un poliziotto era andato letteralmente a sbattervi contro. Tutti gli abitanti della zona erano stati allertati, e la madre della piccola allieva cui l'anziana signorina aveva dato la sua ultima lezione si era messa a gridare:
«Non volevo lasciarla andar via da sola. L'ho supplicata di aspettare mio marito, che l'avrebbe accompagnata fino a casa. Non ha voluto sentir ragione e non ha dato peso ai miei timori.
Diceva di non aver paura. Mentre si allontanava, ho tenuto per un po' la porta socchiusa per sentire il rumore dei suoi passi. Ora ricordo di aver visto un uomo in mezzo alla strada. Stavo per chiamare aiuto, poi ho pensato che mi sarei fatta ridere dietro: un assassino non si sarebbe mai messo proprio in mezzo alla strada! Comunque, ho chiuso la porta in fretta. Non l'ho visto bene, quell'uomo, ma sono quasi sicura che era piccoletto, magro, e con un impermeabile troppo lungo».L'impermeabile di Kachoudas! O meglio, l'impermeabile che non apparteneva a Kachoudas e che un rappresentante di passaggio aveva lasciato da lui, perché era vecchio e sporco, quando aveva comprato un cappotto nel suo negozio. Il piccolo sarto lo metteva quando pioveva, per non rovinare quello buono.
Il signor Labbé si voltò verso la finestra. Kachoudas era tornato sul suo tavolo da lavoro e stava parlando con la moglie, pronta per uscire con la borsa della spesa in mano. Probabilmente gli chiedeva cosa volesse mangiare.
Il sarto non aveva ancora letto il giornale. Al mattino usciva di casa solo per togliere gli scuri. Di lì a poco, rientrando dal mercato, la moglie gli avrebbe portato «L'Echo des Charentes».
Anche Louise stava uscendo per fare la spesa. Il campanello della porta d'ingresso si era fatto sentire più volte, segno che in negozio c'erano dei clienti.
Prima di lasciare la camera, il signor Labbé non dimenticò di pronunciare qualche parola e di spostare un po’ la poltrona a rotelle.
Valentin vide spuntare le sue gambe, poi il busto, e infine la faccia, calma e distesa. Poiché il giovane appariva vagamente imbarazzato, il cappellaio gli domandò:
«Che cosa c'è?».
E quello, sempre più raffreddato, indicò un contadino grande e grosso che si dondolava sulle gambe.
«Ci vorrebbe un 58, ma arriviamo solo al 56...».
«Dia qui».
Mise in forma il cappello col vapore e il cliente se ne andò osservandosi negli specchi con una qualche perplessità.
«Chiuderà lei, Valentin».
«Certo, signore. Buonasera, signore».
«Buonasera, Valentin».
Il poveretto si era soffiato il naso per l'intera giornata, ed era tutto un colare, al punto che venivano le lacrime agli occhi solo a vederlo e a sentirlo. Per ben due volte aveva approfittato del fatto che non c'erano clienti per mettere ad asciugare il fazzoletto davanti alla stufa a gas.
Anche lui era un povero diavolo. Alto di statura, aveva i capelli rossi, occhi di un azzurro maiolica e un'aria così perbene che spesso il signor Labbé, dopo aver aperto la bocca per fargli un'osservazione, la richiudeva senza dir niente e si limitava a scrollare le spalle. Passavano insieme la maggior parte della giornata, perché, in realtà, cappelleria e laboratorio formavano un solo locale. C'erano giorni in cui stavano delle ore senza veder entrare un cliente. Quando aveva spolverato e messo in ordine ogni cosa, e controllato per l'ennesima volta tutte le etichette, il povero Valentin, come un cagnone impacciato dalla sua mole, cercava un angolino dove rannicchiarsi evitando di far rumore e trasalendo al minimo movimento del padrone. Poi, dato che non aveva il permesso di fumare in negozio, si metteva a succhiare in silenzio caramelle alla violetta.
«A lunedì, Valentin. Buona domenica!».
Una gentilezza supplementare, così, en passant. L'importante era sapere se Kachoudas sarebbe uscito o no. Non aveva messo piede fuori per tutto il giorno. Una volta era sceso in negozio per una prova, un'altra volta aveva sciorinato delle stoffe davanti a un cliente che però non si era deciso a comprar nulla, e probabilmente se l'era cavata con la promessa di tornare. Aveva lasciato la luce accesa nel laboratorio perché la nebbia non accennava a diradarsi, e quando i rumori del mercato si erano attenuati la sirena della boa aveva fatto sentire, a intervalli regolari, la sua voce: una specie di muggito mostruoso che si diffondeva ovunque nell'aria e impressionava ancora taluni che pure abitavano lì da molto tempo. Nessun battello era uscito in mare, e si nutriva qualche preoccupazione sulla sorte di quelli che non erano rientrati.
Le contadine se n'erano andate prima di sera sui loro carretti o con le corriere, e solo gli uomini indugiavano ancora nei caffè, accesi in volto e con gli occhi lustri.
Kachoudas doveva aver letto il giornale. Ad ogni modo sua moglie glielo aveva portato. Su questo punto il signor Labbé non si era sbagliato. Del resto, lui non si sbagliava mai. Non poteva permetterselo. Nonostante tutto ciò a cui doveva pensare, riusciva a non dimenticare niente, neanche il più piccolo dettaglio. Sarebbe stata la fine, altrimenti.
Il giornale era posato su una sedia, vicino al tavolo da lavoro del sarto, e si vedeva che era stato aperto.
Kachoudas non avrebbe tardato a seguirlo, il cappellaio ne era certo. Si fermò sulla soglia del negozio, guardò verso la finestra illuminata facendo meccanicamente fra sé «pio pio pio...» come le contadine quando chiamano i polli.
Camminava senza far rumore, e dopo una ventina di metri udì alle sue spalle quei passi che avrebbe saputo distinguere fra tutti gli altri.
Kachoudas lo aveva seguito. Forse, per un po', aveva esitato...
Era proprio un poveraccio. Ce ne sono tanti, al mondo, di poveracci così. Dovevano fargli una gran gola, quei ventimila franchi. Di certo, non l'aveva mai vista neanche da lontano, una simile somma tutta in una volta, se non, forse, dietro lo sportello della banca. Avrebbe dovuto lavorare un paio d'anni, faticando giorno e notte sul suo tavolo, per guadagnare altrettanto.
Quei ventimila franchi li voleva di sicuro, con tutte le sue forze. Ed era proprio perché li voleva con tanto accanimento che aveva così paura.
Forse temeva di perderli più di quanto temesse il cappellaio...
Quello che era accaduto doveva fatalmente accadere: sono sempre i tipi alla Kachoudas ad apparire sospetti; ed era proprio Kachoudas che la madre della piccola pianista aveva intravisto e descritto alla polizia.
Camminavano l'uno dietro all'altro, come al solito, e anche senza vederlo il signor Labbé sapeva che a ogni passo il piccolo sarto gettava la sua gamba di lato. Il cappellaio, invece, procedeva calmo e impettito: aveva davvero un gran bel portamento.
Aprì la porta del Café des Colonnes, e sarebbero bastati il brusio e l'odore a fargli capire che era sabato. L'odore, sì, perché gli avventori del sabato non bevevano le stesse cose dei clienti degli altri giorni.
La sala era gremita, c'era addirittura gente in piedi. I contadini più modesti si riunivano nei piccoli caffè attorno al mercato; lì invece venivano i più ricchi, o i più intraprendenti, quelli che avevano a che fare con venditori di concime, con assicuratori, con uomini di legge che, ogni sabato, sedevano a quei tavoli e vi si trattenevano qualche ora per concludere i loro affari.
Solo i tavoli al centro, vicino alla stufa, costituivano un'oasi rispettata da tutti e circondata da una zona di calma e di silenzio.
Il dottor Chantreau non giocava, ed era seduto dietro al senatore, che aveva in mano le carte. Il signor Labbé gli strinse la mano.
«Salve, Paul».
Poi, vedendo che l'amico prendeva una pillola da una scatolina di cartone:
«Qualcosa che non va?».
«Il fegato».
Ne soffriva periodicamente. Da un giorno all'altro sembrava dimagrire di parecchi chili, tanto il suo volto era segnato, con le borse sotto gli occhi e lo sguardo di uno che sta male.
Avevano la stessa età. In collegio erano molto amici, quasi Inseparabili.
Gabriel prese il cappotto e il cappello del signor Labbé.
«Il solito?».
Davanti al dottore, sul marmo del tavolino, c'era una bottiglietta di Vichy da un quarto. Kachoudas, che era appena entrato, esitava a sedersi vicino ai giocatori.
Un povero diavolo anche lui! Non solo Kachoudas, che finalmente si era deciso a sedersi sull'orlo di una sedia, ma anche Paul, il dottore. Il signor Labbé doveva avere ancora da qualche parte, in fondo a un cassetto, una fotografia che li ritraeva insieme, a quindici o sedici anni. A quell'epoca Chantreau era magro, con i capelli che davano sul rosso (ma non il rosso scialbo di Valentin), e teneva la testa alta guardando davanti a sé con aria di sfida.
Aveva deciso di fare il medico, non un medico qualunque, però: voleva essere un grande ricercatore, un Pasteur, un Nicolle. Suo padre era ricco, possedeva una decina di fattorie nell'Aunis e in Vandea, e si limitava ad amministrarle da lontano. Per una strana coincidenza, passava i pomeriggi al Café des Colonnes, seduto allo stesso tavolo che adesso occupavano i giocatori di bridge.
«Mi fa schifo» diceva di lui il giovane Paul. «É avaro. «Se ne frega di come vivono i contadini».
Insomma, i genitori di tutti i componenti del gruppo possedevano patrimoni, terre, fattorie, case, o anche navi, o quote di navi.
Kachoudas guardava di sfuggita, ma intensamente, il signor Labbé, che faceva finta di non accorgersene. Era un gioco, un modo per provare a se stesso di avere la coscienza a posto. I ruoli erano rovesciati: era il piccolo sarto a sudare dalla paura, a bere nervosamente il suo vino lanciando all'altro, di tanto in tanto, occhiate supplichevoli.
Ma di che cosa lo supplicava? Di lasciarsi prendere per dargli modo di intascare i ventimila franchi del premio?
«Bevi troppo, Paul».
«Lo so».
«Perché lo fai?». Perché si beve? Chantreau era diventato medico. Tornato in città, aveva aperto uno studio e aveva deciso:
«Riceverò i pazienti solo al mattino, e il resto della giornata lo dedicherò alle mie ricerche».
Aveva installato un vero e proprio laboratorio e si era abbonato a tutte le riviste mediche.
«Perché non ti sei mai sposato, Paul».
Forse perché aveva deciso di diventare uno scienziato, chissà, non lo sapeva neanche lui, e si limitava ad alzare le spalle con una smorfia dovuta al mal di fegato.
Si era lasciato crescere la barba, aveva smesso di prendersi cura della propria persona. Unghie nere, camicia di dubbia pulizia. Nei primi tempi veniva al Café des Colonnes alle sei, come quelli che lavorano, poi alle cinque, poi alle quattro, e adesso era già lì subito dopo pranzo. Poiché a quell'ora non c'era nessuno con cui fare la partita, giocava a dama con Oscar, il padrone.
Ormai aveva passato i sessanta, come il signor Labbé. E come tutti gli altri.
«Prendi il mio posto, Léon? Devo andare a far due chiacchiere con i miei elettori».
André Laude, il senatore, che aveva vinto le tre manche, si alzò a malincuore. Intorno a loro c'era un continuo brusio, gente che andava su e giù trascinando i piedi sul pavimento ricoperto di segatura, acciottolio di piattini e bicchieri, voci più forti del solito.
«E va bene: finiranno col prenderlo» diceva un agricoltore che calzava alti stivali di cuoio. «Finiscono tutti col farsi prendere, anche i più furbi. E dopo? Diranno che è pazzo e lo cacceranno in un manicomio, e a noi contribuenti ci toccherà mantenerlo fino a che non creperà».
«A meno che non incappi in un tipo come me!».
«Oh, tu faresti come gli altri, sei solo uno sbruffone! Forse gli molleresti un pugno in faccia, ma dopo lo consegneresti da bravo alla polizia. In un paesino, magari, le cose andrebbero diversamente. Lì, hanno forche e badili».
Tranquillamente, senza batter ciglio, il signor Labbé sedette al posto del senatore che si apprestava a fare il giro dei tavoli. Per un attimo il cappellaio si domandò se anche Kachoudas fosse raffreddato, tanto era rosso in faccia e con gli occhi lustri, ma poi notò che sotto il suo bicchiere c'erano due piattini.
Il sarto stava bevendo! Che fosse per darsi coraggio? Già faceva segno a Gabriel di portargli un terzo bicchiere di bianco.
«Sei in coppia con me» annunciò Julien Lambert, l'assicuratore, mescolando le carte.
Non era un gran bevitore, lui: si accontentava di un aperitivo, due al massimo. Era protestante. Aveva quattro o cinque figli e ne avrebbe avuti molti di più se sua moglie non avesse abortito una volta su due.
Ormai tutti lo prendevano in giro. Gli domandavano:
«E tua moglie?».
«É in clinica».
«Un bambino?».
«No, un aborto».
Anche lui aveva parecchio denaro, ereditato dai genitori, che gli aveva permesso di aprire una florida agenzia di assicurazioni. Non se ne occupava molto; aveva dei bravi agenti.
Qualche volta, se c'era in ballo una faccenda urgente, uno di questi lo raggiungeva lì al caffè. Dopo aver giocato a bridge tutto il pomeriggio, cenava in fretta e furia per fare un altro bridge a casa sua o da qualche amico.
Ed era il fratello della signora Geoffroy-Lambert, la quarta vittima, quella strangolata in rue Réaumur. Il signor Labbé era andato al funerale.
«Condoglianze, Julien».
Era andato ai funerali di tutte, perché le conosceva, se non altro attraverso Mathilde.
Il giovane giornalista non c'era. Probabilmente, l'inchiesta che stava svolgendo per suo conto lo aveva trattenuto fuori. A due o tre riprese, il signor Labbé gettò un'occhiata verso il tavolino al quale era abituato a vederlo seduto.
«Abbiamo ricevuto un'altra lettera» disse Caillé, il tipografoeditore proprietario dell'«Echo des Charentes», continuando a esaminare le sue carte.
«Adesso esagera» mormorò Julien Lambert annunciando poi due fiori.
Quindi, voltandosi verso Chantreau, che li guardava giocare:
«Credi che si tratti di un pazzo, Paul?».
Il dottore alzò le spalle. Per il momento la cosa non lo interessava. Pensava solo alle fitte lancinanti che sentiva al fegato.
«Ad ogni modo, si fermerà solo quando lo prenderanno» grugnì.
«Jack lo Squartatore non l'hanno mai preso, eppure a un certo punto ha smesso di uccidere».
Il signor Labbé non ci aveva mai pensato, e la cosa gli fece piacere.
«Quante ne ha uccise?» domandò. «Tre quadri».
«Passo».
«Tre picche» rincarò Lambert.
«Quattro cuori».
Si preannunciava un piccolo slam e ci fu un momento di silenzio, interrotto da diversi annunci, finché si arrivò a sei quadri.
«Contro!».
«Non so quante ne abbia uccise, ma a Londra e dintorni il terrore è durato parecchi mesi. Hanno fatto intervenire persino l'esercito; certi uffici e certe fabbriche hanno dovuto chiudere perché le impiegate e le operaie non si arrischiavano più a uscire di casa».
«Mi piacerebbe sapere quante donne ci sono per la strada in questo momento».
Il piccolo sarto tremava. Vuotò d'un fiato il suo terzo bicchiere e, non osando più guardare verso i giocatori per paura di incontrare lo sguardo del cappellaio, prese a fissare con espressione cupa il pavimento sporco.
«Batto quattro volte atout. Faccio l'impasse al re di picche e il resto è mio».
Sarebbe stato interessante sapere com'era Kachoudas quando aveva bevuto. Il signor Labbé non lo aveva mai visto ubriaco. Il dottore, per esempio, che cominciava a ingollare alcol fin dal mattino, dopo ogni visita, e non si fermava più per tutto il giorno, all'inizio aveva un fare bonario, con una leggera sfumatura d'ironia. Gli ultimi pazienti della mattinata li chiamava tutti: «Piccolo mio». Oppure: «Vecchio mio». Oppure:
«Signora mia bella». E invece di compilare la ricetta, andava a prendere nell'armadio una medicina e gliela cacciava in mano gratuitamente.
Nel primo pomeriggio aveva un aspetto olimpico, aureolato dai fumi dell'alcol, il gesto lento, lo sguardo immobile, la parola stentata. Poi, a poco a poco, si faceva sarcastico, anche con gli amici.
Chi lo incontrava verso le dieci di sera, quando rincasava dopo essersi scolato vari bicchieri di vino rosso nei piccoli bistrot, assicurava che aveva i lucciconi agli occhi e che gli si aggrappava al braccio piagnucolando.
«Un povero fallito, amico mio. Un immondo relitto, ecco cosa sono! Dillo, su, che ti faccio schifo, che vi faccio schifo a tutti!».
Quanto a Oscar, il padrone, che brindava tutto il giorno con i clienti per obbligo professionale, a un certo punto gli si gonfiavano gli occhi, camminava con esitante sussiego, cominciava a impappinarsi e, verso sera, farfugliava in modo tale che non sempre si capiva quello che diceva.
Come che fosse, il piccolo sarto era ormai in preda a un'agitazione febbrile. Non riusciva a star fermo, si muoveva a scatti, quasi avesse dei tic o stesse scacciando le mosche.
Il signor Labbé aveva la gratificante sensazione di poterlo manovrare come una marionetta, di sussurrargli gentilmente:
«Dà retta a me, stai calmo».
Sapeva perfettamente che il commissario Pigeac era lì alle sue spalle, al tavolo dei quarantacinquantenni. Lo aveva visto entrare: cappotto grigio, cappello grigio, faccia grigia. Un pesce, sembrava, un pallido merluzzo, con quel suo eterno sorriso gelido sulle labbra come a far capire che la sapeva lunga E invece non sapeva proprio niente; il signor Labbé ne era convinto. Era solo un emerito imbecille, un funzionario nato, che pensava solo alla carriera e si era iscritto a una loggia massonica perché gli avevano fatto credere che questo lo avrebbe favorito. Era bravo solo al biliardo, dove faceva strabilianti carambole girando lentamente intorno al tavolo verde e dandosi di tanto in tanto una sbirciatina negli specchi.
«Dà retta a me, non farlo».
Lo diceva, in cuor suo, rivolgendosi a Kachoudas, perché lo vedeva sempre più fuori di sé, tutto accaldato e smarrito, e con un pensiero fisso: i ventimila franchi e la testimonianza della mamma della piccola pianista.
«Dice che ne ucciderà ancora una sola» osservò Caillé, il tipografo.
«Perché?».
«Non lo spiega. Continua a sostenere che si tratta di una necessità, che non lo fa per divertimento. Leggerete la sua lettera sul giornale di domani. Tocca a me parlare? Un senza».
Quattro bicchieri di vino bianco. Kachoudas aveva già bevuto quattro bicchieri di vino bianco e si dimenticava perfino di guardare l'orologio. L'ora in cui tornava a casa di solito era passata da un pezzo.
«É per lunedì».
«Che cosa?».
«L'ultima. Perché poi lunedì, non lo so proprio. Sono curioso di vedere se fra oggi e domani ne ammazzerà un'altra. In questo caso dovremmo pensare che non sa quello che scrive».
«Sa benissimo quello che scrive» affermò Julien Lambert.
«Perché sette e non otto?».
«E perché mia sorella, che non ha mai fatto del male a nessuno?».
«Forse non gli piacciono le donne anziane» disse Chantreau con la sua voce gutturale.
Il signor Labbé lo guardò con interesse: l'osservazione non era poi così stupida. Non del tutto esatta, ma niente affatto stupida.
«Avete notato» proseguì Caillé «che hanno tutte più o meno la nostra età?».
A quel punto intervenne Arnould, il grosso Arnould, delle Sardine Arnould, che non aveva ancora aperto bocca:
«Con almeno due di loro ci sono andato a letto, una per poco non la sposavo».
Lambert saltò su, piccato:
«Alludi a mia sorella?».
«Chi parla di lei?».
Ma tutti sapevano che la signora Geoffroy-Lambert passava per essere stata alquanto «disponibile». Bisogna dire comunque che lo era diventata solo intorno alla quarantina, dopo esser rimasta vedova, e che le interessavano esclusivamente gli uomini giovanissimi.
«Hai conosciuto Irène Mollard?».
«Era carina, ma a diciassette anni dicevano già che ne aveva per poco, tanto era gracile. Sentimentale, poi, come un romanzo d'appendice. Tanto sentimentale che non si è mai sposata.
Scommetto che è morta vergine».
«É così?» domandò qualcuno al dottore, che l'aveva avuta in cura.
«Non l'ho mai visitata da quel punto di vista».
«Chi ha dichiarato tre fiori? Eravamo rimasti a tre fiori...
Tocca a te, Paul».
Il caffè era pieno di fumo che si addensava intorno ai grossi globi di vetro bianco latte installati da poco. Il senatore era al suo terzo tavolo, e ogni volta pagava da bere, tirava fuori di tasca un taccuino e scriveva qualcosa. Erano rari gli elettori che non avevano niente da chiedere, e quando il signor Labbé lo guardò da lontano, proprio mentre stava rimettendosi in tasca il taccuino, Laude gli rivolse una cinica strizzatina d'occhio.
Un tempo era il meno ricco del gruppo. Suo padre era un modesto impiegato del Crédit Lyonnais, e lui aveva sposato un'ereditiera pur essendo, all'epoca, un semplice avvocato e consigliere comunale. Ora abitava in uno degli imponenti palazzi di rue Réaumur, non lontano da quello della signora Geoffroy-Lambert.
«A proposito,» disse il signor Labbé «la casa di tua sorella dev'essere in vendita...».
«Hai intenzione di comprarla?» ribatté l'altro in tono ironico. «É gigantesca, quella casa. Solo di camere da letto ce ne sono undici, e in fondo al cortile ci sono scuderie per una decina di cavalli. Sto cercando di trattare con la Prefettura, che ha sempre bisogno di uffici».
«Dà retta a me, stai calmo!».
Quasi quasi il signor Labbé avrebbe voluto dire a Gabriel di non servire più da bere al sarto, e Gabriel gli avrebbe certamente obbedito. Per un attimo si allarmò, e fu quando Kachoudas si alzò di scatto e parve sul punto di precipitarsi verso il tavolo del commissario. Invece passò oltre, sparendo nelle toilette.
Problemi di vescica? Di stomaco? In quel momento, per un caso fortunato, il cappellaio faceva il morto e poté quindi dirigersi a sua volta verso i gabinetti. Così, per pura curiosità: non aveva paura, lui.
Era solo la vescica, e i due si ritrovarono fianco a fianco davanti alla parete di ceramica. Il piccolo sarto, che tremava dalla testa ai piedi, non aveva alcuna possibilità di fuggire.
Dopo un attimo di esitazione, il signor Labbé gli disse sottovoce, guardando dritto davanti a sé:
«Calma, Kachoudas».
Erano soli. Forse il sarto s'immaginava che il suo vicino volesse strangolare anche lui... Ma il signor Labbé avrebbe potuto assicurargli, senza mentire, di non avere con sé lo strumento di cui generalmente si serviva.
Già: a nessuno, in effetti, era venuto in mente di fare un elenco degli abitanti della Rochelle che suonavano il violoncello. Non ce ne dovevano essere poi molti.
Quanto a lui, probabilmente nessuno più si ricordava che era stato un musicista. Da almeno vent'anni non toccava il suo strumento, ormai confinato in soffitta. Per andare lassù bisognava uscire di casa, addentrarsi nel corridoio e prendere la scala che portava al secondo piano. E lui aveva fatto appunto così, perché non era tanto imprudente da acquistare una corda di violoncello dal liutaio della rue du Palais. Soprattutto perché quello era l'unico negozio del genere, in città. Ed erano quindici anni che il cappellaio non si muoveva dalla Rochelle, neanche per andare a Rochefort, quindici anni in cui neppure una volta aveva dormito in un letto diverso dal suo.
Anche a questo nessuno aveva pensato. Gli altri ogni tanto mancavano all'appuntamento del pomeriggio. André Laude andava a Parigi per la sessione del Senato e passava le vacanze in Dordogne, in un castelletto di campagna che la moglie gli aveva portato in dote. Chantreau, perfino lui, andava ogni anno a Vichy, per la cura delle acque. La famiglia di Julien Lambert aveva una casetta a Fourras, dove tutti insieme passavano due mesi all'anno, e ogni tanto l'assicuratore andava anche a Bordeaux o a Parigi per affari.
La maggior parte di loro possedeva un'automobile, o prendeva il treno. L'estate precedente, Arnould, l'armatore, aveva fatto una crociera alle Spitzbergen. C'erano giorni in cui non si riusciva a trovare il quarto per la partita e bisognava chiedere rinforzi al tavolo dei quarantenni.
Solo il cappellaio c'era sempre, ed erano così abituati a vederlo che la cosa non sembrava più tanto insolita. Da quanto tempo non vedeva una vera mucca, a parte quelle che passavano per andare al macello?
All'inizio lo compiangevano; soprattutto compiangevano Mathilde.
«Come fa a sopportare una cosa simile?».
«Bè, la sopporta...».
E perfino Kachoudas... Sì, Kachoudas era andato a Parigi e a Elbenf! Kachoudas, certe domeniche d'estate, portava la famiglia al mare, non molto lontano, d'accordo, a Chatelaillon, e in quei giorni la strada era vuota come un tavolo da biliardo, si sentiva solo il pigolio dei passeri.
Il signor Labbé era tornato al suo posto per primo. Sapeva che l'altro lo avrebbe seguito.
«I tre cuori?».
«Ne ho fatti cinque».
«Hai sbagliato l'attacco. Tocca a me dare le carte?».
Erano le sei, e il gruppo dei contadini si era assottigliato.
Rimanevano solo quelli che avevano un'automobile o un camioncino, mentre i carretti, avviatisi da tempo, procedevano a passo d'uomo lungo le strade Immerse nella nebbia che ricominciava ad addensarsi. Ed era già così fitta, anche in città, che ogni qualvolta si apriva la porta entrava nella sala come un fumo freddo, più bianco del fumo delle pipe e dei sigari.
Chi avrebbe mai creduto fatta eccezione per i giocatori di quel tavolo, che il signor Labbé era stato a suo tempo un aviatore?
Eppure lo era stato, durante la guerra del '14. Aveva abbattuto degli aerei nemici come giocasse al tirassegno, e si era guadagnato parecchie citazioni al merito. Aveva persino fondato un club aeronautico alla Rochelle e ne era stato per un certo periodo il presidente. E, prima ancora, aveva fatto il servizio militare nei dragoni.
«Contro i due fiori».
«Surcontro».
Non sbagliava una mossa, e perfino Julien Lambert, che pure era terribilmente pignolo, non aveva niente da rimproverargli. Le sue dichiarazioni erano esatte, gli impasse quasi sempre giusti.
Non sarebbe stato più semplice dare direttamente i ventimila franchi a Kachoudas? Poteva permetterselo, d'altronde, visto che a soldi stava bene. Se lasciava un po’ decadere la cappelleria, lo faceva di proposito. Avrebbe potuto traslocare, dal momento che il centro commerciale si era spostato verso la rue du Palais, con i grandi magazzini, come il Prisunic, sfavillanti di luci e di suoni.
Anche in rue du Minage non gli sarebbe costato poi tanto illuminare di più la vetrina, rimodernare il negozio, rinfrescare pareti e scaffali.
Ma a che pro? Gli amici si facevano fare raramente un cappello da lui, preferivano comprarli a Bordeaux o a Parigi. Lui si limitava a rimetterli in forma, nel retrobottega, aprendo di tanto in tanto l'armadio per tirare la cordicella.
«La signora la chiama» diceva subito Valentin, come fosse stato il solo a sentir battere di sopra. Aggrottò le sopracciglia: aveva udito Kachoudas ordinare a Gabriel con voce esitante:
«Un cognac».
Il sarto aveva dunque deciso di ubriacarsi, e distoglieva lo sguardo per evitare quello del cappellaio.
Chissà se di lì a poco ce l'avrebbe fatta ad arrampicarsi sul suo tavolo da lavoro e prendere in mano un taglio di stoffa che puzzava d'unto... Insomma, quel poveraccio aveva il suo tavolo, la lampadina attaccata a un filo di ferro, il gessetto che penzolava. E aveva il suo odore, quell'odore che portava ovunque con sé e dava fastidio solo agli altri, perché lui probabilmente lo inspirava con una sorta di voluttà. E la moglie, sempre trasandata, con quella voce stridula che era costretto a sentire tutto il giorno attraverso la porta semiaperta della cucina, e le bambine, e il maschietto arrivato buon ultimo dopo quattro femmine, con la maggiore che doveva già avere qualche innamorato.
Un giorno o l'altro, la signora Kachoudas sarebbe stata di nuovo incinta. Era già strano che per tre anni l'avesse scampata.
A meno che, dentro, non fosse irrimediabilmente malandata.
Una volta fuori dal caffè, il signor Labbé avrebbe potuto abbordare il sarto, calmarlo, rassicurarlo, chiedergli di aspettare un momento e andare a prendergli i ventimila franchi.
Nel secrétaire della camera da letto c'era un grosso portafoglio che conteneva molto più di quella somma in contanti. Era una vecchia idea di Mathilde, che non si fidava di niente e di nessuno, neppure delle banche.
«Gabriel!».
«Sissignore... Il solito?».
«Un cognac con un po’ d'acqua».
Gli era venuta voglia di berne uno anche lui, come Kachoudas, ma non si sarebbe certo ubriacato; del resto, gli era successo raramente in vita sua, solo qualche volta da studente o durante la guerra, prima di un raid.
«Taglio e gioco fiori vincente».
Accanto a lui, Chantreau buttò giù un'altra pillola, soffiandogli in faccia una zaffata di alito cattivo:
«Tua moglie?».
«Sempre uguale».
«Non le sono venute le piaghe?».
Fece segno di no con la testa.
«É fortunata».
Da dieci anni nessun medico aveva più messo piede in casa.
All'inizio della paralisi, Mathilde voleva consultarli tutti, e ogni settimana ne arrivava uno nuovo. Avevano fatto venire degli specialisti da Bordeaux e da Parigi, e lei si era sottoposta a ogni tipo di terapia. Poi era stata la volta dei preti, delle suore, e per due anni di seguito si era sobbarcata il viaggio a Lourdes.
Complessivamente, quei tentativi erano durati cinque anni, con alti e bassi, crisi di misticismo, periodi di speranza alternati a periodi di rassegnazione.
«Giurami che se me ne vado non ti risposerai».
E il giorno dopo gli prendeva la mano con aria protettiva:
«Ascolta, Léon. Quando me ne sarò andata non dovrai restare solo. Troverai certo una brava ragazza, la sposerai, e magari ti darà dei figli. E le regalerai i miei gioielli. Non dire di no!
Ci tengo».
Per otto giorni leggeva con accanimento dalla mattina alla sera, e la settimana dopo se ne stava ore e ore a fissare le tende con aria truce.
Aveva mandato a chiamare un guaritore di Charron e per quasi un mese si era fidata ciecamente di lui. Con cinque infermiere era arrivata ai ferri corti; l'ultima, poi, si era sentita investire da una valanga di improperi.
Un bel giorno aveva deciso che non voleva più vedere né dottori né preti, e poco dopo aveva dato ordine a Delphine, la domestica di allora, di non mettere più piede in camera sua. 
Chantreau, che non aveva moglie, passava le sue giornate a bere. Julien Lambert, che ne aveva una, una cavallona bruna - e aveva anche dei figli, ammazzava il tempo giocando a carte.
Quanto ad Arnould, quello delle sardine, che aveva divorziato una prima volta e si era risposato con una donna di quindici anni più giovane, andava al bordello due volte alla settimana; gli era persino capitato di addormentarsi là dopo aver bevuto troppo.
Fu Caillé a bloccare il commissario che passava vicino al loro tavolo:
«E l'inchiesta, Pigeac?».
«Procede, procede...» rispose l'altro con fare enigmatico.
(Imbecille! Un emerito imbecille!).
«Ha avuto la copia della lettera che abbiamo ricevuto con la posta del pomeriggio?».
«Sì, l'ho letta».
«Che ne pensa?».
«Che tra poco lo prenderemo».
«Sta seguendo una pista?».
Il signor Labbé gettò un'occhiata a Kachoudas: era così teso che faceva pena a vederlo.
«Se lunedì combina qualcosa, sarà la sua ultima impresa. Ma è tutto un bluff, mi creda».
«Jeantet la pensa diversamente».
«Ah, allora... Se lo dice il signor Jeantet...» sghignazzò il commissario.
«Secondo lui, non è un tipo che racconta storie».
«Davvero?».
«Questa "necessità" di cui parla è inquietante... Capisce quello che voglio dire? Come ha scritto molto puntualmente Jeantet, si ha l'impressione che le vittime non siano scelte a caso».
«Mi congratulo con il suo cronista».
E il commissario mozzò con i denti la punta di un sigaro sforzandosi di sorridere. «Perché sette, e perché proprio lunedì?».
«Devo lasciarvi, signori. Scusatemi».
Uscito il commissario, Caillé borbottò fra i denti:
«É seccato. So bene che Jeantet è solo uno sbarbatello. L'ho preso perché mi faceva pena: sua madre è vedova e va a servizio.
Ma scommetto che se c'è qualcuno in grado di scoprire l'assassino questo qualcuno sarà lui».
«Se parlassimo d'altro?» propose Julien Lambert. «Tocca a te dare le carte».
Erano le sei e mezzo, e il signor Labbé domandò:
«Il rubber è finito? Se non vi dispiace, cedo il mio posto».
Con lui, a differenza che con altri, non insistevano. Per via di Mathilde, il signor Labbé godeva di una considerazione speciale. Avevano un modo particolare di salutarlo, di stringergli la mano. Era diventata un'abitudine. Quando se n'era andato, c'era sempre qualcuno che sussurrava:
«Poveraccio!».
Così, a fior di labbra. Come avevano fatto le condoglianze a Julien Lambert quando la sorella era stata strangolata.
C'era stato persino qualcuno - il dottore, una sera che aveva bevuto più del solito - che aveva borbottato fra i denti:
«A quella ci scommetto che le è dispiaciuto di non essere stata violentata».
«A domani, signori».
«Ma è domenica...».
Già. La domenica non si riunivano.
«A lunedì, allora».
Il giorno dell'ultima vittima! Dopodiché, tutto sarebbe finito.
Se ne sarebbe parlato ancora per un po', poi tutti avrebbero pensato ad altro, e le vecchie sarebbero entrate a poco a poco nella leggenda.
Era quasi un peccato. Guardò il piccolo sarto e questi, come obbedendo a un ordine, si diresse verso l'attaccapanni dov'era appeso il suo cappotto. Non l'impermeabile del giorno prima. Non aveva osato metterlo, quello. Non l'avrebbe messo mai più. Forse lo aveva fatto sparire.
Il signor Labbé attraversò con calma la sala e incontrò lo sguardo della signorina Berthe. Era seduta vicino alla vetrata, al tavolo che Jeantet occupava il giorno prima. Ci veniva spesso, alle Colonnes, due o tre volte la settimana. Si sentiva subito il suo profumo. Vestiva con eleganza, sempre in bianco e nero, come fosse in lutto, e questo le dava un che di eccitante. 
Beveva con garbo il suo porto, sola soletta. Quando uno degli uomini che conosceva la guardava, abbozzava un sorriso pieno di discrezione, ma a nessuno di loro rivolgeva mai la parola per prima.
Al signor Labbé sarebbe bastato strizzarle l'occhio e avviarsi lentamente verso la rue Gargoulleau, dove lei aveva un appartamentino molto accogliente.
Un bel tiro da giocare a Kachoudas! Che cosa avrebbe pensato, il sarto? Che intendeva strangolare la signorina Berthe, benché avesse solo trentacinque anni? Louise lo stava aspettando. Il signor Labbé si metteva puntualmente a tavola alle sette. In rue Gargoulleau ci sarebbe andato la settimana seguente, quando tutto fosse finito, quasi a concedersi una piccola ricompensa.
Vieni, Kachoudas! Seguimi, brav'uomo! Niente vecchie, oggi, e nemmeno giovani. Si torna a casa.
Alle sue spalle, i passi del piccolo sarto erano incerti. A un tratto, mentre camminavano in rue du Minage, sembrò che volesse parlargli, perché si mise quasi a correre, finché arrivò a pochi metri dal signor Labbé, che nella nebbia assomigliava a un gigantesco fantasma.
In fondo, ebbero paura tutti e due, e il signor Labbé, istintivamente, affrettò il passo. Pensava:
«E se fosse armato? Se mi uccidesse?».
Kachoudas era abbastanza sovreccitato per fare una cosa simile.
Invece, il piccolo sarto si fermò, lasciò aumentare la distanza che li separava e riprese a camminare tentoni nel buio.
Alla fine si ritrovarono immobili, ciascuno davanti alla propria casa: tirarono fuori di tasca la chiave e, nel silenzio della strada immersa nella nebbia, si udì la voce calma del signor Labbé:
«Buonanotte, Kachoudas».
E aspettò, con la chiave infilata nella toppa e una punta d'angoscia. Passarono alcuni secondi, poi una voce impastata balbettò a fatica:
«Buonanotte, signor Labbé».
Vide una striscia di luce sotto la porta, sentì dei passi strascicati per le scale e capì che era domenica. Quel giorno si alzava un po’ più tardi; Louise, invece, riusciva a saltar giù dal letto ancor prima che si sentisse fischiare il primo treno.
Con lo sguardo trasognato, scendeva in cucina, accendeva il fuoco e se ne stava là in piedi, mezza addormentata, aspettando che si scaldasse l'acqua.
La prima domenica che la ragazza era da loro, lui era sceso, incuriosito. Aveva trovato la porta a vetri della cucina oscurata da una tovaglia tesa e fissata con delle puntine.
«Chi è?» aveva domandato lei con voce seccata.
«Sono io».
«Ha bisogno di qualcosa? Non vede che mi sto lavando?».
Nel mastello del bucato, probabilmente. Come a casa sua, a Charron, e come usavano fare i Kachoudas. E per tutta la mattina la cucina odorava di saponetta.
Il signor Labbé non poteva permetterle di servirsi del bagno perché, per accedervi, bisognava attraversare la camera da letto.
Così, le aveva comprato una tinozza di zinco che la domenica lei riempiva con delle brocche di acqua calda portate su faticosamente a una a una. Se durante la settimana le capitava di non sciacquarsi neanche la faccia, quel giorno, in compenso, se ne stava un'ora buona seduta nella sua tinozza a ripulirsi dappertutto.
Il cappellaio trovava la cosa un po’ ripugnante. Non aveva mai sopportato l'odore degli altri, l'intimità degli altri, e gli era toccato vivere per quindici anni in quella
camera con una donna invalida che non poteva accudire a se stessa e s'infuriava non appena qualcuno accennava ad aprire la finestra.
Forse non era colpa sua, anzi era certo per via della salute cagionevole... Fatto sta che negli ultimi tempi Mathilde era decisamente sporca, al punto che a volte sembrava farlo apposta, come per sfida. Per esempio, gli domandava con un lampo crudele negli occhi:
«Non ti sembra che io abbia un cattivo odore?».
Si accovacciò davanti al caminetto per accendere il fuoco. Ci riusciva sempre al primo colpo: i ceppi facevano subito una bella fiammata. Il freddo era più pungente che nei giorni precedenti, ed era un freddo diverso. Scostando leggermente l'avvolgibile, vide il cielo notturno molto chiaro, glaciale, e a contatto col vetro gli si gelò la punta delle dita.
Dunque, la pioggia era finita. Tutti se ne sarebbero rallegrati. Non lui. Era successo con un giorno di anticipo, e gli sembrò un tradimento del cielo nei suoi confronti, una sorta di scacco personale. Gli sarebbe piaciuto completare l'opera nella stessa atmosfera. La pioggia nelle strade buie, con l'alone intorno ai lampioni e i riflessi sul selciato, non solo gli aveva sempre procurato una certa eccitazione, ma facilitava i suoi movimenti. Nelle strade c'era meno gente, e i passanti camminavano rasente i muri delle case, preoccupati soltanto di evitare l'acqua che cadeva dal cielo e il fango della strada.
Dai Kachoudas, nessuno si era ancora alzato. Le luci erano spente. Il piccolo sarto dormiva vicino a quella brava donna di sua moglie; dopo le abbondanti libagioni del giorno prima, doveva essersi agitato tutta la notte russando, forse parlando a voce alta...
Quando era rientrato, lei non gli aveva detto niente. Eppure, appena messo piede in casa, Kachoudas parve essere ancora più ubriaco, probabilmente a causa del passaggio dal freddo al caldo.
Era salito su per la scala a chiocciola (uguale a quella che c'era in casa del signor Labbé) dimenticando di chiudere il negozio e di spegnere le luci - cosa che faceva sempre personalmente -, e arrivato in laboratorio si era lasciato cadere su una sedia, con la testa su un braccio ripiegato e l'altro braccio abbandonato sulla spalliera.
Forse piangeva. O forse si sentiva male... Il piccolino, che aveva tre anni e mezzo o quattro, aveva preso a gironzolargli intorno, poi erano arrivate le due bambine, e finalmente la signora Kachoudas, sbucata dalla cucina con il ferro da stiro in mano. Si era subito resa conto della situazione e, senza aprir bocca, era sparita nell'altra stanza per riemergerne pochi minuti dopo con una scodella di caffè forte.
«Bevi, Kachoudas».
Lo chiamava Kachoudas. Nessuno chiamava il sarto con il nome di battesimo. Anche sull'insegna c'era solo il suo cognome, che in realtà doveva essere un nome di tribù molto diffuso in centinaia di villaggi del Medio Oriente.
Alla fine Kachoudas si era deciso ad alzare la faccia ed era chiaro, anche guardandolo a distanza, che si vergognava. Stava domandando qualcosa alla moglie, forse se i bambini lo avevano visto in quello stato... Lei lo aveva aiutato a bere il caffè, ma, dopo averne buttato giù solo metà, il sarto aveva dovuto precipitarsi verso lo stanzino in fondo.
Il signor Labbé non lo aveva più visto per tutta la sera. Era stata la signora Kachoudas a scendere per mettere gli scuri e sprangare la porta. Poi aveva spento la luce nel laboratorio e continuato a trafficare in cucina mentre la famiglia dormiva.
Era domenica, e quasi certamente sarebbe spuntato il sole. Il signor Labbé compiva i gesti abituali: rifaceva il letto, cambiava le lenzuola, portava quelle sporche sul pianerottolo insieme agli asciugamani usati durante la settimana, faceva scorrere l'acqua nella vasca e non dimenticava, di tanto in tanto, di parlare, di dire qualche parola così, a caso, perché tutto fosse credibile.
Col passare degli anni aveva finito per dare ai suoi movimenti una cadenza quasi da balletto. Gli veniva spontaneo. Non aveva più bisogno di pensarci, tanto è vero che, quando per una circostanza fortuita il ritmo cambiava, prima di rimettersi in moto restava per un po’ immobile, disorientato, come un meccanismo guasto. Mentre la vasca si riempiva, ad esempio, metteva i vestiti nell'armadio, la giacca su una gruccia, i pantaloni ben tesi con la piega giusta; poi preparava ai piedi del letto i calzini, la camicia, il colletto e la cravatta. Ogni cosa andava fatta al momento giusto, e raramente gli capitava d'invertire l'ordine dei suoi gesti. Che erano, se ci si dava la pena di contarli, centinaia, o addirittura migliaia, e messi insieme finivano per riempire tutta la giornata. Lui li eseguiva con una certa soddisfazione, specie la domenica, perché sapeva che dopo i riti del mattino sarebbe rimasto solo in casa, a godersi una lunga giornata di libertà.
Prima di scendere, e per portarsi un po’ avanti, aveva già spinto la poltrona di Mathilde davanti alla finestra, con la testa di legno nell'angolazione giusta, e aveva alzato l'avvolgibile benché fosse ancora buio.
Trovò Louise vicino alla stufa della cucina, con una scodella di caffellatte in mano, vestita di tutto punto e pronta a uscire: indossava l'abito e il cappotto della domenica e aveva il cappello in testa.
«In dispensa c'è tutto quel che serve» annunciò con quella sua voce incolore che era come la negazione della gioia di vivere.
Una stupida. Una zoticona. Meglio non farci caso. Ogni domenica prendeva la prima corriera per Charron e passava la giornata laggiù, con la famiglia e le amiche.
Aveva un modo di guardare il signor Labbé al quale lui non riusciva ad abituarsi. Lo fissava come se non lo vedesse. O magari lo vedeva diverso da come lo vedevano gli altri, e a volte questo lo turbava. Che idea si era fatta di lui? Trovava forse strana l'atmosfera della casa? Aveva qualche pensiero riposto? Ma poi, era capace di pensare?
«La signora sta bene?».
«Come al solito. Grazie, Louise».
Per mettersi a tavola aspettò che se ne andasse, perché la sua sola presenza bastava a guastargli il piacere di mangiare. Poi andò a chiudere la porta del negozio e stette un attimo ad ascoltare il passo della ragazza che si allontanava sotto i portici, più sonoro che altrove per via dell'eco, e a quel punto le campane presero a suonare.
Aveva sempre avuto una predilezione per le domeniche, anche quando c'era Mathilde e lui era bloccato lassù, con la sola prospettiva di ore e ore di noia opprimente. Forse aveva finito per abituarsi alla noia, per trovarla addirittura piacevole...
Mentre mangiava, si mise a leggere il resoconto dettagliato del processo a un piromane che nel 1882, nel Giura, aveva appassionato l'opinione pubblica fin quasi a far scoppiare una rivoluzione. Avevano persino mandato l'esercito. Poco importava, del resto, quel che leggeva: all'indomani non se ne ricordava nemmeno più. Comprava i libri in una sala d'aste a due isolati di distanza dal suo negozio, e li sceglieva a caso, ora romanzi, ora racconti storici. Ed erano sempre libri dalle pagine ingiallite che esalavano un odore particolare e in mezzo alle quali gli capitava di trovare un fiore secco o una mosca spiaccicata. Una volta ci aveva trovato una lettera dall'inchiostro sbiadito che doveva esser servita da segnalibro, ed era raro che sulla copertina del volume non ci fosse scritto un nome o non comparisse il timbro viola di una biblioteca pubblica.
Quella domenica, si era ripromesso di eseguire un lavoro importante. Ci pensava da tempo. Ma prima andò a sciacquare la tazza e il piatto, scosse la tovaglia e scopò via dal pavimento le briciole di pane. Andò anche a dare un'occhiata nella dispensa per vedere quello che Louise gli aveva preparato per il pranzo e ne fu soddisfatto, perché avrebbe dovuto solo scaldare a bagnomaria lo spezzatino del giorno precedente.
Quando salì al primo piano, attraversando il negozio dove di domenica non si preoccupava di accendere la stufa, i Kachoudas si erano già alzati. Il cielo era limpido, di un azzurro verdastro; dei passi risuonavano per la strada, mentre un festoso scampanio si diffondeva in tutta la città.
Il piccolo sarto, che non si era ancora lavato, indossava dei pantaloni senza bretelle sopra la camicia da notte. Cominciavano sempre col lavare i bambini, tanto per mandarli fuori dai piedi.
Ma, una volta pronti; bisognava impedir loro di sporcare i vestiti della festa, e questo era più difficile.
Esther, la maggiore, quella che lavorava al Prisunic, andava su e giù per la casa in sottoveste, e il signor Labbé poteva vederle l'inizio del seno. Era ancora molto magra, soprattutto di fianchi, di seno invece era tutt'altro che scarsa, come molte ragazze della sua età. Chissà, forse la sera, negli angoli bui, sotto i portoni, si lasciava palpeggiare da qualche innamorato...
Probabile. Il pensiero che ci fosse chi se la spassava con la figlia di Kachoudas, con carne Kachoudas, dava molto fastidio al signor Labbé, ma non avrebbe saputo dirne la ragione.
Il piccolo sarto, che aveva una gran brutta cera, non sapeva dove mettersi. Era evidente che non stava bene. La coscienza doveva tormentarlo quanto lo stomaco. Come al solito, approfittava della domenica per mettere in ordine il laboratorio, ma lo faceva svogliatamente, pensando ad altro, e più di una volta gli capitò di guardare verso la casa di fronte, dove il cappellaio se ne stava nascosto dietro le tende.
Perché preoccuparsi di lui? Non avrebbe sicuramente parlato.
Moriva dalla paura. Un uomo così non poteva certo andare alla polizia e dichiarare, con quell'accento che non aveva mai perso:
«Lo strangolatore che cercate è il mio vicino, il cappellaio».
«Davvero?».
«Ho visto un pezzettino di carta sul risvolto dei suoi pantaloni: due o tre lettere ritagliate da un giornale».
«Interessante, molto interessante!».
«L'ho seguito, e ha strangolato la signorina Irène Mollard sotto i miei occhi».
«Guarda, guarda...».
«E poi mi ha detto, con il tono più naturale del mondo: "Al posto suo non lo farei!"».
Certo che sarebbe stato meglio non farlo. Perché gli avrebbero subito chiesto se per caso non gli capitasse talvolta di indossare un impermeabile beige. E perché in tutti i paesi del mondo i Kachoudas sono sempre i capri espiatori ideali.
Suvvia! Era tempo di mettersi all'opera, perché con le lettere da ritagliare, magari a una a una, da cercare leggendosi tutti gli articoli e da incollare poi bene allineate, la faccenda era lunga, anche se aveva ormai acquisito una certa pratica.
Il signor Labbé non faceva una minuta. Dalla finestra entrava un raggio di sole che proiettava sulla parete di fronte gli arzigogoli floreali della tenda di pizzo. Inoltre, due minuscoli cerchi di luce, che si agitavano come bestioline vive, sembravano giocare a rimpiattino sul mogano del secrétaire.
In rue du Minage le porte si aprivano e si chiudevano, e le famiglie si dirigevano verso la chiesa di Saint-Sauveur, fra il canale e il porto. Si sentivano le sirene dei battelli. Anche se era domenica, le barche dei pescatori, approfittando del diradarsi della nebbia, uscivano in mare, e probabilmente erano già tutte in fila indiana nel canale.
La città splendeva radiosa, immersa nella luce giallo oro del sole; il porto era di un azzurro compatto: di lì a poco anche i Kachoudas sarebbero usciti, i bambini davanti, con i vestitini della festa, poi Kachoudas e la moglie, sempre un po’ goffi la domenica, molto meno disinvolti che negli altri giorni.
Dopo la messa, sarebbero passati dalla pasticceria di rue des Merciers, e il vassoietto dei dolci lo avrebbe poi portato il sarto, tenendolo per il sottile spago rosso.
«Brevi appunti sulle vittime dello strangolatore».
Scrisse questa parola di proposito, e non senza una certa ironia, perché era quella che usavano tutti. Poco importava che lo si capisse o meno.
Prima di mettersi all'opera, salì su una sedia, passò la mano sopra l'armadio e afferrò un oggetto, una fotografia stampata su cartone e racchiusa in una piccola cornice di legno nero. Fino a due mesi prima era appesa alla parete vicino al letto di Mathilde, dove si poteva ancora vedere, sulla tappezzeria, un rettangolo più chiaro.
Era la fotografia scattata a una classe del collegio dell'Immacolata Concezione, il giorno della distribuzione dei premi.
C'erano quindici ragazze: il signor Labbé le aveva contate diverse volte ed era in grado di dare un nome a ogni volto. Erano fra i sedici e i diciotto anni, avevano le
trecce e indossavano tutte la stessa uniforme blu scuro con la gonna a pieghe; intorno al collo, portavano un nastro con una medaglia. Al centro, una suora pallida e magra, dall'aspetto ascetico, l'immagine stessa della religiosità, che teneva le mani infilate nelle maniche. A sentire Mathilde era una vera carogna, nonostante il sorriso angelico.
Le ragazze della seconda fila stavano in piedi su una specie di pedana ricoperta da un tappeto, e alcune piante ornamentali inquadravano il gruppo.
Con la fotografia davanti agli occhi, appoggiata al calamaio di ottone ormai fuori uso, dato che lui aveva una stilografica, il signor Labbé si rimise al lavoro passandosi ogni tanto la lingua sulle labbra.
«Jacqueline Delobel, sessant'anni, vedova di un capitano di fanteria».
Era la terza da sinistra, una brunetta dallo sguardo malizioso e dal naso a punta, che sembrava trattenersi a stento dal ridere guardando la testa del fotografo sepolta sotto il panno nero.
«Di buona famiglia. Figlia del notaio Massard, autore di diverse opere di storia locale. Ha seguito il marito, di guarnigione in varie città, tra cui Besanon. Due figli. Una femmina, sposata con un importatore di Marsiglia, e un maschio, tenente di cavalleria in servizio presso gli squadroni spahi.
Viveva sola in un appartamento di rue des Merciers, sopra un negozio di cordami e articoli di vimini. In cattivi rapporti con la figlia. Pensione modesta. Non accettava denaro dal figlio e sbarcava il lunario eseguendo piccoli lavori di ricamo».
Dopo un attimo di riflessione, aggiunse:
«La figlia non è venuta al funerale. Il figlio, di guarnigione in Siria, non ha potuto essere avvertito in tempo».
E la prima era sistemata. Non gli aveva creato alcuna difficoltà. Era fragile, malaticcia. S'imponeva molte privazioni per far quadrare il bilancio. La sera, trotterellava per le strade per andare a consegnare il lavoro; ed è difficile, alla Rochelle, passare da una strada commerciale all'altra senza attraversare vicoli bui.
Meno male che aveva cominciato da lei! Con una donna robusta come Léonide Proux avrebbe rischiato di far cilecca. Non aveva ancora pensato, infatti, di fissare due pezzettini di legno alle estremità della corda di violoncello (sistema usato ancora oggi da certi negozianti per dotare i pacchetti di una specie di manico).
Nonostante la debole resistenza della signora Delobel, o meglio la totale rinuncia a qualsiasi tipo di resistenza, si era ferito le dita a sangue.
E aveva rischiato di commettere un altro errore. Il fatto si era compiuto non lontano dal canale, dietro la chiesa di Saint-Sauveur, e per un attimo lui aveva pensato di buttare il corpo nell'acqua. La marea stava calando, e c'era una forte corrente.
Avrebbero ritrovato la signora Delobel solo molti giorni o molte settimane più tardi. Forse mai...
E questo avrebbe cambiato tutto perché, in seguito, non avrebbe potuto fare lo stesso con i corpi delle altre. Non ci sarebbe stata, per così dire, simmetria... O, per essere più esatti, la cosa non avrebbe avuto lo stesso stile.
Dopo, era andato al Café des Colonnes e aveva fatto una partita bevendo il solito aperitivo.
 «Signora Cujas (Rosalie), libraia in rue des Merciers, moglie di René Cujas, impiegato al Comune».
Un'altra ragazza di buona famiglia, come annotò diligentemente.
Avrebbe potuto limitarsi a scrivere che era stata educata al collegio dell'Immacolata Concezione: sarebbe bastato, ma poteva essere pericoloso. Strano, del resto, che nessuno avesse notato che le vecchie strangolate nell'arco di poche settimane erano state tutte allieve dello stesso collegio.
Solo il giovane Jeantet, che era intelligente, aveva sottolineato il fatto che avessero tutte pressappoco la stessa età e un qualcosa che le accomunava.
Sulla fotografia, la piccola Alain (era il suo cognome da ragazza) pareva la più bella, di una bellezza forse un po'' fredda.
«Il padre» annotò il signor Labbé «è stato vicesindaco della Rochelle per vent'anni».
Erano ricchi, e lei avrebbe potuto aspirare a qualche buon partito. Come mai si era sposata solo a ventotto anni? Perché aveva aspettato tanto?
«Era troppo esigente» diceva Mathilde in tono acido. «Sognava il grande amore».
E aggiungeva, ma senza amarezza:
«Come se esistesse!».
A ventotto anni aveva sposato Cujas, perché a quel punto il padre era morto, la successione ereditaria appariva piuttosto ingarbugliata e i fratelli avevano fretta di sbarazzarsi di lei.
Cujas le aveva tentate tutte, prima di trovare quel posto in Comune. Non era bello, né particolarmente intelligente. Aveva una salute cagionevole, e insomma era la moglie che tirava avanti la baracca.
Il signor Labbé conosceva bene la piccola libreria dove, quando non trovava niente di suo gusto alla sala d'aste, andava a frugare nelle due casse di «occasioni» che stavano contro la parete. Non era una libreria importante; si vendevano soprattutto cartoline, penne stilografiche, gomme e matite. Ma c'era un retrobottega, noto solo agli habitué, dove il cappellaio sapeva che certi suoi amici, come ad esempio Arnould, quello delle sardine, si rifornivano di libri erotici.
Sapeva anche di una porticina, in fondo, che dava su un vicolo cieco.
Poiché la signora Cujas non aveva domestica e, chiuso il negozio, usciva solo con il marito per andare di tanto in tanto al cinema, per sorprenderla fuori, nell'oscurità, avrebbe dovuto aspettare per mesi e mesi.
Così, era entrato nel retrobottega. I due pezzetti di legno, alle estremità della corda di violoncello, si erano rivelati estremamente pratici. La signora Cujas si era difesa con più accanimento della signora Delobel; una volta fuori, il signor Labbé si era perfino domandato se avesse stretto abbastanza a lungo, e solo il giorno dopo, leggendo il giornale, aveva tirato un sospiro di sollievo.
Una volta, undici o dodici anni prima, mentre stavano evocando insieme i vari destini delle loro ex compagne di scuola, Mathilde aveva detto alla libraia:
«Non è allegra, la vita».
E la signora Cujas aveva risposto con calma:
«Perché dovrebbe esserlo?».
Proprio questo avrebbe voluto far capire, il signor Labbé, ma era difficile. Per ciascuna, cercava la formula giusta.
«Considerava la vita come una prova» finì per comporre con lettere ritagliate.
Non era per discolparsi. Non ne aveva bisogno. Era qualcosa di più importante, ma il compito che stava assolvendo senza mai perdersi d'animo era quasi impossibile, se ne rendeva conto. Una o due notti prima aveva fatto uno strano sogno, e forse era per via di quel sogno che ora stava accollandosi quella fatica. Si trovava in una sala che aveva tutta l'aria di una sala parrocchiale e in cui c'erano, seduti in fila, tutti i notabili della città. Lui stava su una predella, con uno schermo alle spalle e un lungo bastone in mano: teneva una conferenza servendosi di diapositive.
Sullo schermo appariva la fotografia scattata molti anni prima al collegio, e lui indicava le ragazze una dopo l'altra.
Aveva cominciato, in tono leggero, con l'eliminarne sbrigativamente alcune:
«Non parleremo di quelle che sono morte...».
Erano due. Una, con le efelidi e dei ricciolini intorno alle orecchie e all'inizio delle trecce, era morta di tisi a ventidue anni in un sanatorio svizzero. L'altra, con due occhi ardenti e già molto sviluppata fin da allora, aveva sposato un grosso armatore della città ed era morta di parto. Il figlio invece era vivo e faceva anche lui l'armatore, a Bordeaux.
Ne restavano tredici. Una di queste era vissuta in tutte le capitali d'Europa con il marito console, e risiedeva ora in Turchia. Di un'altra non si sapeva più niente: se n'era andata di casa a diciannove anni e tutti avevano gridato allo scandalo. La madre era morta di crepacuore. Il padre si era risposato.
Ne restavano undici. Il pubblico in sala lo ascoltava senza capire, e invano lui cercava di fargli cogliere il senso del suo ragionamento. Di tanto in tanto, quando batteva sulla predella con il bastone, qualcuno cambiava la lastra nel proiettore, e allora appariva una veduta panoramica della Rochelle, una veduta davvero straordinaria, perché si distinguevano tutte le case, i passanti, e perfino, come per miracolo, quelli che stavano dentro le case.
Ce n'era una, fra le signorine del collegio, che era diventata la moglie di un ministro, a Parigi, e la cui figlia aveva sposato un nobile austriaco. Si vedeva spesso la sua fotografia sui giornali; recentemente era stata ricoverata in clinica per un'operazione di cui Si sapeva poco.
I Kachoudas erano rientrati e stavano già spogliando i bambini per metter loro i vestiti di tutti i giorni. Dopo pranzo, avrebbero mangiato il Saint-Honoré insieme a una tazza di caffellatte. Anche il sarto si sarebbe cambiato d'abito per poi rimettersi al lavoro, appollaiato sul suo tavolo; a meno che approfittasse della domenica per aggiornare la contabilità, cosa che gli costava sempre un grosso sforzo.
Era il solo giorno della settimana in cui tutta la famiglia riunita stava nel laboratorio, tranne Esther, che le amiche sarebbero passate a prendere di lì a poco chiamandola da sotto con le mani a megafono:
«Oho!...».
La decima... Su questa non aveva le idee tanto chiare. Avrebbe dovuto prendere qualche appunto quando c'era ancora Mathilde, lei sapeva tutto per filo e per segno. Dunque... Ce n'era una che faceva l'attrice... Non a Parigi, ma in teatri di provincia.
Ancora due... Le indicava via via sulla foto con la punta della stilografica, come aveva fatto nel sogno con il lungo bastone.
Ecco quella che aveva avuto il vaiolo... Lavorava come première in una sartoria di Londra ed era venuta diverse volte alla Rochelle a trovare la madre che viveva ancora ed era una vecchina tutta rattrappita.
Dell'ultima di quelle che avevano lasciato la città il cappellaio sapeva soltanto che abitava a Lione.
Ne restavano sette, oltre a Mathilde, e il conto tornava, perché bisognava escludere la suora al centro del gruppo, madre Sainte-Joséphine, che era morta da un pezzo.
«Signorina AnneMarie Lange, merciaia in rue Saint-Yon».
I Kachoudas si erano messi a tavola. Dopo questa qui, sarebbe andato a mangiare anche lui. Gli restava tutto il pomeriggio per le altre.
Era una ragazzona che si rimpinzava di dolci e aveva la casa piena di gatti. Bionda e rosea, sempre vestita di chiaro, con una vocetta stridula dalle inflessioni cantilenanti.
«Di buona famiglia. Il padre...».
Il padre correva dietro alle giovani operaie, e questo gli aveva causato non pochi fastidi per via di certi scandali che si erano dovuti soffocare. A settantacinque anni, continuava ancora imperterrito, e la famiglia era costretta a tenerlo d'occhio e a pedinarlo nelle sue passeggiate; non gli lasciavano in tasca neanche uno spicciolo e avevano mandato via tutte le donne di servizio, ripiegando su dei domestici. Ora era morto. Una delle figlie era andata negli Stati Uniti, l'altra, AnneMarie, che non si era sposata, viveva nella sua merceria con un'ex insegnante dal piglio autoritario, e le malelingue sostenevano che quelle due facevano benissimo a meno degli uomini.
Era possibile. Per lei, comunque, la formula era molto semplice. Bastava leggere il giornale.
«L'autopsia ha rivelato la presenza di un fibroma e di un tumore, probabilmente destinato a degenerare in cancro».
Pioveva così forte, quel giorno, che lui aveva potuto assalire la signorina Lange in piena rue Gargoulleau, a pochi passi dall'Hotel de France. Era carica di pacchi e pacchetti che si erano sparpagliati sul marciapiede, oltre a una bottiglia di panna che era andata in mille pezzi.
Ora doveva andare a pranzo. Scese in cucina, scaldò lo spezzatino, ne gettò una parte nel gabinetto: non poteva mangiare sempre per due. La domenica, poi, non era costretto a portar su il vassoio, ed era una fatica in meno. Dopo, in genere, lavava i piatti.
«Lasci stare, li laverò io quando torno» aveva proposto Louise.
Certo, avrebbe potuto lasciar perdere, ma non gli andava di vedere le cose fuori posto, specialmente i piatti sporchi.
Inoltre, gli serviva per tenersi occupato. Faceva parte dei riti domenicali.
Tornò su, e si lavò bene le mani. Dai Kachoudas, i bambini giocavano sul pavimento. La signora Kachoudas stava rammendando dei calzini di lana e il sarto
cercava di fare un po’ di conti bagnando di tanto in tanto la punta della matita con la saliva e facendosi dare man forte dalla moglie:
«Sette più nove?».
Generalmente il signor Labbé faceva una piccola siesta in poltrona, una poltrona di velluto cremisi uguale a quella di Mathilde, ma quel giorno il compito che si era imposto lo aveva messo in uno stato di grande agitazione. Era quasi arrivato in porto. La sera dopo, se tutto fosse andato come doveva, avrebbe chiuso definitivamente la faccenda. Di qui la sua impazienza e, insieme, come il presentimento di un vuoto.
In seguito, avrebbe dovuto occuparsi solo di alcuni piccoli dettagli che per lui, ormai, non erano che routine.
Non aveva commesso errori, fino a quel momento, e non ne avrebbe commessi neanche in seguito, ne era certo. L'incidente occorsogli con il piccolo sarto era anch'esso privo di conseguenze, non gli faceva paura. Anzi, ne era quasi contento.
Forse prima si sentiva troppo solo...
Con Louise, lo aveva fatto quasi apposta a commettere certe imprudenze.
Adesso c'era qualcuno che sapeva, e andava bene così. Due giorni dopo, Kachoudas avrebbe letto il suo rapporto sull'«Echo des Charentes» e forse, chissà, avrebbe finalmente capito certe cose...
«Signora Geoffroy-Lambert, vedova del presidente della Cassa di Compensazione...».
Justine! La chiamavano tutti così, la sorella del suo amico Julien Lambert, l'assicuratore. Il signor Labbé era andato al suo funerale. E anche agli altri: erano tutte persone che conosceva.
Un'altra vedova. Ce n'erano tante, di vedove. É vero che Justine aveva sposato un uomo di vent'anni più vecchio, un personaggio importante, molto ricco, che possedeva, in rue Réaumur, il più bel palazzo della città, e ne aveva un altro a Parigi, dove viveva per la maggior parte dell'anno.
Era uno di quegli alti funzionari i cui compiti restano, per i comuni mortali, avvolti nel mistero. Comunque, era passato per l'ispettorato delle Finanze. Divenuto poi consigliere di Stato, aveva fama d'essere il più gran cornuto di Francia.
Di Justine si diceva (dopo la morte del marito, comunque) che avesse una straordinaria predilezione per i giovanotti. A casa sua si beveva forte, si ballava fino alle ore piccole e, a sessant'anni suonati, la signora non manifestava la minima intenzione di abbandonare il campo.
Aveva un autista che passava per essere il suo amante, ma per andare a far compere nei negozi di rue du Palais - dove, con la sua voce petulante trattava tutti dall'alto in basso - aveva da percorrere solo un piccolo tratto di strada, e lo percorreva a piedi. Per fortuna!
Era stata quella che gli aveva dato più filo da torcere. Teneva in mano l'ombrello, e quando si era avventato su di lei aveva corso il rischio di essere accecato da una stecca. Dapprima l'aveva afferrata per il mento bloccandola con la corda di violoncello, e lei si era dibattuta, sferrandogli dei calci, tanto che era stato sul punto di scappare senza portare a termine l'impresa.
Alla fine ce l'aveva fatta, ma era l'unica volta che aveva dovuto darsela a gambe, perché a meno di dieci metri di distanza si era aperta una porta e una voce d'uomo, che gli pareva ancora di sentirsi nelle orecchie, aveva detto molto garbatamente:
«Grazie, signora. Ne terrò conto, mi creda, e le posso assicurare che, se fosse dipeso da me, le sue richieste sarebbero state accolte da tempo».
Un agente immobiliare, probabilmente, o qualcosa del genere.
Justine non era ammalata. E neppure infelice, né rassegnata.
Non aveva nessuna voglia di finire all'altro mondo. E il cappellaio era un po’ riluttante a scrivere, per esempio: «Una perdita per la società?».
Non lo era neanche per la famiglia, che viveva nel terrore di un possibile scandalo, al punto che sua figlia, sposata con un uomo in vista, le proibiva di metter piede a Parigi.
Dopo aver riassunto il suo curriculum vitae, si limitò a mettere un bel punto interrogativo.
«Léonide Proux, sessantun anni, levatrice a Fétilly...».
Un tempo, i Proux possedevano decine di fattorie e due castelli, e Léonide si era ridotta a vivere a Fétilly, un sobborgo operaio vicino alla Centrale del gas, abitato da ferrovieri, piccoli impiegati e proletari.
Chissà se il padre, Luc Sabord, che aveva dilapidato i suoi averi in assurde speculazioni, era davvero pazzo, come alcuni sostenevano... E chissà se il marito, morto a quarantun anni, era proprio sifilitico... Ad ogni modo, una figlia minorata era morta in tenera età e il figlio non sembrava del tutto normale; tuttavia si era sposato e viveva senza far niente, mantenuto dai suoceri che coltivavano una piccola vigna in Dordogne.
Quand'era vivo, Proux passava per lo più la notte fuori casa.
Non di rado rientrava portandosi dietro qualche donna raccattata in giro, a volte nel quartiere delle caserme, e una sera aveva picchiato Léonide davanti a loro col pretesto che non gli andava di vederla piangere e che lei lo faceva apposta per avvelenargli la vita.
Léonide era finita all'ospedale e lì aveva imparato a fare la levatrice. I suoi capelli erano grigi, la carnagione di un color bianco gesso. Era calma, gelida, e abilissima nel suo mestiere, a quanto dicevano. Nessuno l'aveva mai vista ridere né sorridere, e aveva un modo di afferrare i neonati per i piedi che faceva venire i brividi alle puerpere.
La difficoltà stava nel far capire tutto questo, e il significato di tutto questo, in poche frasi, perché non poteva star lì all'infinito a ritagliare lettere dal giornale.
Non era vero che le avesse telefonato. Se l'era trovata fra le mani per caso, una volta che era andato a gironzolare nei pressi di casa sua per rendersi conto dei suoi movimenti. Aveva perfino esitato, quel giorno, a portare con sé la corda di violoncello.
La casa era molto piccola, con una lampada sopra la porta.
Léonide era uscita che lui era lì da pochi minuti, e teneva in mano la borsa dei ferri. L'aveva seguita fino alla Centrale del gas. C'era una macchina che passava: aveva aspettato che se ne fosse andata. Lei lo aveva riconosciuto, aveva avuto il tempo di
girare la testa, ma era troppo tardi. Non si era stupita, non aveva manifestato alcun timore. Il signor Labbé non arrivò a scrivere che per lei era stato un sollievo, ma era quasi vero.
Quanto a Irène Mollard, il giorno dopo aveva scritto al giornale quello che aveva da dire su di lei. Sia quando l'aveva vista in fotografia che all'uscita dall'ultima lezione di piano, gli aveva fatto pensare a un uccellino caduto dal nido. Un miracolo che fosse vissuta così a lungo!
Ne restava una sola, Armandine de Hautebois, ora Madre Sainte-Ursule, la quale, nelle foto scattate in occasione di altre premiazioni, compariva, in mezzo ad altre ragazze, nel ruolo svolto in precedenza da Madre Sainte-Joséphine.
In un certo senso, era passata dalla fotografia al convento.
Non si era data la pena di vivere, non ci aveva neanche provato.
Eppure era ricca, aveva fratelli e sorelle che avevano fatto strada nella società.
A questa Armandine de Hautebois avrebbe pensato l'indomani, perché usciva dal convento dell'Immacolata Concezione ogni secondo lunedì del mese per recarsi al Vescovado. E non sarebbe stata sola: le suore non escono mai da sole. Poiché il tratto di strada che doveva percorrere al buio era di soli cinquanta metri, il signor Labbé si era visto costretto ad architettare un piano alquanto complicato.
Kachoudas lo avrebbe seguito anche questa volta? In fondo, il cappellaio quasi lo sperava.
Se le cose fossero andate come prevedeva, alle dieci del mattino seguente tutta la faccenda si sarebbe conclusa e lui avrebbe tirato un sospiro di sollievo.
Non voleva pensare a Louise. Era una tentazione assurda. Non aveva alcun senso.
Se lo ripeté più volte mentre metteva dei ceppi nel caminetto e abbassava l'avvolgibile perché ormai si era fatto buio:
«Louise, proprio no!».
Andò giù a versarsi un bicchierino di cognac; lo teneva nella credenza della sala da pranzo. Si sedette a centellinarlo con calma dopo aver rimesso a posto la bottiglia per non cedere alla tentazione di un secondo bicchiere.
Fin dal mattino accaddero tanti piccoli fatti sgradevoli, irritanti. Valentin arrivò al lavoro con mezz'ora di ritardo, un panno di lana intorno al collo e gli occhi brucianti di febbre.
Il raffreddore aveva assunto proporzioni tali che il poveretto non stava neanche più lì a rimettersi in tasca il fazzoletto: era tutto un colare, pareva letteralmente liquefarsi, e aveva una voce così rauca che a malapena si capiva quello che diceva.
Il cappellaio avrebbe dovuto rimandarlo a casa. La madre del ragazzo lo considerava certo un negriero: farlo lavorare in quello stato!... Valentin stesso si aspettava che lui lo lasciasse andare. E il bello era che il signor Labbé lo commiserava sinceramente; vedeva benissimo che ogni tanto il povero ragazzo aveva dei capogiri.
«Ha preso un'aspirina, Valentin?».
«Sì, signore».
«Ha delle macchie bianche in gola?»
«No, signore. La mamma ha guardato anche stamattina. Ho la gola molto rossa, ma niente macchie».
Meglio così, perché il signor Labbé si ammalava facilmente di tonsillite, e non era proprio il momento giusto. Quel raffreddore di Valentin era tanto più assurdo in quanto non pioveva più e il cielo era limpido. É vero però che faceva molto freddo, e almeno fino alle nove del mattino il respiro dei passanti formava una nuvoletta di vapore.
Quando andò a prendere il giornale, comprò anche delle pastiglie al mentolo per Valentin, e nel corso della mattinata gli gridò un paio di volte dal fondo del retrobottega:
«Si riposi un po', e non stia lì, davanti alla vetrina. Si metta vicino alla stufa».
Dai vetri entravano degli spifferi gelidi.
Anche Louise gli dava qualche preoccupazione. Era rientrata la sera prima alle nove, come al solito, e da allora aveva quell'espressione che lui definiva «bovina». Le succedeva periodicamente, forse in concomitanza con certe funzioni fisiologiche... Lui però aveva notato che il fenomeno si verificava generalmente dopo le sue visite a Charron.
Qualcuno, laggiù, doveva montarle la testa, i genitori, un innamorato o un'amica. Il signor Labbé la pagava bene. Le aveva accordato senza discutere il salario che lei aveva chiesto.
Poteva mangiare tutto quello che voleva, e raramente lui le faceva qualche osservazione. Ciò nonostante, sembrava che sotto sotto covasse qualcosa, forse addirittura del rancore... Chi poteva indovinare quello che si agitava dietro la sua espressione caparbia?
Quell'umore lo si avvertiva anche solo da come camminava, da come maneggiava gli oggetti. 
Ma a lui, in fondo, cosa importava?
Per controbilanciare questi piccoli fastidi, aveva imbucato il suo rapporto nella cassetta della posta centrale e aveva poi trovato, sulla prima pagina del giornale, un riquadro in bella evidenza che diceva:
«Il sindaco della Rochelle, insignito della Legion d'onore, invita caldamente la cittadinanza a osservare la massima prudenza nella serata di lunedì 12 dicembre. Per una sorta di sfida, l'individuo che da più di un mese terrorizza la città e ha già fatto sei vittime ha preannunciato un nuovo crimine per quel giorno. Si invitano in particolare le signore a non uscire da sole dopo il tramonto e si raccomanda alle mamme di tenere in casa i bambini.
«L'amministrazione comunale ha istituito un apposito servizio per riaccompagnare al loro domicilio impiegate, commesse e operaie. Saranno altresì rafforzate le pattuglie di guardia».
Il signor Labbé lanciò un'occhiata alla casa di fronte: dai Kachoudas, niente da segnalare. Il piccolo sarto stava cucendo con grande impegno, senza quasi alzare la testa dal lavoro.
Che altro c'era? Ah, sì, un particolare: già dalle tre del pomeriggio, mentre il cielo si tingeva a poco a poco di rosa, era apparsa una grossa luna d'argento.
E per finire, quella sera Kachoudas non si comportò come al solito.
«Chiuderà lei, Valentin».
«Bene, signore».
Un'altra occhiata alla casa di fronte, dopodiché si avviò, con molta calma, cercando a bella posta di prendere tempo. Finalmente anche il sarto uscì di casa, ma solo quando il cappellaio aveva già percorso un centinaio di metri. Non aspettava così tanto, le altre sere.
Il signor Labbé entrò al Café des Colonnes, strinse la mano a Chantreau, a Caillé, a Laude e a Oscar, il padrone.
«Ho preso il suo posto, intanto che l'aspettavano» disse questi alzandosi.
«Oggi non posso giocare, non ho tempo».
«Solo una partita, Léon» insistette il dottore.
«Mathilde è raffreddata, e le ho promesso di rientrare presto».
Che cosa stava facendo Kachoudas? La porta del caffè non si apriva ancora. Le altre volte, il cappellaio lo aveva quasi alle calcagna. Questa novità cominciava a innervosirlo. Gabriel si offrì, come al solito, di prendergli il cappotto, ma lui non se lo tolse per via del pezzetto di tubo di piombo che pesava nella tasca.
«Mi fermo solo pochi minuti».
Al che, Laude se ne uscì con una battuta cretina:
«Si direbbe che anche tu abbia paura dello strangolatore! Se andiamo avanti così, tutta la città sarà in preda all'isteria».
Ma che stava combinando Kachoudas? Era proprio dietro di lui quando aveva svoltato in rue du Minage...
Buttò giù il solito aperitivo.
«Dai, solo un giro...» lo pregò di nuovo Chantreau. «Finché non troviamo il quarto...».
Ma non poteva accettare. Doveva andarsene, assolutamente. Il selciato era quasi bianco sotto la luna, che disegnava ombre nette, come ritagliate nella lamiera.
Era la prima volta che si sentiva così nervoso. Mentre si allontanava, ebbe l'impressione che parlassero di lui. Ma per dire cosa? Attraversò lo spiazzo della place d'Armes, imboccò la rue Réaumur e solo a quel punto sentì dei passi alle sue spalle, si voltò e intravide la sagoma del piccolo sarto.
Dunque, Kachoudas aveva deliberatamente cambiato tattica. Non era entrato nel locale. Dopo aver letto, come tutti, che l'assassino avrebbe commesso il suo settimo delitto quel giorno, aveva pensato che il cappellaio si sarebbe fermato molto poco al Café des Colonnes, giusto una fuggevole apparizione. E probabilmente voleva evitare di uscire subito dopo di lui, cosa che avrebbe finito per essere notata.
Oppure, al momento di entrare aveva incontrato qualcuno, magari il commissario Pigeac... No, era improbabile. Pigeac non sarebbe andato al caffè, quel giorno; doveva trovarsi al suo quartier generale, impegnato a organizzare sia i rinforzi di polizia che le pattuglie di volontari. 
Il signor Labbé passò davanti alla Prefettura e raggiunse la piazzetta antistante il Vescovado: ormai non gli restava che aspettare. Nel vetusto edificio in pietra grigia c'erano delle luci accese. Kachoudas si teneva prudentemente a una cinquantina di metri di distanza.
Il cappellaio aveva i nervi così a fior di pelle che per un attimo pensò di lasciar perdere e tornarsene a casa; dopo quello che aveva detto dello stato di Mathilde, non poteva certo farsi vedere di nuovo al caffè.
Gli pareva di esser vittima di un'ingiustizia, ed era una sensazione deprimente. Aveva fatto tutto quello che poteva. Per settimane e settimane non si era concesso un momento di tregua, aveva pensato a ogni eventualità, ai dettagli più banali. E grazie a questo, alla fatica cui si era sobbarcato, tutto era filato liscio.
Adesso stava per raggiungere il suo scopo. Entro sera tutto si sarebbe concluso. Aveva accettato anche un rischio supplementare, perché Madre Sainte-Ursule sarebbe uscita in compagnia di un'altra suora. A questa era infatti destinato il tubo di piombo.
L'avrebbe colpita con forza, in modo da stordirla e avere il tempo di uccidere l'ex Armandine de Hautebois. Impacciata dall'abito a pieghe, non le sarebbe stato facile mettersi a correre e, quanto a strillare, gli sembrava ancor più improbabile che lo facesse.
Era un'impresa delicata, difficile. Esigeva precisione e sangue freddo. Fino alla sera prima provava piacere a pensarci, e neanche l'idea della presenza del piccolo sarto gli causava il benché minimo nervosismo.
Perché ora si sentiva, fin dal mattino, vittima di una congiura? Il centro della piazza era bianco come il latte. Una pattuglia passò nella strada, e il cappellaio riconobbe la sagoma di un pescivendolo quasi sempre ubriaco e noto per la sua brutalità.
In linea di massima, le due suore dovevano trovarsi, in quel momento, dentro al Vescovado. Era il giorno di Madre Sainte-Ursule. Non vi mancava mai. Non solo Mathilde glielo aveva detto più di una volta, ma se n'era assicurato lui stesso il mese precedente.
L'ultima volta, Madre Sainte-Ursule era uscita dal Vescovado alle sei meno un quarto. Adesso erano quasi le sei, e nel vecchio edificio di pietra le luci erano sempre accese e non si sentiva alcun rumore. Il signor Labbé fissava invano la porta che non si apriva, mentre Kachoudas batteva di tanto in tanto i piedi per terra per riscaldarsi.
Anche il cappellaio aveva freddo ai piedi. E improvvisamente pensò con maggiore intensità a Madre Sainte-Ursule: forse lei se n'era accorta, che tutte le vittime dello strangolatore erano sue ex compagne di classe...
Anche se non leggeva i giornali, qualcuno poteva avergliene parlato. I nomi le erano tutti familiari. Che agli altri non fosse venuto in mente di collegarli, si poteva capire. Ma lei?
Il24 dicembre era ormai prossimo, e quella data doveva fatalmente risvegliare i suoi ricordi.
Non poteva certo andare a suonare al Vescovado e domandare se Madre Sainte-Ursule era lì. I minuti passavano. Suonarono le sei.
A che cosa pensava, Kachoudas, durante quell'attesa? Perché indubbiamente a qualcosa pensava. Il signor Labbé aveva perfino l'impressione che avesse cominciato a pensare in un modo diverso.
Lo provava il suo nuovo comportamento.
Voleva i ventimila franchi, era umanamente comprensibile. E stava alle calcagna del cappellaio perché sperava che questi avrebbe finito per compiere un passo falso e fornirgli una prova che gli permettesse di riscuotere il premio.
Ma come seguirlo nei meandri del suo pensiero? Ed era proprio quello che il signor Labbé avrebbe voluto fare. Il Vescovado, per esempio: che cosa poteva mai significare per quel povero diavolo arrivato dal Medio Oriente?
Di Madre Sainte-Ursule, neanche l'ombra. Magari non c'era, non aveva mai lasciato il suo convento. Poco importava se per prudenza o per qualunque altra ragione. Il vescovo poteva essere in missione, ma era poco probabile: il signor Labbé leggeva sempre attentamente il giornale, e gli spostamenti del prelato non mancavano mai di esservi segnalati.
La verità era forse più banale. La suora, come Valentin, poteva avere un forte raffreddore, un mal di gola...
Non poteva star lì a tempo indefinito. Aspettò che suonasse il quarto e poi si mosse, in preda a un malessere che non era solo inquietudine.
Per la verità, non era affatto inquietudine. Poco importava quel che stava pensando Kachoudas. Gli aveva fornito uno spunto, e adesso il piccolo sarto poteva lambiccarsi il cervello seguendo la pista del Vescovado. Per chi avesse passato l'infanzia in quella città, o avesse avuto una sorella in collegio, questo avrebbe potuto, al limite, avere un qualche significato. Ma non era certo il caso di un povero artigiano armeno. Il signor Labbé non aveva paura di Kachoudas. Non aveva paura di nessuno. Prova ne sia che aveva deliberatamente reso il proprio compito più difficile e rischioso annunciando la morte della settima vittima per quel lunedì.
Non voleva rincasare prima del solito per via di Louise.
Neanche lei era capace di pensare, ne era certo, ma non voleva lasciare niente al caso, non aveva voglia di leggere lo stupore negli occhi vacui della ragazza.
Passò sotto la Grosse Horloge e approfittò del fatto che nelle vicinanze non c'era nessuno per gettare il tubo di piombo nell'acqua del porto. Sulla banchina c'erano tanti piccoli caffè, frequentati soprattutto da pescatori; avrebbe avuto voglia di entrarci a bere qualcosa, ma doveva trattenersi.
Non aveva paura. Era qualcosa di più complicato e di più inquietante. Le altre volte, anche quella in cui Kachoudas gli era servito da testimone, si sentiva sicuro di sé, pervaso di un'assoluta fiducia in se stesso, di una tranquillità totale.
Kachoudas si teneva cautamente a una certa distanza. Chissà, forse non aveva tutti i torti, quel giorno, a essere prudente...
Che sciocchezza! Il signor Labbé non voleva lasciarsi andare a pensieri del genere, eppure non riusciva a scacciarli del tutto.
E cercava di spiegarsene la ragione.
«Per quanto terrorizzato, Kachoudas finirà per parlare».
Non era detto, però. Forse lo avrebbe fatto se avesse avuto degli amici. Ma era un isolato: lui e la sua famiglia costituivano un nucleo a se stante nella città. Kachoudas non giocava a carte, non apparteneva ad alcun gruppo, ad alcuna associazione. Non c'erano altri della sua razza, alla Rochelle.
Vivevano per conto proprio, con le loro abitudini, i loro cibi, il loro odore.
Che vantaggio avrebbe tratto dal sopprimerlo al posto di Madre Sainte-Ursule? E del resto, non appena il signor Labbé avesse dato segno di avvicinarglisi, il piccolo sarto sarebbe schizzato via come un coniglio.
Ma come gli era venuta in mente una simile idea? Mentre camminava sul marciapiede con le mani affondate nelle tasche del cappotto, incrociò una pattuglia di volontari; c'era tra loro il salumiere che aveva il negozio di fronte al suo, e che lo salutò gentilmente:
«Buonasera, signor Labbé».
Passò vicino al canale, là dove aveva assalito la signora Delobel, e provò come un sentimento di nostalgia per un'epoca passata, tanto da sentirsene quasi avvilito.
Stava diventando fiacco, irrequieto, indeciso? Era più un fatto fisico che morale, una stanchezza che ti piomba addosso all'improvviso, come l'influenza.
Dopotutto, Valentin l'aveva, l'influenza, e il signor Labbé poteva averla presa da lui... Quel pensiero lo consolò. Non era molto lontano dal convento dell'immacolata Concezione, e si domandò di nuovo perché mai Madre Sainte-Ursule non fosse uscita.
Kachoudas lo seguiva sempre a distanza e il cappellaio pensò che gli sarebbe piaciuto parlargli.
Era l'unica persona, quel giorno, con la quale avrebbe potuto parlare. Lo aveva visto agire. Sapeva. Ma come interpretava le sue azioni?
Naturalmente, non era in grado di capire. Né lui né alcun altro avrebbe potuto capire, e questo era un ulteriore elemento di preoccupazione. Chissà, con un lampo di genio, Kachoudas, partendo dal Vescovado, sarebbe anche potuto arrivare alla verità... Soprattutto lui, che da anni vedeva la sagoma immobile di Mathilde dietro l'avvolgibile, e gli andirivieni del cappellaio su e giù per la camera.
Anche il salumiere aveva pressappoco la stessa scena davanti agli occhi, ma lui saliva al secondo piano solo per andare a letto e per di più, dalle otto di sera in poi, era sempre mezzo ubriaco.
E Louise? Quella non pensava di certo. Come la odiava! La odiava ogni giorno di più, senza una ragione precisa. Averla in casa era per lui come avere una spina nella pelle. La sua semplice presenza bastava a dargli un senso di malessere.
Passò davanti alla libreria della signora Cujas; il vedovo aveva assunto una ragazza che badava al negozio, gli preparava i pasti e dormiva in casa sua. Avrebbero finito con l'andare a letto insieme.
Il signor Labbé pensò alla signorina Berthe e rimpianse di non poter andare da lei. Ormai era impossibile, si era fatto troppo tardi. Aveva annunciato agli amici che per via di sua moglie doveva rincasare presto.
Ci sarebbe andato l'indomani. Che spasso se Kachoudas lo avesse aspettato giù, in rue Gargoulleau, mentre lui si dava da fare con la ragazza!
Se non che... per fortuna pensava a tutto. Ed era il primo a stupirsene. Erano tante le piccole cose di cui tener conto, tante le eventualità da prevedere, che sarebbe stato affatto scusabile dimenticarsene qualcuna.
Improvvisamente scoprì che non ci poteva più andare, dalla signorina Berthe, come era solito fare una o due volte al mese. E proprio a causa di Kachoudas! Questi, infatti, si sarebbe lasciato prendere dal panico, avrebbe pensato a un altro delitto e sarebbe corso ad avvertire la polizia.
Kachoudas rappresentava un ostacolo, e tuttavia gli era necessario. Anche il sentire dietro di sé il rumore dei suoi passi finiva per diventargli quasi indispensabile.
Svoltò in rue du Minage sentendosi sempre più avvilito e continuando a cercarne la ragione, mentre l'irritazione che gliene derivava si tramutava in angoscia.
Le altre volte, nell'avvicinarsi a casa, provava una tale sensazione di appagamento!
Non lo avrebbe confessato a nessuno, nemmeno a Kachoudas, che pure sapeva: questa volta provava quasi un senso di colpa, la sensazione di non aver condotto a termine il compito che si era assunto.
Un giorno, forse, avrebbe parlato al sarto, a quel Kachoudas che mai avrebbe potuto strangolare. Prima di tutto, non era sulla lista. In secondo luogo abitava nella casa di fronte, e la gente avrebbe finito col pensare proprio a lui, al cappellaio.
Tirò fuori di tasca il mazzo di chiavi, richiuse bene la porta, mise il catenaccio. Faceva caldo nel negozio e vi aleggiava ancora un odore di eucalipto che era un po’ come l'odore del raffreddore di Valentin.
«La signora ha chiamato?».
«No, signore».
Chissà se Louise aveva notato che la padrona (che lei non aveva mai visto) non chiamava mai quando il signor Labbé era fuori... E chissà cosa raccontava, la domenica, ai genitori e alle amiche...
Stava cucinando del cavolo. Lo sapeva che a lui il cavolo non piaceva, eppure lo preparava ugualmente. Era fatta così. Quando glielo faceva notare, lo guardava tranquillamente in faccia senza dir niente, senza neanche scusarsi.
A lei il cavolo piaceva!
Si tolse cappotto e cappello, poi nascose la corda di violoncello all'interno della testa di legno, in fondo al retrobottega. Quindi salì su per la scala a chiocciola sentendosi ancora triste, svogliato, spento.
Era sempre più irritato con se stesso. Fece tutto quel che doveva seguendo scrupolosamente la solita procedura: l'avvolgibile, la poltrona, il pranzo da buttare nel gabinetto, lo sciacquone. Non dimenticò di parlare a mezza voce e, quando tornò giù, guardò Louise con un tale odio, in preda a una tentazione così forte, che per poco non andò a prendere la corda di violoncello nel retrobottega.
Per fortuna tornò subito in sé. Era proprio l'ultima cosa da fare. Specie lì, in casa sua! E con quella famiglia di contadini diffidenti che gli sarebbe piombata addosso.
«É venuto qualcuno?» domandò, riprendendo il controllo.
«Nessuno!».
E sembrò voler dire:
«Perché me lo chiedi, visto che non viene mai nessuno?».
Mai nessuno! Da anni! Perché tutti sapevano, in città, che Mathilde non sopportava più la presenza di un essere umano che non fosse il marito, e che il minimo rumore sospetto la metteva in agitazione.
Suo malgrado, gironzolò ancora per la sala da pranzo sbirciando di tanto in tanto quella zoticona, poi finì con l'aprire la credenza e prendere la bottiglia di cognac. Pensasse pure quel che voleva! Ma non gliene venne niente di buono, perché nel compiere quel gesto, nel salire su per la scala con in mano la bottiglia e il bicchiere, sentì via via aumentare il suo nervosismo, il suo senso di colpa.
Non beveva mai dopo cena. Perché quella sera lo faceva? Fu ancor più turbato, scostando l'avvolgibile, dal fatto di non vedere Kachoudas al suo posto, seduto a gambe incrociate sul tavolo: eppure il sarto aveva avuto tutto il tempo di cenare. Lo cercò invano con lo sguardo. Come per caso, la porta della cucina era chiusa. Che cosa stava complottando? Si era nascosto là dentro per mettere al corrente la moglie?
Doveva assolutamente dominarsi. La sua irritazione aumentò quando si rese conto che stava per bere il cognac direttamente dalla bottiglia: allora si costrinse ad andare fino al secrétaire, riempire lentamente il bicchiere e vuotarlo a piccoli sorsi.
Poi tornò alla finestra e, scostando di nuovo l'avvolgibile, vide Kachoudas al solito posto come se non si fosse mai mosso da lì. Tanto che il cappellaio si domandò se poco prima avesse guardato bene.
Tutto avrebbe dovuto esser concluso, a quell'ora. Come l'aveva aspettata, la fine di quella tensione! Ci pensava da settimane, giorno dopo giorno!
E invece non era concluso un bel niente! Madre Sainte-Ursule era viva e vegeta nel suo convento. Che avesse conservato anche lei la fotografia della premiazione? Bastava che le cadesse lo sguardo su quella fotografia e avrebbe subito capito.
Si fermò di colpo in mezzo alla stanza e ogni segno di tensione sparì dai suoi lineamenti, i muscoli contratti si rilassarono e, per un attimo, fu sul punto di scoppiare a ridere. Alla fine si limitò a sorridere, ma era lo stesso.
Uno crede di aver pensato a tutto, si sforza di non dimenticare niente, ma c'è una cosa minuscola di cui non ha tenuto conto.
Era colpa della fotografia! Aveva cominciato partendo dalla fotografia, e in base a quella aveva preparato la lista. Sì, la fotografia aveva condizionato ogni sua azione, ogni suo pensiero.
Perché aveva fatto le cose così in fretta (al punto da sopprimere due donne nella stessa settimana), se non per via del 24 dicembre?
Ma Madre Sainte-Ursule non aveva mai messo piede nella bottega del cappellaio, né il 24 dicembre né in altra data!
Probabilmente, non le era consentito. Non gli aveva forse detto, Mathilde, che le era stato persino vietato di andare a far visita alla madre morente?
Si limitava a mandare un santino con una lettera di quattro pagine, dalla scrittura minuta e regolare, che finiva invariabilmente con un: «... Che Dio ti protegga».
A questo il cappellaio non aveva pensato, e si era dato da fare inutilmente aspettandola per tanto tempo, in piedi, davanti al Vescovado.
Non c'era motivo di mettere Madre Sainte-Ursule sulla lista!
Chissà, magari gli erano sfuggite altre cose di quel genere...
S'innervosì di nuovo, posò qualche ceppo nel caminetto, tornò alla finestra per assicurarsi che il piccolo sarto fosse sempre lì al suo posto e, attraverso la porta socchiusa in fondo al locale, scorse la signora Kachoudas che lavava i panni dei bambini nell'acquaio della cucina. Doveva riconsiderare tutto dall'inizio, ma in quel momento non era in grado di farlo. Si era scolato tre bicchieri di cognac uno dopo l'altro e ne provava vergogna. Si ricordò con amarezza delle settimane precedenti, quando si sentiva così sicuro di sé, così superiore a tutti.
Louise stava salendo con passi strascicati e faceva il solito fracasso sul pianerottolo. Le dita del signor Labbé si contrassero: avrebbe voluto strozzarla.
Ma sarebbe bastato questo a farlo prendere. Sì, se avesse obbedito a quell'istinto, si sarebbe inevitabilmente fatto prendere. E dopo? Forse, era l'occasione per spiegare tutto...
Buttò giù un altro sorso di cognac. Il libro non lo aveva neanche aperto, e sì che avrebbe dovuto essere immerso già da una mezz'ora nel processo dell'incendiario del Giura.
Che cosa aveva cercato di dire nelle sue lettere al giornale, non una sola volta, ma ripetutamente, con insistenza, rischiando di mettere la polizia o il giovane Jeantet sulle sue tracce?
Che si trattava di una necessità.
Aveva detto, insomma:
«Voi mi considerate un pazzo, un malato, un maniaco sessuale»
(si era parlato anche di questo, benché nessuna delle anziane donne fosse stata violentata). «Vi sbagliate. Sono perfettamente sano di mente. Se le mie azioni vi sembrano anormali, è perché non sapete. E, purtroppo, dovendo tutelare la mia sicurezza personale, sono impossibilitato a dirvi tutto. Allora capireste.
Sulla lista ci sono sette donne, e non l'ho fissato a caso, questo numero. Agisco secondo una logica, perché e necessario. Ve ne accorgerete non appena la settima sarà morta. Non succederà più niente. La Rochelle ritroverà la sua pace».
Ma la settima non l'aveva uccisa. Il giornale lo avrebbe annunciato l'indomani. E perciò non gli avrebbero più creduto.
Non solo non l'aveva uccisa, ma adesso aveva scoperto che la morte di Madre Sainte-Ursule era superflua.
Che cosa avrebbe pensato la gente? Che lui scriveva delle cose a vanvera, tanto per rendersi interessante? Che sceglieva le sue vittime a caso?
Che aveva avuto paura? Che l'ordinanza del sindaco aveva sortito l'effetto voluto?
Era in pantofole e vestaglia, come le altre sere. Accese la pipa di schiuma, quella che fumava di solito dopo cena e che aveva un sapore diverso dalle altre, si sedette in poltrona con il suo libro, ma tenne il cognac a portata di mano. Bastava questo a dargli la consapevolezza che qualcosa non andava.
Se nutriva per il giovane Jeantet un sentimento quasi di affetto, era perché questi gli dava modo di confrontarsi con qualcuno sul suo caso. Avevano ingaggiato una vera e propria polemica sulle colonne dell'«Echo des Charentes», e ciascuno cercava via via nuovi argomenti a sostegno della sua tesi.
Jeantet si era spinto fino a Bordeaux per sentire il parere di un rinomato psichiatra, e questi, dopo lunghe considerazioni scientifiche, aveva dichiarato:
«Si fermerà solo quando lo prenderanno».
E dopo un momento di riflessione - che Jeantet non aveva mancato di registrare-, aveva aggiunto:
«A meno che non si uccida».
E il cappellaio aveva risposto, con grande sicurezza:
«Non mi prenderanno, e non mi ucciderò. Non ho alcuna ragione per farlo. Quando la settima persona della lista sarà stata eliminata, tutto tornerà come prima».
E aveva ripetuto:
«É una necessità».
Non era più una necessità ucciderne sette: la settima vittima era inutile, perché Madre Sainte-Ursule non aveva mai messo piede, il 24 dicembre, nella casa di rue du Minage.
Dunque, in base a quanto lui stesso aveva più o meno annunciato, la faccenda era chiusa. Poteva rilassarsi. E continuare a giocare al gatto e al topo con Kachoudas, il quale, vedendolo riprendere una vita assolutamente normale, non si sarebbe più raccapezzato.
Avrebbe continuato a pedinarlo ogni giorno, a spiarlo al Café des Colonnes.
Giù in strada sfilò una pattuglia, tre o quattro uomini i cui passi risuonarono sul selciato ricoperto di ghiaccio. Ce n'erano una ventina che perlustravano la città. I volontari si davano il cambio e andavano a turno, a scaldarsi vicino alla grande stufa del commissariato. Il sindaco stava in permanenza nel suo ufficio, dove gli telefonavano per informarlo che, per il momento, tutto era calmo. Jeantet bivaccava al giornale per poter redigere un breve articolo proprio al momento di andare in macchina.
Il signor Labbé si alzò di scatto, con i nervi a fior di pelle.
Doveva agire, fare qualcosa: l'immobilità che regnava in quella stanza e l'aria così stagnante da esser quasi palpabile avevano finito per dargli l'angoscia.
Aveva fatto male a bere, e adesso doveva continuare a farlo, altrimenti sarebbe stato capace di uscire a camminare per le strade, magari portando con sé la corda di violoncello e i due pezzetti di legno...
Sentì cigolare la rete metallica nella camera della domestica, e l'odio che provava per quella zoticona raggiunse una tale intensità da farlo star male.
Prese le forbici e i giornali dai quali ritagliare lettere e parole, aprì il barattolo della colla, preparò un foglio di carta bianca, e gli parve così di calmarsi.
Voleva dir loro...
Che cosa? Restò là con le forbici per aria, e per la prima volta dopo tanti anni ebbe improvvisamente voglia di piangere.
Sentiva in modo straziante la crudeltà della sorte. Si era sobbarcato coraggiosamente a tutta quella fatica, aveva organizzato ogni cosa con tanta pazienza e tanta prudenza, curando anche i minimi particolari, aveva...
Quella sera tutto doveva esser concluso, e invece non era andata così. Si sarebbero burlati di lui, e avrebbero avuto ragione.
A turbarlo non era il piccolo sarto della casa di fronte, con quel tarlo che lo rodeva e che non lo avrebbe portato a nulla. E neppure Madre Sainte-Ursule, così altera e aristocratica, nella quiete del suo convento.
Non aveva paura di nessuno, lui, e questo doveva esser chiaro a tutti, al commissario Pigeac per cominciare, e al sindaco che si credeva tanto importante, e anche al giovane Jeantet.
Non aveva paura di nessuno.
Tranne che di se stesso. Perché ora cominciava a capire che cosa gli era successo poco prima, mentre camminava lungo il quai Duperré. All'inizio aveva pensato che il suo malumore fosse dovuto al fatto di non aver concluso la faccenda come sperava, al fatto cioè che la suora fosse mancata al solito appuntamento del lunedì.
Poi quel malessere era aumentato, e per un attimo aveva pensato di sostituire Madre Sainte-Ursule con il piccolo sarto.
Questo provava che si era sbagliato.
Perché, dopo, aveva preso a gironzolare intorno a Louise?
Non era la prima volta, ora se ne rendeva conto. Gli era già capitato, guardandola, di pensare:
«Magari dopo, quando avrò finito con le altre...».
Bevve ancora. Ne aveva bisogno. Provava un senso di vertigine: quello che intravedeva era terrificante. Pensò di calmarsi e di ritrovare il suo sangue freddo andando a prendere la fotografia, ma quei volti di ragazze, irrigiditi in un'espressione un po' artefatta, non gli comunicavano più alcuna emozione.
Quella carogna di Louise non dormiva, continuava a girarsi e rigirarsi rumorosamente nel letto, come se fiutasse il pericolo.
Stesse pure tranquilla: non le avrebbe fatto niente! Era di nuovo calmo. Aveva solo bisogno di riflettere, ma provare a farlo in quel momento sarebbe stato inutile. Aveva bevuto troppo.
Pazienza! Tanto valeva continuare: così poteva stordirsi, dormire poi come un masso e risvegliarsi il giorno dopo perfettamente lucido.
Lo avrebbe fatto vedere a tutti, allora, che era sano di corpo e di mente. Non aveva tare, lui, se n'era assicurato più volte consultando fior di medici. Suo padre era morto di mal di cuore, a settantadue anni, in possesso di tutte le sue facoltà. Faceva il cappellaio, in quella stessa casa e in quella stessa strada, ai tempi in cui la rue du Minage aveva fama di grande arteria commerciale, ed era un personaggio importante, faceva parte del Consiglio comunale.
Lui aveva cominciato a studiare legge a Poitiers, ma al terzo anno aveva deciso, di sua spontanea volontà, di occuparsi del negozio.
Affari suoi. Esclusivamente suoi.
Era perfettamente normale.
Dal piccolo sarto la luce era ancora accesa, ma lui non lavorava più seduto sul tavolo; vi stava invece appoggiato, fumando una sigaretta arrotolata con le sue stesse mani, e chiacchierava tranquillamente con la moglie che si era concessa un attimo di pausa.
Non si sarebbe lasciato impressionare da nessuno, il signor Labbé.
«Dicano pure quello che vogliono, pensino e scrivano pure quel che meglio credono!».
Aveva bevuto quasi metà della bottiglia e cominciava a vederci chiaro. Non era un caso se pubblicavano certe cose assurde sul suo conto: faceva parte di un piano prestabilito. Volevano portarlo all'esasperazione, fargli saltare i nervi per poi riuscire a prenderlo.
Jeantet, il sindaco, Pigeac, e anche l'amico Caillé... Erano tutti d'accordo. Avevano un piano. Forse l'intervista allo psichiatra di Bordeaux era inventata di sana pianta. A meno che facesse parte anche lui del complotto.
Louise poteva girarsi e rigirarsi senza trovar pace nel suo letto cigolante, lui non si sarebbe mosso.
Andava dritto a letto. Cos'altro gli restava da fare? Non doveva dimenticare niente. Sentiva la testa pesante. Forse si era preso il raffreddore da Valentin. Che idiozia! Avrebbe dovuto rimandarlo a casa, da sua madre.
Rimise a posto la fotografia, i giornali, le forbici, chiuse il barattolo della colla.
Con Madre Sainte-Ursule era andata male, d'accordo. Ma dal momento che lei, il 24 dicembre, non era mai venuta a trovare Mathilde, la cosa non aveva alcuna importanza.
Dunque la faccenda era conclusa.
Doveva dirselo e ridirselo: la faccenda era conclusa. Ora doveva solo dormire, e magari bere un ultimo sorso di cognac - e questa volta lo tracannò direttamente dalla bottiglia.
Se l'era meritato, sì o no?
Conclusa!
Qualsiasi cosa facessero!
Perché, allora, stringeva disperatamente il cuscino, come un bambino che sta per piangere?
Faceva tutto quel che doveva fare, senza dimenticare niente. Ma gli capitava sempre più spesso di bloccarsi di colpo, come in trance, e di guardarsi intorno con un'aria prima preoccupata e poi sofferente che gli faceva corrugare la fronte. Tanto che a un certo punto Valentin aveva pensato di andare in suo aiuto.
«Ha dimenticato qualcosa?».
Il signor Labbé lo aveva guardato come venisse da un altro mondo, senza preoccuparsi di rispondergli e limitandosi ad alzare le spalle. Ma, dopo qualche secondo, il contatto si era ristabilito: ricordandosi di quel che doveva fare, si era diretto verso l'armadio in fondo, quello sempre chiuso a chiave, per tirare la cordicella.
Quel martedì mattina, il signor Labbé era pallido, aveva i lineamenti alterati e le palpebre arrossate. Da tanto non gli capitava di bere come aveva fatto la sera prima, si sentiva la testa vuota e nel farsi la barba gli tremavano le dita.
La cosa assurda è che, dei due, quello davvero ammalato era il piccolo sarto. Forse non gravemente... Il signor Labbé non poteva ancora saperlo. Dall'andirivieni nella casa aveva intuito che c'era qualcosa d'insolito. Per prima si era vista la signora Kachoudas. Poi, Esther era uscita dalla cucina molto più presto degli altri giorni, e già vestita.
É strano vedere come, non appena in una casa s'interrompe il solito ritmo, tutto cominci subito ad andare storto. La ragazza era scesa, aveva armeggiato per un bel po’ con i catenacci della porta del negozio, quindi si era allontanata camminando sul marciapiede.
Quella mattina il selciato era ricoperto da uno strato scivoloso di brina. Come aveva fatto il signor Labbé a capire subito che stava andando in farmacia? Probabilmente perché solo la malattia, o la morte, può impedire a un uomo come Kachoudas di essere al suo solito posto.
La signora Kachoudas faceva fretta alle bambine, che si stavano vestendo per andare a scuola. Esther dovette girare diverse farmacie prima di trovarne una aperta. Quando tornò aveva in mano un pacchetto, e mentre saliva su per la scala Kachoudas apparve nel laboratorio malgrado le proteste della moglie. Era in pantofole, e aveva indosso un vecchio paio di pantaloni, una giacca frusta sopra la camicia da notte e uno scialle nero della moglie intorno al collo. Si vedeva che aveva la febbre e, da come parlava, si capiva, anche dall'altra parte della strada, che era completamente afono.
Il pacchetto dei medicinali venne aperto mentre Esther spiegava animatamente il da farsi. La signora Kachoudas infilò in bocca al marito il termometro che la figlia aveva appena portato e cercò di decifrare le istruzioni su un flacone e su una scatoletta. Poi aiutarono il malato a mettersi il cappotto, non perché volesse uscire, ma perché, malgrado il fuoco acceso nella stufa, cominciava a battere i denti.
Quando esaminarono il termometro assunsero tutti e tre un'aria molto seria, e si misero a discutere.
Probabilmente le due donne proponevano di chiamare il dottore e Kachoudas vi si opponeva energicamente. Poi Esther uscì per andare al lavoro. Sua madre accompagnò giù le due bambine, che si diressero verso la scuola tenendosi per mano. La più piccola aveva una cuffietta fatta ai ferri, di grossa lana rossa, e guanti dello stesso colore.
«A noi due!» sembrò dire la signora Kachoudas tornando verso il marito.
Mise a scaldare dell'acqua, preparò degli impacchi, gli fece ingoiare delle pillole verosimilmente purgative. Quanto al piccolo sarto, costretto all'inoperosità, guardava con struggimento il suo tavolo da lavoro e, non appena rimaneva solo, tentava di alzarsi dalla poltrona di vimini in cui lo avevano fatto sedere, davanti alla stufa.
Doveva avere l'influenza o il mal di gola, come Valentin, che continuava a soffiarsi il naso.
E Louise, aveva davvero avuto paura del cappellaio, quando questi era entrato nella sala da pranzo dove lei stava apparecchiando la tavola? Aveva alzato la testa quasi di scatto, era sembrata sorpresa di vederselo davanti e, dopo un momento di silenzio, invece di salutarlo gli aveva detto:
«Ma che cos'ha?».
Aveva la faccia di chi sta smaltendo una sbornia, certo, ma soprattutto la stava osservando con occhi nuovi. E non solo la osservava, ma la fiutava, in preda a un immenso disgusto, a un rancore ostinato. Quante volte, la sera prima, aveva avuto la tentazione di scendere in cucina e, più tardi, di raggiungerla nella sua camera per farla finita anche con lei?
Adesso la osservava, soppesandola e misurandola con lo sguardo.
La immaginava stesa a terra, e provava una sorta di sollievo; la odiava, l'avrebbe sempre odiata per quello che era stato sul punto di fare.
Questo gli fece tornare alla mente i suoi diciassette anni e le sue prime esperienze erotiche. Esitava a lungo prima di spingersi nel quartiere delle caserme, dove c'erano cinque o sei case con i numeri in bella evidenza e con delle donne sulla soglia. Dapprima passava via in fretta, ma arrivato in fondo alla strada si girava e tornava a percorrerla da capo. Ogni volta si riprometteva di scegliere, ma poi finiva per infilarsi, con le orecchie che gli ronzavano, nel primo corridoio che capitava.
Dopo, per ore e ore le odiava tutte, quelle donne, per la vergogna che aveva di se stesso e di tutto il genere umano. Ce l'aveva con loro per aver ceduto alla tentazione, e quel sentimento era così forte da suscitare in lui degli impulsi criminali.
Anche con quella zoticona di Louise era stato sul punto di cedere alla tentazione, una tentazione diversa, ed era ancora più grave. Fino a quel momento aveva fatto solo quello che aveva deciso di fare, quello che era necessario, indispensabile, come aveva scritto al giornale. Durante la mattinata prese in considerazione l'idea di metterla alla porta, ma non era prudente.
Chissà se Valentin era in grado di cogliere la differenza...
Chissà se quel ragazzino dai capelli rossi e dal naso quasi sanguinante aveva un qualche spirito di osservazione...
Il cappellaio si sentiva come appesantito. Prima, anche quando se ne stava silenzioso e assorto, era leggero, per quanto strano possa sembrare. Aveva indubbiamente un'aria austera, ma al tempo stesso serena. Era un solitario, un introverso, ma non si avvertiva in lui alcun conflitto, alcun turbamento.
Quella mattina era meno agitato del giorno prima, ma ciò nondimeno il suo animo era turbato.
Aveva le idee confuse. L'immagine di quella disgustosa Louise, e di ciò che per poco non era accaduto, lo perseguitava. Poi, a causa di lei, gli tornarono alla mente altre immagini, il quartiere delle caserme e da ultimo, fatalmente, il ricordo della signora Binet.
Stava lavorando nel retrobottega, intento a rinfrescare e mettere in forma alcuni cappelli. Un paio di volte era passato nel negozio per servire dei clienti, lanciando brevi occhiate alla casa di fronte.
All'improvviso, guardando quell'ambiente familiare, gli scaffali scuri, gli specchi, le teste di legno, la stufa a gas, il suo nome che poteva leggere al contrario sulla vetrina, aveva avuto l'impressione che qualcosa, lì dentro, si fosse fermato, come un orologio.
Intorno a lui, niente era cambiato da quando aveva preso possesso del negozio.
Gli altri avevano per lo meno cercato di combinare qualcosa, in un modo o nell'altro. Persino Paul Chantreau, il dottore, si era dato da fare per un bel po'.
Lui, invece, a ventitré anni, era tornato da Poitiers, dove studiava legge, per venirsi a rannicchiare lì, come certi animali che alle prime avvisaglie dell'inverno si rifugiano nella loro tana. Bè, era stato per via della signora Binet. Non lo aveva mai detto a nessuno. Non lo aveva mai ammesso. Non era neanche del tutto vero. Ma non tanto lontano dal vero, comunque.
Léon viveva da lei, a Poitiers. Era vedova, e lui cominciava appena a rendersi conto di quanto fossero numerose, le vedove, e quanto aggressive.
La signora Binet aveva trentaquattro o trentacinque anni. Suo marito era stato, in vita, un funzionario piuttosto importante e lei possedeva una bella casa nella parte alta della città, dove viveva con il figlio Albert, all'epoca quattordicenne, che studiava in collegio.
Per rimpinguare le sue entrate, la signora aveva deciso di affittare una camera a uno studente. La madre del signor Labbé era venuta a saperlo, lui non ricordava più come, probabilmente attraverso dei conoscenti. C'era stato uno scambio di lettere, poi le due donne si erano incontrate e la signora Labbé era tornata alla Rochelle soddisfatta di come il figlio si era sistemato.
La signora Binet era bruna e si chiamava Jeanne.
Suo figlio, che era molto maleducato, la chiamava per nome.
La prima volta era successo proprio quando Léon aveva il mal di gola. Gli veniva tutti gli anni, in autunno o all'inizio dell'inverno. Naturalmente non era andato a lezione. Erano soli in casa, e la signora Binet indossava una vestaglia di un color azzurro carico che lasciava intravedere del pizzo.
Lui aveva un po’ di febbre. La camera profumava di eucalipto, e lei, che lo curava con dedizione, aveva insistito per metterlo a letto. Alla fine, nonostante l'atteggiamento materno della signora, avevano fatto l'amore.
Era la prima volta che gli succedeva al di fuori del quartiere delle caserme. Fu spaventato dalla violenza della sua partner, dal cambiamento fulmineo che avveniva in lei, fino ad alterarne i lineamenti. Pensò al ragazzino che stava per tornare da scuola e si sentì colpevole.
La cosa era durata due anni e mezzo, il periodo appunto che aveva trascorso a Poitiers. I suoi amici, all'università, avevano soprannominato la donna «la Binette», e sostenevano che lui non era certo il primo. Poiché allora era molto magro, dicevano che lei consumava tutte le sue energie, e forse era proprio così: non lo lasciava in pace, s'infilava in camera sua anche quando il figlio era in casa e poteva sentirla, e si scatenava come non gli sarebbe più capitato di vedere scatenarsi una donna. Era impudica al massimo, e lo faceva apposta, in modo violento; quando era in preda alla frenesia, si serviva delle parole più oscene, che lui aveva sentito solo nei bordelli e che lo facevano arrossire.
Non osava andare a stare da un'altra parte, perché avrebbe dovuto fornire una spiegazione ai genitori. D'altronde, lei lo avrebbe probabilmente inseguito ovunque.
All'università lo chiamavano «il Binet della Binette», e questo era diventato, in bocca ai compagni, una specie di ritornello. Al terzo anno, capì che non avrebbe superato gli esami e ne provò vergogna. Quando rientrò alla Rochelle per le vacanze di Pasqua, là, nella bottega di rue du Minage, si sentì finalmente al sicuro. Esitò ancora un paio di giorni.
Il ricordo di Albert, che, ormai diciassettenne, sapeva tutto e gli parlava cinicamente della madre, lo perseguitava.
«Dato che hai sempre desiderato vedermi prendere in mano il negozio,» disse un giorno a suo padre «credo che mi deciderò a farlo».
E così fu.
Ecco a cosa pensava quel giorno, a questo e ad altri fatti non molto più piacevoli, perché sentiva il bisogno di fare il punto della situazione. Si sentiva mancare il terreno sotto i piedi.
Più di una volta gli capitò di guardarsi negli specchi del negozio e la vista della sua faccia aumentò il suo malumore. Si trovava vecchio. Si domandò come stesse il piccolo sarto. Tirò la cordicella più spesso del solito per avere il pretesto di salire, tanto che il povero Valentin, preso il coraggio a due mani, domandò:
«La signora Labbé non sta bene?».
Lo fissò negli occhi senza rispondere. Il cielo aveva un bell'essere limpido come la madreperla di una conchiglia d'ostrica: intorno a lui aleggiava una nebbia che snaturava uomini e cose.
Chissà se quella zoticona di Louise aveva notato che la bottiglia di cognac non era più nella credenza... L'aveva lasciata su in camera e, poco prima di mezzogiorno, salì a berne un sorso.
Aveva ritardato l'acquisto del giornale, all'angolo della strada, perché sapeva già che, leggendolo, sarebbe diventato di umore ancor più nero.
«Per la prima volta» scriveva solennemente Jeantet, «l'assassino non ha compiuto ciò che aveva annunciato».
Seguiva un'intera colonna di supposizioni. Bluff?
Malattia? Paura di un eccezionale spiegamento di forze di polizia?
«A meno che la settima vittima, seguendo le raccomandazioni del sindaco, non sia uscita di casa».
Quindi Jeantet prendeva in considerazione diverse ipotesi:
«Ma c'era veramente una settima vittima designata? Lo sapremo fra pochi giorni. Fin dall'inizio l'assassino ha cercato di far credere che le sue vittime non erano scelte a caso ma che esisteva una lista precisa, un piano prestabilito. Sarà vero?
Sarà falso? Non si tratterà solo di una giustificazione a posteriori, o addirittura di uno stratagemma per sviare i sospetti o darsi una certa importanza?».
Certe persone insudiciano tutto, è più forte di loro.
Doveva forse lasciarsi prendere per far capire agli altri la verità, per fornire delle prove? Ne ebbe la tentazione, magari non molto forte, non del tutto sincera, ma l'ebbe. Chissà, forse era davvero la cosa migliore...
Kachoudas era sempre là, nella sua poltrona, e la moglie gli cambiava l'impacco ogni ora. A mezzogiorno gli portò delle uova sbattute con il latte, che lui mangiò lentamente con un cucchiaino, tenendo la scodella sulle ginocchia. Una volta, sentendo suonare il campanello giù in negozio, la donna scese a parlare con il cliente spiegandogli che suo marito era ammalato.
Verso le due, il signor Labbé decise di approfittarne. C'era un filo che legava tutto. A causa di Louise aveva pensato al quartiere delle caserme, poi alla signora Binet, e infine era tornato su per bere.
Aveva un gran mal di testa, ma non era l'aspirina che gli serviva. Ci voleva ben altro. Cercò di trattenersi fin verso le quattro, al momento di accendere le lampade, e a quel punto s'infilò il cappotto e prese il cappello.
«Devo fare una commissione, Valentin. Se non torno prima delle sei, chiuda il negozio».
Aveva già impugnato la maniglia della porta, ma fece dietro front e si diresse verso il retrobottega. Infilò la mano all'interno della testa di legno, poi si bloccò. Ebbe paura, e resistette alla tentazione, perché aveva ancora la forza di resistere.
Uscì senza portar niente con sé e si incamminò verso la rue Gargonlleau.
Vi si recava ogni tanto, sempre intorno a quell'ora. Un po' prima della place d'Armes, sulla sinistra, c'era un palazzo, un'antica residenza privata del XVIII secolo che aveva ospitato personaggi famosi. Sopra il grande portone campeggiava ancora uno stemma, e ai lati c'erano due cippi di pietra. Il cortile era lastricato e tutt'intorno vi si affacciavano degli edifici. Il palazzo era stato diviso in appartamenti, e all'ingresso si vedevano delle targhe di ottone: al primo piano, in fondo, c'era lo studio di un dentista che il signor Labbé aveva conosciuto ai tempi della scuola. Più in là, l'ufficio vendite di una ditta di frigoriferi, e di sopra l'abitazione dell'addetto all'Archivio provinciale.
L'ala sinistra aveva un solo piano e due ingressi. La seconda porta dava direttamente su una scala che portava al primo piano, e lì il cappellaio si fermò.
Ogni volta che andava in quella casa sentiva una punta di angoscia, come un tempo, quando si addentrava nel quartiere delle caserme. E sì che non era certo il solo a fermarsi davanti a quella porta! Gli altri, compreso il dottore, ne parlavano tranquillamente, senza vergogna. Chantreau, quando arrivava in ritardo per la partita, dichiarava senza mezzi termini:
«Sono andato a farmi Berthe».
Julien Lambert non diceva niente perché era protestante, e soprattutto perché aveva una gran paura di sua moglie, ma neanche lui lo negava, si limitava a farlo discretamente.
In quanti erano a frequentare quel nido accogliente dalle pareti rivestite in seta dai colori tenui, stracolmo di tappeti, pouf, morbide poltrone, soprammobili fragili ed eleganti?
In sette o otto. La signorina Berthe non era una prostituta.
Per due anni era stata mantenuta dal maggiore dei Rist, l'armatore. Ce n'erano altri quattro o cinque, di Rist, e formavano una specie di clan all'interno della città, protestanti anche loro e titolari di una delle più grosse fortune del paese.
Rist senior aveva all'epoca sessant'anni. Il figlio e le due figlie erano sposati, e uno dei generi dirigeva la filiale di Parigi.
Tutta la famiglia si occupava dell'impresa, e non si vedeva mai nessuno di loro al caffè o in qualche casinò della costa.
Forse, fino ai sessant'anni, Rist senior non aveva conosciuto altre donne oltre a sua moglie, così rinsecchita ormai che le si sentivano scricchiolare le articolazioni.
Comunque, era lui che aveva affittato e ammobiliato l'appartamento della signorina Berthe. Benché avesse agito con la massima discrezione, tutta la tribù, figli e generi compresi, non gli aveva dato tregua per due anni.
Si raccontava di scene epiche, con il povero Rist che li supplicava in ginocchio di lasciargli godere in pace quel poco di vita che ancora gli restava.
Ma alla fine il clan aveva vinto. Una sera, davanti a tutta la famiglia riunita, Rist aveva giurato solennemente di non rimettere più piede nella casa di rue Gargoulleau e di non rivedere mai più la signorina Berthe.
Neanche per annunciarle la decisione presa. Se n'era incaricato uno dei generi, che aveva anche affrontato in termini assai rudi la questione economica.
Da allora, Rist senior andava a Parigi una volta al mese con il treno della notte, e si diceva che avesse il permesso di frequentare una casa di appuntamenti del quartiere di Notre-Dame-de-Lorette.
La signorina Berthe aveva conservato il suo aspetto serafico, la sua vita ovattata da mantenuta, ma dato che nessuno, in città, poteva sostituire l'armatore, aveva dovuto mostrarsi «ospitale» con alcuni signori opportunamente scelti.
Il signor Labbé vide un po’ di luce che filtrava dalle persiane e capì che la signorina Berthe era in casa. Era quasi sempre in casa, ma restava un'altra cosa da fare: la prova campanello. Era stata lei o uno dei suoi amanti ad avere quell'idea? Fatto sta che il campanello era munito di un interruttore, e quando la signorina si intratteneva con qualcuno toglieva il contatto e nessuno insisteva, ben sapendo cosa volesse dire.
Il signor Labbé allungò il braccio, premette il pulsante e non si udì alcun suono: evidentemente c'era qualcuno, forse Chantreau, e il suo umore diventò ancora più cupo. Non si sentiva bene. Aveva bisogno di qualcosa, anche se non sapeva esattamente di che cosa. Aveva creduto di trovarlo lì, ma non poteva continuare a vagare per il quartiere e tornare ogni tanto a suonare il campanello.
Non aveva portato con sé la corda di violoncello. Questo non significava necessariamente che avesse preso una decisione. La corda, infatti, serviva solo all'esterno, quando doveva agire molto in fretta, senza far rumore, sfruttando l'effetto sorpresa.
Non se n'era servito per Mathilde, che era coricata nel letto.
In verità, era venuto lì senza aver deciso proprio niente. Ora camminava lungo i marciapiedi con le spalle curve. Non voleva bere alcolici davanti agli amici perché questo non rientrava nelle loro abitudini e perché continuava a essere prudente. Al limite, poteva entrare in un altro caffè. Gli era già capitato di farlo. Ce n'erano diversi intorno al mercato coperto. Passò davanti ai cesti delle pescivendole e ne riconobbe una che per almeno due anni, ai tempi del liceo, aveva eccitato la sua fantasia. Non le aveva mai parlato. All'epoca era una monella di strada dai piccoli seni a punta. Quante volte l'aveva vista negli angoli bui con qualche uomo! I suoi compagni, che la conoscevano bene, dicevano che faceva tutto quello che le si chiedeva, con chiunque, e non per denaro ma perché le piaceva. Le avevano dato un soprannome che illustrava con crudezza una delle sue specialità.
Lui non aveva mai osato, e adesso eccola là: una vecchia seduta su un seggiolino pieghevole, con davanti delle ceste di pesce.
Sapeva chi era lui, come tutti in città. Quello che non poteva sapere era di aver occupato tanto spazio nei suoi pensieri, e che, a causa sua, lui era andato così spesso ad abbrutirsi nelle case chiuse del quartiere delle caserme.
Buttò giù due cognac, e lo sguardo del cameriere lo infastidì, anche se quello, magari, stava pensando a tutt'altro.
Si era ripromesso di non tornare in rue Gargoulleau. Sapeva che non ci sarebbe stata ancora via libera. Ciò nonostante entrò nel cortile e premette invano il pulsante del campanello.
La sua mano, nella tasca del cappotto, cercò meccanicamente la corda di violoncello che non c'era. Con lo sguardo cupo, quasi sospettoso, entrò nel Café des Colonnes, e provò una sensazione sgradevole non sentendo il piccolo sarto alle sue spalle.
Era riuscito a mantenersi così calmo, così padrone di sé, nelle settimane precedenti! Certo, doveva pensare a tutto, calcolare ogni minima mossa, ma era fiducioso, procedeva con metodo in base alla sua lista, come chi si è imposto un compito e lo persegue senza lasciarsi influenzare da niente.
Il dottore era là; dunque non era lui a intrattenersi con la signorina Berthe. E neppure Julien Lambert, che continuava a cincischiare le carte mentre, con Arnonld, aspettavano pazientemente il quarto.
Perché Chantreau corrugò le sopracciglia vedendo che il cappellaio si metteva a sedere? Forse perché non era l'ora degli altri giorni?
«Il solito, signor Labbé?» domandò Gabriel, che aveva, per il gruppetto, attenzioni materne.
«Giochi, Léon?».
Sì, giocava. Aveva tutto il tempo per giocare: nessun impegno fino alle sette di sera. Ormai, non avrebbe più avuto niente da fare, e questo gli dava una sensazione di vuoto quasi vertiginoso.
Non era neanche più tenuto a prendere delle precauzioni!
«Hai l'aria stanca» osservò Paul Chantreau sbirciandolo da sopra le carte.
«Non saprei».
«É strano. I miei colleghi sostengono che l'umidità è malsana.
Eppure ogni anno assisto a questo fenomeno: finché continua a piovere la gente sta bene, poi, con i primi geli, è tutta un'epidemia di influenze e mal di gola. Ne ho avuti undici, questa mattina».
«Passo».
«Passo».
«Un picche».
«Passo».
«Due quadri».
Il signor Labbé non aveva l'influenza, adesso ne era certo. Non per questo era meno irritabile; ce l'aveva con tutti, senza sapere esattamente perché. Ce l'aveva con Louise, e da un'ora in qua ce l'aveva anche con la signorina Berthe.
Eppure non soffriva di mania di persecuzione. Non era pazzo. Il giovane Jeantet non era riuscito a impressionarlo con le sue teorie, né con le sue improvvisate nozioni di psichiatria.
Non era lì, Jeantet, e neppure il suo capo, il signor Caillé. A pensarci bene, forse era proprio Caillé, con il suo pancione e tutti quei peli, a trovarsi nel letto della signorina Berthe.
Ce l'aveva anche con lui. E con il piccolo sarto, la cui sedia continuava a rimanere vuota.
Fu Julien Lambert a notarlo, un po’ più tardi, guardando l'orologio che segnava le cinque e un quarto:
«Tò, hai perso il tuo cane!».
Il cappellaio non capì subito, e poiché andava in bestia quando non capiva qualcosa, diventò ancora più irascibile:
«Mai avuto cani» grugnì.
Gli altri, che invece avevano capito, scoppiarono a ridere.
«Non c'è Kachoudas! Di solito, ti segue a ruota. Scommetto che regola l'orologio sul tuo, oppure ti aspetta sotto casa».
Che avesse qualche sospetto, per parlare così?
«Kachoudas è ammalato».
«Come fai a saperlo?».
«L'ho visto dalla finestra».
«Ho detto tre fiori!» sbottò spazientito Arnould, al quale non andava che si parlasse durante la partita, perché lo faceva confondere. «Paul ha detto "passo", André ha detto un quadri, Léon ha detto "passo", io ho detto tre fiori. Tocca a te, Julien...».
C'era qualcosa di vischioso nell'aria, anche se il signor Labbé non avrebbe saputo spiegare perché. Il tempo era secco, le strade inondate dal chiaro di luna, il caffè non ancora invaso dal fumo.
E Oscar, il padrone, piantato alle loro spalle, ancora perfettamente sobrio.
Eppure c'era nell'aria un che di vischioso, come una trappola per corvi. Doveva rimettersi a pensare in modo razionale, non lasciarsi dominare da sensazioni malsane.
Bere, comunque, gli faceva bene. Aveva già vuotato il suo bicchiere (di solito gli durava una mezz'ora), e aveva fatto cenno a Gabriel di riempirlo di nuovo.
«Come sta Mathilde?».
C'era sempre qualcuno che gli faceva quella domanda. Chissà che faccia avrebbero fatto se avesse risposto tranquillamente:
«É morta da sei settimane».
Ogni tanto, ma di rado, era Caillé a chiedere notizie, perché era stato fidanzato con Mathilde prima del cappellaio. Nessuno aveva mai saputo con precisione perché il fidanzamento si fosse rotto. Era avvenuto in gran segreto, un anno prima del matrimonio con il signor Labbé. Erano andati a letto insieme? Probabile. Il signor Labbé, comunque, non era stato il primo.
Tuttavia, sua madre gli aveva detto:
«La ragazza ha un'ottima educazione».
Non a caso aveva frequentato il collegio dell'Immacolata Concezione. Il padre era un alto funzionario delle dogane, la madre era morta.
«Io non vivrò in eterno... e chi manderà avanti la casa?».
La signora Labbé era una donnina insignificante che trotterellava tutto il giorno per casa, e quando passava vicino a qualcuno, o c'era un cliente in negozio, oppure le capitava di fare un po’ di rumore, si affrettava a balbettare:
«Pardon...».
Lui assomigliava più alla madre che al padre, quanto meno fisicamente. Suo padre era un uomo calmo, forte, sicuro di sé.
«Sai bene, Léon, quello che ha detto il dottore...».
Che lei non ne aveva più per molto. E la cosa era andata avanti per dieci anni, dieci anni durante i quali la signora Labbé madre aveva continuato a «non averne più per molto». Un tanghero di medico aveva avuto la brillante idea di dirglielo chiaro e tondo, e lei se ne era servita come arma di ricatto.
«Perché non ti sposi, come tutti? Alla tua età, tuo padre era già sposato».
Ma ne era poi soddisfatto come lei lasciava intendere? Ad ogni modo, il padre non interveniva mai in quelle discussioni, che alla fine erano divenute quasi quotidiane.
Possedevano una villetta a Fourras, vicino al molo, dove il signor Labbé padre, che adorava pescare, aveva deciso di ritirarsi in futuro.
«É per te che non ci andiamo a stare già adesso».
«E fate male. Me la caverei benissimo da solo».
Era vero. Bastava che gli lasciassero la domestica che viveva con loro da vent’anni.
«Hai notato che la piccola Courtois ha un debole per te?».
La «piccola Courtois» era Mathilde, il cui padre frequentava i Labbé. Era bruna, come la signora Binet. A quell'epoca, però, non assomigliava alla vedova di Poitiers, altrimenti se ne sarebbe accorto. Ma aveva le stesse pupille molto scure, molto brillanti, che si posavano con insistenza su cose e persone come per dominarle, per fagocitarle.
Perché, alla fine, aveva acconsentito? Forse perché la salute della madre era peggiorata e ormai le crisi si manifestavano più volte al giorno. Soffriva parecchio, e si raggrinziva a vista d'occhio.
«Me ne andrei tanto più tranquilla se ti sapessi sposato!».
Così si era fidanzato, e la madre era morta tre settimane prima del matrimonio. Ma ormai era troppo tardi. Suo padre non vedeva l'ora di ritirarsi nella casa di Fourras. Aveva già comprato una piccola imbarcazione con la quale andava a pescare nelle domeniche d'estate.
«Niente atout?» domandò il suo partner, vedendolo giocare un sei di quadri.
Smarrito, guardò le carte che aveva in mano.
«Scusa... Sì, ce l'ho».
«A cosa stavi pensando?».
«A niente».
Chantreau lo sbirciava di tanto in tanto con occhio indagatore, come dovesse fargli una diagnosi. Nonostante la barba incolta e l'aspetto poco curato, Chantreau era il più intelligente del gruppo, e anche quando aveva bevuto, anzi soprattutto quando aveva bevuto, il suo acume era inquietante.
Il cappellaio esitava a ordinare un terzo aperitivo. Ne aveva bisogno. Stava vivendo, là, davanti ai suoi amici, qualcosa di spaventoso. In apparenza sedeva calmo, con in mano le carte, e si sforzava di seguire il gioco riuscendo a sbagliare il meno possibile.
E all'improvviso qualcosa si scatenò in lui; le sue mani presero a tremare, la vista gli si offuscò, si sentiva fiacco, privo di energia; aveva l'impressione che, se fosse rimasto seduto là, esposto al calore della stufa, avrebbe corso un grave pericolo. Doveva assolutamente alzarsi, muoversi, fare qualcosa.
«Gabriel!».
«Sì, signor Labbé».
Perché Chantreau lo stava guardando? Non aveva il diritto di bersi tre aperitivi? Non vedevano che era perfettamente sobrio?
Forse, nell'appartamento di rue Gargonlleau non c'era più nessuno. Questo gli riportò alla mente il ricordo ignobile di quando aveva fatto l'amore con una donna, nel quartiere delle caserme, subito dopo un soldato. Una cosa simile non poteva certo succedere con la signorina Berthe, che di tutte le donne che conosceva sarebbe stata, secondo lui, la più deliziosa delle mogli. Era dolce, sempre sorridente. Aveva un istintivo rispetto per l'uomo, eppure li conosceva bene, gli uomini, e li trattava con una specie di indulgenza discreta. La sua indole era come la sua pelle, come le curve del suo corpo, come la consistenza delle sue carni, come la cornice che si era creata intorno.
Di lì a poco si sarebbe trovato di fronte a Louise, nella sala da pranzo un po’ tetra, dove la luce elettrica aveva una luminescenza giallastra. E avrebbe dovuto resistere, perché provava di nuovo quell'impulso. Il desiderio di farla finita.
Era una sensazione vaga. Non voleva dir niente. Il problema, adesso, era di capire se l'alcol gli faceva bene o, al contrario, accresceva quel senso di vertigine.
Avrebbe potuto domandarlo a Chantreau. La tentazione era forte.
Che cosa gli impediva di aspettare che Paul si alzasse per andarsene - cosa che non lo avrebbe fatto ritardare di molto - e uscire con lui, come per caso?
«Senti un po', Paul...».
Chantreau, in quanto rigorosamente tenuto al segreto professionale, era ancor meno pericoloso di Kachoudas.
«Devo chiederti un consiglio. Una sera, ho ucciso Mathilde».
Con calma. Avrebbe dovuto spiegargli, soprattutto, che lo aveva fatto con calma, a sangue freddo. Aveva giusto comprato, alla sala d'aste, quei volumi scompagnati sui maggiori processi del XIX secolo, e aveva cominciato con quello della signora Lafarge, di cui conosceva solo vagamente la storia.
Ogni quarto d'ora o quasi, mentre stava seduto davanti al fuoco, si sentiva chiamare da una voce aspra, cattiva:
«Léon!».
Inutile far finta di non sentire. Il tono non ammetteva replica. Da tempo lei aveva adottato quel tono, molto prima di ammalarsi, quasi subito dopo il matrimonio, pressappoco quando aveva cominciato ad assomigliare alla signora Binet. Sì, perché un giorno lui l'aveva scoperta, quella somiglianza, di cui prima non si era accorto. Stessa voce, stessa arroganza; soprattutto, stesso atteggiamento possessivo.
Non aveva scelto Mathilde. Non era stato esattamente così. Aveva appena iniziato un capitolo che lei, senza un gesto, muovendo appena le labbra, chiamava:
«Léon». Lo costringeva ad alzarsi, poi cincischiava un bel po'' prima di dirgli quello che voleva: una volta di portarle un bicchier d'acqua, un'altra di tirarle su oppure giù la coperta, o di passarle il vaso da notte o di darle una delle sue pillole. E aveva sempre o troppo caldo o troppo freddo, oppure la luce le dava fastidio agli occhi...
Non era vero niente. S'inventava tutto di sana pianta, e appena lui tornava a sedersi escogitava qualcosa di nuovo.
Mentre lui obbediva, lo seguiva con uno sguardo cattivo, e non gli diceva mai grazie.
Da tempo diffidava di lui, dal quarto o quinto anno di malattia, ed era convinta che il marito progettasse di avvelenarla per esser libero.
Neanche questo era vero. E non lo pensava realmente. Era solo un'altra invenzione per tormentarlo.
«Hai mangiato ancora cipolla, lo hai fatto apposta per farmi star male con il tuo alito. Stà tranquillo, và là, che non ne ho più per molto!».
Difficilmente riusciva a leggere due pagine senza essere interrotto. Doveva ricominciare due o tre volte lo stesso brano e finiva per confondere nomi e date.
«Léon!».
Sapeva che quel libro lo appassionava, e da quando lo aveva cominciato faceva di tutto per inventare sempre nuovi pretesti.
«Leggimene un pezzo a voce alta».
Era una cosa che lui detestava. Soprattutto perché allora lei chiedeva spiegazioni sui capitoli precedenti, ma siccome non capiva lo costringeva a tornare indietro.
«Léon!».
Non aveva sete. Non aveva bisogno del vaso da notte. Fingeva, e una fiammella perfida le si accendeva nelle pupille.
Lo possedeva, era suo! Non aveva nient'altro al mondo, ma lo teneva ben stretto e aveva continuamente bisogno di assicurarsene. Per questo non voleva che infermiere o domestiche entrassero in camera, o che qualcuno venisse a trovarla. Così poteva sentirlo in sua balia. E lui non aveva scuse per andare a respirare, sia pure per un momento, un'aria diversa.
«Léon!».
In quindici anni, non era riuscito a leggere in pace un solo libro, e dire che gli era rimasto quell'unico conforto!
Della storia della signora Lafarge era arrivato soltanto a metà, esattamente alla testimonianza del farmacista che aveva venduto il veleno.
«Léon!».
Era una storia cupa, senza un raggio di sole. Tutto si svolgeva fra quattro mura soffocanti, e non c'era un solo personaggio che sorridesse, come fanno tutti, almeno una volta.
«Léon!».
Così, una sera si era alzato per davvero e aveva chiuso il libro. Chissà se lei aveva capito che qualcosa, in lui, era cambiato, che finalmente aveva preso una decisione...
«Vedi, Paul, ero calmo, terribilmente calmo. Lo sapevo da un pezzo che sarebbe successo».
Come avrebbe reagito il dottore?
Il cappellaio aveva vinto un piccolo slam, meccanicamente, con la forza dell'abitudine. Chantreau lo fissava di nuovo in modo insistente.
No! Non avrebbe capito. Era fatica sprecata. Del resto, il suo caso non aveva niente a che vedere con la medicina. Non era mica malato, lui. Non era pazzo. Non aveva tare di nessun genere.
«Gabriel!».
Pazienza! Ora pensava meno a Louise, che gli ricordava un grosso piumino di quelli che usano in campagna. La vedeva enorme, come quando si ha la febbre e si sentono le dita, le mani e tutto il corpo gonfiarsi, e si ha l'impressione di riempire tutta la camera.
Sogghignò, perché il giovane Jeantet era al solito posto. Non lo aveva visto entrare. Era là, con i fogli posati sul tavolino di marmo, intento a scrivere con aria compresa.
Doveva sentirsi molto importante.
Fu quella sera, martedì 14 dicembre, che si mise a scrivere.
Non aveva aspettato Chantreau per uscire dal Café des Colonnes.
Al momento di aprire la porta, ricordò di aver pensato:
«Chissà cosa diranno, adesso che me ne vado...».
Perché c'era una cosa che lui sapeva e che non gli faceva certo piacere. Non vi aveva mai fatto allusione, e del resto non era molto importante. Quando parlavano di lui in sua assenza - li aveva sentiti una volta che si trovava lì, a loro insaputa-, non dicevano Labbé, o Léon, ma il cappellaio.
Non valeva neanche la pena di pensarci, naturalmente. Avrebbero potuto rispondergli che dicevano anche il dottore, il senatore, ma era diverso, quei termini suonavano piuttosto come titoli onorifici. Prova ne sia che nessuno si sognava di dire: l'assicuratore o il tipografo.
Risaliva ad almeno dieci anni prima, quella piccola, casuale scoperta; non ne aveva fatto cenno a nessuno e non se l'era neanche presa, segno che la cosa non lo toccava più di tanto.
La rue du Minage era spaventosamente deserta, silenziosa; nessuno camminava né davanti né dietro a lui. La luce accesa alla finestra del piccolo sarto aveva un che di desolato.
Fece quel che doveva, ma per la prima volta lo fece in modo tracotante, con sovrano disprezzo, pronunciando le parole senza credervi, come taluni seguitano a biascicar preghiere.
«La signora ha chiamato?».
Non aveva niente da temere, quella immonda creatura: non le avrebbe torto un capello. Si sentiva sicuro di sé, ora. In ogni caso, non se la sarebbe presa con lei.
Salì, pronunciò qualche parola a fior di labbra. Adempì scrupolosamente ai vari riti, senza dimenticarne alcuno. Cambiò di posto alla poltrona, andò a dare un'occhiata fuori dalla finestra, e la vista della signora Kachoudas che parlava con il dottor
Martens lo turbò. Kachoudas non era nella stanza: probabilmente lo avevano messo a letto. Perché gente come quella si fosse decisa a chiamare il dottore, doveva esserci un motivo grave. Gli tornò in mente il parto dell'ultimo nato, quattro anni prima. Avevano fatto venire la levatrice quando tutto era già finito.
Si vedeva chiaramente che la donna parlava sottovoce, faceva delle domande, e Martens - uno di quelli fra i quaranta e i cinquanta - le rispondeva con un qualche imbarazzo.
Che Kachoudas stesse morendo? Il signor Labbé ne era così spaventato che fu sul punto di scendere per aspettare il dottore in strada e interrogarlo a sua volta.
Uscito Martens, Esther venne di nuovo mandata in farmacia, con una ricetta questa volta, e lui, vedendo che la ragazza esitava, capì subito che aveva paura dello strangolatore. Che assurdità!
Avrebbe voluto gridarle di stare tranquilla, che non correva alcun pericolo.
Mangiò. Portò su il vassoio. Gettò la porzione di Mathilde nel gabinetto e azionò ripetutamente lo sciacquone. Era preoccupato.
Durante quelle operazioni, aveva sul volto l'espressione di chi ha un compito gravoso da compiere e responsabilità pesanti.
Chissà se Louise aveva notato che puzzava di alcol... Una volta gli aveva confidato che suo padre si ubriacava tutte le domeniche; quasi sempre dovevano portarlo di peso sul letto, ed era tanto se gli toglievano gli scarponi!
Non bisognava dimenticare niente. E non dimenticò niente. Scese in cantina a prendere un'altra bottiglia di cognac e dovette passare a meno di due metri da Mathilde, ma non ci pensò neppure.
O meglio, ci pensò nel tornare di sopra, e osservò che il fatto di scendere in cantina, o di ripensare a quello che era successo il 2 novembre, all'indomani di Ognissanti, non lo emozionava per niente.
Se avesse seguito fino in fondo la solita routine, avrebbe dovuto, una volta acceso il fuoco e infilata la vestaglia, mettersi a ritagliare delle lettere per rispondere all'articolo del giornale. Ma era del tutto inutile. Non riusciva neanche a esprimersi, in quello stato.
Andò su e giù per la stanza come un cane che cerca il posto dove lasciarsi cadere, fumò quasi un'intera pipa senza fermarsi, andò ancora una volta a guardar fuori dalla finestra e vide, sedute vicino al tavolo del sarto, le due donne, Esther e la madre, che parlavano sottovoce lanciando di tanto in tanto uno sguardo preoccupato verso la porta in fondo.
Allora, d'un tratto, si sedette davanti al piccolo secrétaire e prese dal cassetto un foglio di carta da lettere con l'intestazione del negozio, perché ormai aveva abbandonato ogni cautela. Si versò un bicchierino di cognac e vi bagnò le labbra prima di scrivere:
«Poco importa quel che si dirà e si penserà...».
Non era vero, dato che si prendeva la briga di mettere nero su bianco. Ma non era neanche del tutto falso. Il suo messaggio aveva un destinatario preciso. Eppure gli sarebbe dispiaciuto che il piccolo sarto se ne andasse al creatore senza sapere.
 Era una cosa terribilmente complicata, e lui aveva mal di testa. Lo aveva avuto per tutto il giorno. Vedendo la propria scrittura si turbò. Colpa dell'alcol, sicuramente, del tremito alle dita: le lettere erano irregolari e alcune si accavallavano.
Faceva molto caldo nella camera, come sempre. Tuttavia gli arrivava come un alito fresco sulla guancia sinistra, che era a un metro dai vetri ghiacciati della finestra.
Quello che avrebbe dovuto dimostrare con chiarezza era che, fino a quel momento, aveva agito con lucidità, in piena coscienza. Gli parve di aver trovato la frase giusta:
«Mi sono assunto, e continuo ad assumermi, tutte le mie responsabilità».
Nemmeno questo era del tutto esatto. Se le era assunte, d'accordo. Ma poteva dirsi certo di assumersele anche in futuro?
Non era proprio questo che lo spaventava?
Sempre, qualunque cosa dicessero, lui aveva accettato le sue responsabilità, tranquillamente. Non era del tutto vero che aveva deciso di fare il cappellaio a causa di quella «Binette» che odiava quasi quanto Louise.
Su questo punto voleva spiegarsi bene. No, significava risalire troppo indietro nel tempo. Non ne sarebbe più venuto a capo. E poi la cosa riguardava solo poche persone. Lui si capiva, aveva le idee molto chiare.
Che cosa aveva riservato la vita, per esempio, alle ragazze della fotografia, alle quindici che erano uscite nello stesso anno dal collegio dell'Immacolata Concezione? Alcune se n'erano andate, altre erano rimaste. E c'era chi si era sposata, chi era rimasta nubile.
Una di loro, di testa sua e per libera scelta, senza che niente e nessuno ve la spingesse, aveva immediatamente fatto voto di rinuncia. Era quella che stava in convento con il nome di Madre Sainte-Ursule.
Ebbene, per gli uomini accadeva lo stesso, a ogni generazione si ripeteva lo stesso fenomeno. Peccato non avere una fotografia di gruppo di quelli che ora erano intorno alla sessantina!
Da una parte, i vari Chantreau, Caillé, Julien Lambert, il senatore Laude, Lucien Arnauld, e pochi altri che non si vedevano mai al Café des Colonnes o ci facevano un salto raramente, ma che erano rimasti fedeli alla loro città.
Dall'altra, quelli che se n'erano andati per tentare la sorte a Bordeaux, a Parigi o altrove. Fra questi, si raccontava di uno che era diventato un altissimo funzionario in Indocina.
Alcuni riapparivano di tanto in tanto, in occasione di un matrimonio o di un funerale, per rivedere la famiglia rimasta nel paese d'origine. Di solito facevano una capatina alle Colonnes, e non resistevano alla tentazione di darsi delle arie.
- Si comportavano in modo confidenziale e insieme un po'' distaccato, con condiscendenza, per farla breve.
«E allora, come vanno le cose da queste parti?».
Soprattutto quelli che avevano avuto successo e dei quali, a volte, parlavano anche i giornali.
«Fate una vita da papi, qui!» sospiravano, lasciando intendere che in realtà non ci credevano affatto.
Fra questi c'era un avvocato, un famoso penalista di cui già si parlava come del futuro presidente dell'Ordine degli avvocati.
Anche il signor Labbé aveva fatto la sua scelta: aveva scelto la cappelleria di rue du Minage. 
Detto fra parentesi, alcuni pensavano che lui ci fosse nato, in quella casa. Ma le cose non stavano così. Era nato, sì, in rue du Minage, in un edificio del tutto simile a quello in cui viveva ora, ma che si trovava a cinquanta metri di distanza. Quando i suoi genitori avevano traslocato, lui aveva otto anni.
Poi la signora Binet lo aveva disgustato, come, quarant'anni dopo, lo disgustava Louise. Tuttavia avrebbe potuto restarsene a Poitiers nonostante lei, oppure andare a Parigi.
Aveva scelto La Rochelle. Non che lo spaventasse l'idea di dover lottare. Non aveva paura, lui, non aveva paura di niente.
Chi aveva scelto di fare il servizio militare in cavalleria pur non avendo mai toccato un cavallo in vita sua? Lui! Aveva persino anticipato la ferma per poter scegliere l'arma.
E durante la guerra del 1914 chi aveva chiesto di essere assegnato all'aviazione?
Ancora lui, Léon Labbé. Quando poi la guerra era scoppiata, a seguito di inesplicabili cambiamenti lo avevano destinato a un reggimento di fanteria. Aveva conosciuto le trincee e sofferto pene di ogni genere, nel fango, nel caos, in mezzo alla massa anonima trattata come carne da cannone.
Una volta entrato nell'aviazione, poi, non aveva mai avuto paura. Al massimo si concedeva un bicchiere di qualcosa di forte per tirarsi su prima di partire in missione con il suo caccia.
Viveva in un mondo a parte, un po’ elitario. Un attendente si prendeva cura di lui, delle sue divise, dei suoi stivali con le stringhe.
E mai un graffio, mai una ferita; erano stati i suoi anni più belli.
Ma se risaliva tanto indietro nel tempo non ne sarebbe mai venuto a capo. Eppure sentiva confusamente che era indispensabile alla completezza del suo dossier.
«Ho sempre scelto deliberatamente, e continuo, continuerò a scegliere» scrisse sulla carta intestata del negozio, mentre sentiva i passi di Louise che saliva per andare a letto.
Quello che aveva fatto non si chiamava abbandonare la lotta, o battere in ritirata, o rinunciare.
Era lui, al contrario, che con il passar degli anni sentiva crescere in sé la commiserazione quando vedeva quelli di Parigi che tornavano alla Rochelle per qualche giorno e si credevano in dovere di pavoneggiarsi.
Era sicuro di aver avuto ragione, di aver preso la strada giusta.
«Più tardi, ho scelto di sposarmi».
Era quasi vero anche questo: perché in casa ci vuole una donna, ed è avvilente dover andare ogni tanto a cavarsi la voglia un po' qua e un po’ là. A quell'epoca, in rue Gargoulleau, non c'era nessuna signorina Berthe e bisognava scendere molto in basso, nel fango.
Non aveva scelto Mathilde. Non era stato esattamente così.
Aveva scelto di non mettersi contro sua madre e di assecondarla perché era ammalata e perché riteneva che, non essendoci una gran differenza fra una ragazza e un'altra, non valesse la pena di perderci del tempo e di dare un dispiacere ad altri.
Dopo aver fondato un club di aviazione civile perché era stato proprio lui a fondarlo -, aveva anche scelto di uscirne quando, scusandosi con lui, gli altri soci avevano eletto presidente l'armatore Borin, in quanto Borin, ricco e potente, aveva migliori probabilità di alimentare la cassa in modo cospicuo.
Avrebbe potuto fare il segretario, o il vicepresidente. Ma aveva preferito ritirarsi.
Non per dispetto, né per mancanza di combattività. Se si fosse preso la briga di opporsi alla candidatura di Borin, l'avrebbe avuta vinta lui. Ma aveva ritenuto, in piena libertà, che il gioco non valesse la candela.
Quella sensazione, che percepiva così chiara dentro di sé, era molto difficile da esprimere. La sensazione che ci fosse, nella sua vita, come una linea continua che avrebbe potuto tracciare con la penna. Solo che le parole confondevano tutto, dicevano troppo o troppo poco.
E quella schifosa di Louise che ricominciava, nella sua camera, col solito, ripugnante trambusto di ogni giorno! In uno spazio di otto metri quadrati, faceva da sola tanto fracasso quanto ne avrebbe fatto un'intera camerata di soldati. Si sentivano le sue scarpe piombare una dopo l'altra sul pavimento, s'indovinava il vestito che lei si sfilava dalla testa sbuffando, e poi la faccia che ne emergeva tutta arrossata; gli pareva di vederla, tolto il reggiseno, strofinarsi i seni: vedeva perfino il segno rosso che l'elastico delle mutande le lasciava intorno alla vita.
Quella di non andare a letto con lei era stata un'altra sua scelta. Sarebbe stato facile. Chissà, forse lei se lo era sempre aspettato... E lo avrebbe lasciato fare, docilmente. Certo, si doveva chiedere come mai lui non fosse ancora salito in camera sua...
Forse aveva intuito che, all'inizio, era stato sul punto di farlo, e che era ancora irritato con se stesso per quella tentazione...
Lo chiamavano il cappellaio, come fosse un insulto, o quanto meno una parola ridicola, qualcosa di comico.
Lui, invece, aveva sempre scelto, in ogni circostanza. Dunque era lui il più forte, no?
Aveva scelto anche di farla finita con Mathilde, e davanti al suo cadavere non aveva provato nessuna emozione, nessun rimorso.
Neanche per un attimo, mentre la strangolava e lei lo fissava più stupita che spaventata, Si era turbato.
Forse, in realtà, nel suo inconscio la cosa era decisa da tempo. Aveva detto a se stesso:
«Se oltrepassa i limiti...».
Li aveva posti molto in là, quei limiti, per darle un'opportunità. Aveva pazientato per quindici anni. Le aveva dato tanto spago che lei aveva pensato di potersi permettere tutto.
Non l'aveva ammazzata per via della signora Lafarge, ma perché aveva oltrepassato i limiti.
Louise, che era nuova della casa, dormiva ancora in una camera che lui le aveva preso in affitto fuori, una mansarda in place du Marché, sopra un negozio di tessuti.
Dopo, aveva avuto davanti a sé tutta la notte e se l'era presa comoda, per non lasciar niente al caso.
Il pavimento della cantina non era rivestito di cemento. Un buon terzo della superficie, sotto la finestrella, era occupato dal carbone.
Lui si era dato energicamente da fare per liberare in parte quello spazio e scavare fino a circa un metro di profondità.
Aveva portato giù a spalla il corpo di Mathilde, impresa non facile sulla scala a chiocciola, poi era risalito a prendere un lenzuolo in camera, per un senso di pudore.
Non aveva neppure dimenticato, durante il lavoro, di oscurare la finestrella, perché qualcuno avrebbe potuto meravigliarsi nel vedere la luce accesa in cantina per l'intera notte.
Alle cinque del mattino era tutto finito: il carbone di nuovo al suo posto, la finestrella liberata dal drappo che la oscurava.
Aveva lavato a uno a uno i gradini della scala, poi, nella vasca, i propri vestiti.
A quel punto, aveva pensato che il suo compito fosse concluso e non si era più curato di prendere alcuna precauzione, cosa relativamente facile in quanto Mathilde non voleva vedere nessuno e da anni lui era il solo essere umano a entrare nella sua stanza.
«Alcuni sosterranno che ho voluto riprendermi la mia libertà. É una sciocchezza».
Sapeva benissimo, prima di agire, che non sarebbe stato affatto più libero di prima, dal momento che doveva comportarsi come se sua moglie fosse viva, e dunque compiere quotidianamente gli stessi gesti, restare a casa nelle stesse ore.
Mathilde aveva oltrepassato i limiti: tutto qui, non c'era altro da dire.
Il primo giorno, si era sentito quasi allegro. Era divertente portare su il vassoio e gettare il pasto nel gabinetto, continuare a non mangiar pesce perché Mathilde non ne sopportava neanche l'odore, tirare la cordicella per imitare i colpi del bastone sul pavimento, sospingere la testa di legno piazzandola davanti alla finestra e parlare da solo andando su e giù per la stanza.
«La signora ha chiamato?».
Valentin non aveva mai sospettato niente. Neanche Louise. In ogni caso, non lo aveva dato a vedere.
Il quinto giorno, però, qualcosa lo colpì: la fotografia del gruppo, che era rimasta appesa alla parete. Allora, d'un tratto, perse il suo sangue freddo, impallidì, ed ebbe realmente paura.
Perché non era del tutto vero che nessuno entrava nella camera.
Da quando Mathilde aveva dovuto mettersi a letto, ogni 24 dicembre, giorno del suo compleanno, le compagne di collegio che abitavano ancora in città venivano a farle gli auguri e a portarle dei regali.
Erano ormai donne anziane o zitelle stagionate, ma in quell'occasione cinguettavano come delle ragazzine.
Aveva dovuto ponderare bene la situazione. Poteva andarle a trovare una dopo l'altra, qualche giorno prima di Natale, e informarle che Mathilde non stava bene e preferiva non vedere nessuno.
Ma avrebbe dovuto ricominciare l'anno seguente, e gli altri anni ancora, finché non fossero morte tutte, e alla fine la cosa sarebbe sembrata sospetta.
Aveva davanti a sé sei settimane. Conosceva la storia e le abitudini di ciascuna; era, si può dire, l'unico argomento di conversazione di Mathilde. Quando stava bene, non la finiva più di raccontare episodi della vita di collegio, e lo faceva con grande passione, come se fossero accaduti il giorno prima. Le capitava ancora, dopo più di quarant'anni, di sognare Madre Sainte-Joséphine.
«Questa notte ho sognato che AnneMarie Lange mi diceva...».
Spesso saltava, di punto in bianco, dal passato al presente.
«Mi domando se Rosalie Cujas sia felice. In questo momento dev'essere nel suo negozio, in rue des Merciers...».
Aveva riflettuto a lungo. La cosa più stupefacente, al momento della morte di Mathilde, era la rapidità con cui il tutto si era compiuto.
Le altre erano in buona salute, è vero, ma avevano pur sempre la sua stessa età, o quasi. Gli ci erano voluti diversi giorni per escogitare quella trovata della corda di violoncello; era andato a prenderla al secondo piano, passando per la stradina.
Aveva fatto la sua scelta. E non aveva optato, vigliaccamente, per la via più facile. Aveva preso in considerazione tutte le possibilità, e quello che aveva deciso di fare non era particolarmente gradevole.
«Giuro di non aver provato nessun piacere morboso» scrisse intorno alle dieci e mezzo di sera.
Non era ubriaco. Era convinto che l'alcol non c'entrasse affatto in ciò che sentiva, tant'è vero che la stessa sensazione l'aveva provata fin dal mattino, e anche la sera prima, sul quai Duperré, quando il piccolo sarto gli stava alle calcagna.
Gli venne alla mente un paragone e subito lo annotò, perché gli sembrava utile, ormai, registrare tutto. Sapeva che probabilmente l'indomani ne avrebbe conservato un ricordo molto vago.
E invece bisognava appunto che tutto fosse estremamente nitido.
Quando era piccolo, aveva una vista eccezionale: le immagini, per lui, erano sempre perfettamente chiare, ogni cosa si delineava con precisione, i contorni degli oggetti, i colori, i più piccoli dettagli.
A quell'epoca, aveva ancora la nonna; era la madre di suo padre, e portava degli occhiali dalla montatura d'argento.
Occhiali spessi come lenti d'ingrandimento, che a volte lui si divertiva a inforcare, e subito le cose assumevano contorni sfumati, le proporzioni cambiavano, e gli sembrava di vedere il mondo come attraverso una goccia d'acqua.
Fino all'incidente del Vescovado - o meglio, all'assenza di incidente, dato che non era successo nulla -, tutto era stato perfettamente chiaro, e addirittura più chiaro di prima, a tinte ben definite - bianco e nero, senza sfumature di sorta - e con contorni netti.
Lui andava dritto per la sua strada, faceva quello che aveva deciso di fare, non aveva nessun bisogno di bere per farsi coraggio, anzi, un'idea simile non gli passava neanche per la mente.
Quando rincasava, cancellava mentalmente un nome sulla lista e un volto sulla fotografia, con la soddisfazione di chi ha portato a termine il compito che si è imposto.
Quel periodo della sua vita gli appariva ora uno dei più felici, dei più completi, un po’ come quello che aveva passato nell'aviazione, quando, come adesso, si metteva tranquillamente a contare gli aerei nemici abbattuti e le medaglie guadagnate.
Proprio come allora, sfiorava continuamente il pericolo. Doveva pensare a tutto, avere ottimi riflessi, non lasciar niente al caso.
E come durante la guerra, diceva a se stesso:
«Fra qualche settimana tutto sarà finito e me ne starò in pace».
Non aveva incubi né turbamenti. Si era abituato a quella vaga eccitazione che lo assaliva al momento di uscire per una delle sue «spedizioni», e alla sensazione di sollievo che provava poi rientrando a casa.
Se quel lunedì Madre Sainte-Ursule fosse uscita, come avrebbe dovuto fare, e lui avesse esaurito la lista, forse sarebbe stato ancora così, chissà...
Continuava a scrivere, con movimenti nervosi della mano che non riusciva a controllare:
«Niente è cambiato poiché, in realtà, la morte di Madre Sainte-Ursule è inutile. Non è mai venuta in casa, e il 24 di questo mese si limiterà, come gli altri anni, a mandare gli auguri e un santino. E sono stato sempre io a rispondere, a nome di Mathilde, per ringraziarla.
«Non ho alcuna ragione, d'altra parte, per avercela con lei, né sono minimamente interessato alla sua morte.
«Di conseguenza, il mio compito è concluso. Ho fatto esattamente quello che mi ero imposto di fare».
Non era vero, e a questo punto cominciò a turbarsi, a frugare in qualche modo nei recessi della propria coscienza, inquieto, a disagio.
Adesso doveva bere per conservare il suo sangue freddo, per non sentirsi cedere i nervi anche stavolta, per scongiurare quel panico interiore che non aveva niente a che fare con la paura.
Perché lui non aveva paura di nulla, neppure di essere arrestato. Anzi, così avrebbe avuto un'ottima occasione per spiegarsi. Bastava che stessero ad ascoltarlo, e lui si sarebbe spiegato con calma.
Qualche volta gli era capitato di voler commettere un'imprudenza, di volerla commettere apposta, per sfiorare il pericolo, come faceva con il suo aereo, quando passava a volo radente sulle trincee nemiche malgrado il regolamento.
Quello che bisognava sottolineare, che era importante, più importante di qualsiasi altra cosa al mondo, è che non aveva mai smesso di essere lucido.
Perché allora, di colpo, senza una ragione, il meccanismo si era inceppato? Non si faceva illusioni. Per un attimo ne aveva attribuito la causa a un attacco di influenza, ma non era così.

Valentin sì che era raffreddato, e Kachoudas ammalato. Ma lui no.
Eppure, tutt'intorno, il mondo stava diventando molto simile a quello che lui vedeva un tempo, quando metteva gli occhiali della nonna.
Non era andato dalla signorina Berthe nello stato d'animo abituale. Doveva essere sincero con se stesso: non aveva nessuna voglia di far l'amore.
Ma neppure aveva deciso di fare qualcos'altro, e non si era messo in tasca la corda di violoncello.
Proprio questo era grave.
Come per Louise. Non le aveva fatto niente, era convinto che non le avrebbe fatto niente, ma la tentazione era sempre lì, non nella sua mente - se ne infischiava, lui, di quella stupida-, ma in chissà quale anfratto della sua carne.
Era stato perfido, Jeantet, a riportare le parole dello psichiatra di Bordeaux:
«Smetterà di uccidere solo quando verrà preso».
Perché? Quell'uomo non lo aveva mai visto, non sapeva niente di lui, e si permetteva, da lontano, dall'alto, di sentenziare sul suo destino con una supponenza diabolica.
Si alzò per guardar fuori dalla finestra: nella casa di fronte c'era sempre la luce accesa. La signora Kachoudas era sola, assopita nella poltrona di vimini. Sul tavolo da lavoro del sarto avevano messo una sveglia.
Dunque era grave. Oppure doveva prendere una medicina a intervalli regolari. Forse si trattava di polmonite. Il signor Labbé era sicuro che il piccolo sarto aveva rifiutato di lasciarsi portare all'ospedale. Quella è gente che sta abbarbicata alla propria casa, lì nasce e lì muore.
Perché l'idea che il suo vicino potesse morire lo gettava nel panico? Kachoudas non gli serviva a niente. Si conoscevano appena. Ed ecco che invece sembrava quasi aggrapparglisi.
C'era qualcosa che non funzionava. Tutto era fuori squadra. Per tre volte, quella sera, aveva giurato a se stesso che non avrebbe più bevuto prima di andare a letto, e ogni volta si versava un altro bicchiere di cognac.
Aveva lasciato spegnere il fuoco, riempito due pagine di una scrittura che solo a vederla gli causava un profondo disagio.
Quando aveva cominciato a scrivere così male saltando alcune lettere, accavallandone altre? Aveva sentito parlare di grafologia. Ne avevano discusso al Café des Colonnes. Ricordava che Paul Chantreau aveva detto:
«In questo campo c'è molta esagerazione, ma anche un fondo di verità scientifica. Quelli che sostengono di poter conoscere il passato e l'avvenire di una persona dalla sua scrittura sono dei ciarlatani o degli ingenui. Sta di fatto, però, che vi si può leggere il carattere di un uomo e, spesso, il suo stato di salute. Un malato di cuore, per esempio, non scrive come un tubercolotico...».
Ma cosa gl'importava di quei discorsi? Non era mai stato ammalato, lui, tranne il solito mal di gola una volta all'anno. E il suo cuore era sanissimo. Gli avevano fatto una visita molto accurata giusto sei mesi prima.
Doveva smettere di bere: era pericoloso, gli logorava i nervi.
Già prima, al caffè, Chantreau lo aveva guardato in modo strano.
E poiché il suo compito poteva dirsi concluso, non avrebbe neanche più letto i giornali. Continuasse pure, Jeantet, a rimuginare sul suo caso. Quanto agli altri giornalisti, dato che non sarebbe più successo niente, avrebbero finito per stancarsi.
All'inizio erano in sei o sette, tutti arrivati da Parigi; si erano sistemati all’Hotel des Étrangers e avevano scelto come quartier generale il Café de la Poste, di fronte al municipio.
Poiché la cosa andava per le lunghe, alcuni erano ripartiti, ma dovevano essercene rimasti almeno tre, fra cui un fotografo che si vedeva girare per le strade con il suo bravo apparecchio ciondoloni sulla pancia e un'enorme pipa in bocca.
C'erano poi i corrispondenti di un giornale di Bordeaux e di uno di Nantes, ma questi abitavano in città e passavano la maggior parte del loro tempo in un bar nei pressi della Grosse Horloge. Tutti e due conoscevano il signor Labbé e lo chiamavano per nome.
Bastava resistere. Tutto quello che aveva scritto era un'idiozia. Non ci si capiva niente. Non aveva trovato le parole giuste. Aveva creduto di essere più chiaro insistendo su certi punti che però avevano senso solo per lui.
Avrebbe ricominciato, ripercorrendo tutto da capo, con calma, a mente fresca. Probabilmente, nessuno avrebbe mai letto quelle righe. Ma non aveva importanza. Quelle cose lui aveva bisogno di dirle, anche solo per se stesso.
Il fuoco si era spento, già il freddo invadeva la stanza, e a malapena il cappellaio si rendeva conto che stava andando incessantemente su e giù, con le mani in tasca, che le lancette della sveglia giravano e che era molto più tardi del solito.
Era sufficientemente calmo?
Buttò giù un altro sorso e si sentì meglio. Tutto si sarebbe sistemato, ne era sempre più convinto. Il piccolo sarto sarebbe guarito. Forse un giorno gli avrebbe parlato, con semplicità, con la massima semplicità.
Gli avrebbe detto, per rassicurarlo, per ridargli la pace:
«É finita, Kachoudas. Non ci pensi più».
Strano, gli sembrava che fosse colpa sua se il piccolo sarto si era ammalato, e questo lo addolorava. Gli sarebbe piaciuto avere sue notizie. Che cosa gli impediva, l'indomani, di andare a chiederne? Erano vicini di casa, ogni mattina si salutavano, uno al di qua e l'altro al di là della strada. Sentendo il campanello della porta d'ingresso, la signora Kachoudas sarebbe scesa ad aprirgli.
Poi avrebbe detto al marito:
«Il cappellaio è venuto a sentire come stai».
Kachoudas avrebbe avuto paura. Chissà cosa sarebbe andato a pensare... Era impossibile. Non doveva farlo.
Non doveva far niente, se non attenersi al solito orario, ai soliti gesti. Seguire scrupolosamente il solito programma, e basta!
Tese l'orecchio. Aveva in mano la bottiglia di cognac. L'ultimo sorso. L'indomani l'avrebbe gettata nella pattumiera e si sarebbe limitato a bere i due aperitivi quotidiani, durante la partita di bridge.
Qualcuno stava camminando, in casa. Era un rumore insolito.
Come un fruscio contro la porta.
E una voce sguaiata proferì:
«Vuol lasciarmi dormire in pace, sì o no?... Che cos'ha da andare su e giù tutta la notte come una belva in gabbia?».
Restò un attimo immobile, assolutamente immobile. Non si trovava lontano dalla porta, gli bastava allungare il braccio per girare la chiave nella toppa.
«No, non devo farlo, a nessun costo!».
Lo fece. Spalancò la porta e intravide, nel riquadro che la incorniciava come un dipinto, Louise, con indosso una camicia da notte bianca di flanella, i capelli sciolti sulle spalle, scalza - ecco perché i suoi passi non facevano il solito rumore: era a piedi nudi!
Lui aveva sempre in mano la bottiglia, e proprio quella la ragazza fissò dapprima, con stupore. Poi guardò in faccia il cappellaio. Non capiva. Non aveva ancora paura. Senza rossetto, aveva le labbra stranamente pallide. I suoi seni, sotto la camicia da notte, erano gonfi come le mammelle di una mucca.
Lui non si mosse. Era sempre assolutamente immobile, e forse in tutto quel tempo non respirò neppure.
Lei ora vedeva, dietro di lui, l'interno della camera, e il suo sguardo, passando sopra i due letti vuoti, si soffermò sulla poltrona, sulla testa di legno.
Allora spalancò la bocca per un grido che non uscì. Ebbe l'impulso di fuggire, di darsela a gambe - e lui se ne accorse -, ma non riusciva a muoversi, era come paralizzata.
Fu il cappellaio a scuotersi per primo dalla sua immobilità. La bottiglia di cognac esplose in mille pezzi sul pavimento.
Invece di resistere, Louise si afflosciò a terra, e lui le cadde sopra, con la testa sul pianerottolo e un piede imprigionato fra le sbarre della ringhiera.
Era ancora calda e madida; le sue ascelle emanavano un odore molto forte. Con una mano aveva afferrato l'orecchio del cappellaio come se volesse strapparglielo.
Quando il signor Labbé si rialzò, barcollava. Ebbe appena la forza di entrare in camera e di lasciarsi cadere sull'orlo del letto di Mathilde senza richiudere la porta.
Non guardò l'ora. Non avrebbe mai saputo per quanto tempo era rimasto così. Gli era sembrato di precipitare verso il fondo di un abisso, come in un incubo, e stava lì a fissare lo scendiletto senza trovare la forza di alzare la testa.
La prima sensazione precisa che ebbe fu una sensazione di dolcezza e di tepore: il sangue che gli colava dall'orecchio squarciato scendeva lungo il collo facendogli il solletico.
Mosse un po’ la testa e vide i piedi nudi, le gambe e il ventre nudi di Louise, la sua camicia strappata.
La bottiglia di cognac era in mille pezzi. Come in trance si alzò, corse in bagno per bere un bicchier d'acqua, ed ebbe appena il tempo di chinarsi sulla tazza del water per vomitare.
Neanche quella mattina poté lanciargli, di là dalla strada, un:
«Buongiorno, Kachoudas».
Il sarto non stava sicuramente meglio. Le bambine erano andate a scuola, ma Esther, la maggiore, non sembrava affatto intenzionata a recarsi al lavoro. Alle otto e mezzo, non aveva neppure cominciato a vestirsi e stava invece facendo le pulizie mentre la madre, con ogni probabilità, prendeva un po’ di riposo.
Era giorno di mercato. Si sentiva un brusio proveniente dalla zona del mercato coperto, e in rue du Minage c'erano già alcune vecchie, sempre le stesse e sempre allo stesso posto, con il loro seggiolino pieghevole e i loro cesti di ortaggi, castagne, pollame vivo.
Quando Valentin arrivò, il signor Labbé stava finendo di spazzare il negozio e, dalla porta aperta, spingeva la sporcizia nella strada. Il commesso non notò niente di anormale. Con la sua voce grave (aveva una bella voce), il padrone gli disse:
«Buongiorno, Valentin. Come sta oggi?».
E intanto lo guardava con sincero interesse.
«Mi sembra che vada un po’ meglio, signore» rispose il giovane, tutto rosso e tirando su col naso. «Ho ancora un po’ di tosse, ma la mamma dice che così mi libero del catarro».
In casa, tutto sembrava in ordine. La stufa a gas era accesa.
Il signor Labbé appariva calmo e abbastanza di buon umore; gli capitava di esserlo, ogni tanto. E in quei giorni trattava Valentin con fare paterno, gli parlava con voce più dolce, cercava persino di farlo ridere.
Era come sempre rasato di fresco e indossava una camicia pulita, scarpe ben lucidate e una cravatta perfettamente annodata.
«Sono piuttosto preoccupato, Valentin... Ieri sera, mentre ero su con mia moglie, ho sentito Louise che usciva. Ho pensato che avesse un appuntamento con qualche innamorato all'angolo della strada, e ho aspettato un po’ prima di mettere il catenaccio. Ma adesso vedo che non è rientrata...».
«Pensa che sia stata strangolata?».
«Mah... In ogni caso, avvertirò la polizia».
Ancora una volta, faceva quello che doveva fare. Contrariamente alle sue previsioni, non aveva né la faccia gonfia del giorno prima né lo sguardo sfuggente. Le mani non gli tremavano. Era assolutamente tranquillo, senza traccia di quell'irrequietezza che prende quando si e dormito male.
Perché aveva dormito. Quando era uscito dal bagno si era seduto nella poltrona, davanti al caminetto spento, e mai, in tutta la sua vita, si era sentito così svuotato. Non si era infatti svuotato, letteralmente, in tutti i modi possibili?
Non guardava niente, non pensava a niente, e meno di cinque minuti dopo era sprofondato in un sonno privo di sogni. Quando aveva aperto gli occhi, la sveglia sul caminetto segnava la solita ora di quando si alzava, e anche lui era già come adesso, calmo, molto calmo, un po’ lento nei movimenti, con una grande stanchezza dentro ma anche un immenso sollievo.
Il suo cervello si mise all'opera come niente fosse. Aveva bisogno di riflettere, di fare il punto della situazione, ma senza prendere le cose sul tragico.
Era troppo tardi per portare il corpo giù in cantina, e del resto non se la sentiva, in quel momento, di spostare il mucchio di carbone. Aveva trascinato Louise in camera afferrandola per i piedi e l'aveva spinta sotto il letto di Mathilde. Inutile nasconderla: se qualcuno fosse entrato nella camera, tutto sarebbe inevitabilmente venuto fuori. Non era lei che contava.
Era Mathilde. Tuttavia, preferiva non vederla ogni volta che gli sarebbe toccato andare di sopra.
Accese il fuoco, fece quello che doveva fare come le altre mattine, e in più si preparò il caffè. Arrivò persino a parlare mentre andava su e giù per la camera, anche se quel giorno non era affatto necessario farlo.
Di fronte, c'era ancora la luce accesa. La signora Kachoudas, che quella notte non era neanche andata a letto, preparava con aria stanca la prima colazione.
Quello che gli pesò di più fu andare nella camera di Louise, ma era indispensabile. Il letto era disfatto, le lenzuola sporche.
Dovette rifarlo. Il pettine era pieno di capelli. L'odore, nauseante. Vestiti e biancheria erano buttati un po’ dappertutto alla rinfusa, e in un angolo c'erano due valigie, di quelle a buon mercato.
Meglio non sostenere che se n'era andata portandosi dietro tutte le sue cose. Bastava far sparire i vestiti che indossava il giorno prima, badando a non dimenticare niente: calze, scarpe, mutande, reggiseno, sottoveste, vestito. Anche il cappotto, perché, col freddo che c'era, non sarebbe certo uscita senza.
Per poco non rovinò tutto. Stava già per scendere quando, per puro miracolo, gli vennero in mente le forcine, e fu quello che più gli ripugnò di toccare. Le gettò nel gabinetto, come faceva di solito con i pasti di Mathilde. Quanto ai vestiti, si era limitato a cacciarli sotto al letto insieme al cadavere.
Aveva dimenticato qualcosa? Tornò nella camera di Louise, aprì il cassetto del comodino, vide una scatola dal coperchio incrostato di conchiglie. Conteneva degli anellini e dei braccialetti, di quelli che si comprano alle fiere di paese, due o tre cartoline, una chiave, probabilmente di una delle valigie, qualche monetina e la fotografia di un giovanotto dalla capigliatura ispida e ribelle, un contadino vestito a festa che si era fatto fotografare su un aereo di cartone dipinto. La lasciò dov'era.
Nient'altro. Per il resto, era un rischio da correre, ma lui aveva fiducia. Quello che invece lo preoccupava era la malattia di Kachoudas. Per due volte sorprese la signora Kachoudas mentre, dalla finestra di fronte, guardava in direzione della cappelleria.
Il piccolo sarto si era confidato con lei? O le aveva domandato, semplicemente:
«Che cosa fa il signor Labbé?».
Chissà, forse Kachoudas stava delirando... E magari, sapendo di essere così grave, aveva chiesto alla moglie di chiamare un prete.
Il signor Labbé aveva voglia di andarlo a trovare, ma non c'era neanche da pensarci: sarebbe parso troppo strano dati i rapporti esistenti fra loro.
Tuttavia, continuava in qualche modo ad accarezzare quell'idea.
«Sarò qui fra una mezz'ora, Valentin. Non credo che mia moglie chiami nel frattempo».
«Bene, signore».
Mise cappello e cappotto e per un attimo pensò di eliminare la corda di violoncello. Pensò anche alla cordicella che, dal fondo dell'armadio, azionava il segnale
proveniente dal primo piano. Ma a che pro? Se avessero cominciato a perquisire la casa, sarebbero comunque arrivati a scoprire la verità.
Il sole era già quasi tiepido e la città, quella mattina, aveva un aspetto molto allegro. Il signor Labbé non aveva bevuto. Se n'era ben guardato. Ne aveva avuto voglia solo per un attimo.
Attraversò la place d'Armes in diagonale, prese la rue Reaumur e raggiunse l'edificio in cui Pigeac aveva il suo quartier generale. Non era un vero e proprio edificio pubblico, ma una casa privata, molto spaziosa e molto bella, di recente adibita a uffici. Al pianoterra c'erano i locali della Previdenza sociale, dove lavoravano soprattutto delle ragazze.
Salì al primo piano. Una porta era aperta. Tre uomini si agitavano in una densa nuvola di fumo. La stufa non funzionava e ricacciava tutto il fumo nella stanza, tanto che si erano dovute aprire le finestre che davano sul cortile. Pigeac aspettava, con indosso il cappotto e col cappello in testa, seduto sull'orlo della scrivania.
«Tò!» fece. «Il cappellaio!».
«Buongiorno, signor Pigeac».
Una seconda porta aperta dava su una stanza da bagno in cui campeggiava ancora una vasca e dove ci si era limitati a montare delle scaffalature che erano piene zeppe di fascicoli. 
Il signor Labbé tossì, per via del fumo. Anche Pigeac tossiva, mentre i suoi due ispettori armeggiavano intorno alla stufa.
«Mi scusi se la ricevo così... Sono quindici giorni che ho chiesto di mandarmi qualcuno a pulire il camino e non ho visto ancora nessuno. Vuole che andiamo a parlare sul pianerottolo?».
Il tono e l'ambiente non incutevano alcun timore, al contrario.
«Qual buon vento la porta, signor Labbé?».
«Ho paura, signor commissario, che si tratti di un vento cattivo. A dire la verità, non ne so niente, e forse faccio male ad allarmarmi».
Era abbastanza sicuro di sé da riuscire a pesare accuratamente ogni parola.
«Non devo essere il primo a disturbarla inutilmente, dopo quel che è successo. Ho una domestica, come tutti, una ragazza di campagna, di Charron, per l'esattezza. Lei è al corrente, credo, dello stato di salute di mia moglie... Da anni non vuol vedere nessuno e vive chiusa nella sua stanza. Per questo, fino a poco tempo fa, la domestica dormiva fuori, in una camera che le avevo preso in affitto in place du Marché».
Pigeac lo ascoltava guardandolo con attenzione, anzi perfino con una certa insistenza, ma guardava tutti così, pensando in quel modo di darsi maggiore importanza. Si sentiva il cicaleccio delle impiegate che lavoravano giù, negli uffici della Previdenza sociale.
L'atmosfera era tutt'altro che solenne.
«Da quando la gente ha cominciato a spaventarsi per via di quei delitti, la ragazza mi ha chiesto il permesso di dormire in casa, per non essere costretta a uscire quando fa buio. Malgrado la riluttanza di mia moglie, ho dovuto accettare, altrimenti ci avrebbe piantati in asso».
«Da quanto tempo dorme in casa vostra?».
 «Da tre settimane circa. Se ricordo bene, è stato subito dopo la morte della signora Cujas».
«La camera della ragazza si trova al suo stesso piano?».
«Al primo, sì, e dà sul cortile. Ieri sera, intorno alle nove, ma non potrei giurare sull'ora perché mi stavo occupando di mia moglie, l'ho sentita che scendeva. Ho pensato che avesse dimenticato qualcosa in cucina, o che andasse a prepararsi una bevanda calda...».
«Lo faceva normalmente?».
«No, e per questo ho cominciato a preoccuparmi e sono sceso anch'io in cucina. Ma non c'era. Ho visto che la porta non era chiusa con il catenaccio, mentre io, prima di salire, lo avevo messo. Così ho capito che era uscita».
«E non è rientrata?».
«No. Né stanotte né questa mattina. L'ho aspettata fino a tardi. La sua camera è esattamente com'era ieri, e il letto non è disfatto».
«Ha portato via le sue cose?».
«Non mi pare. Ho visto due valigie e degli abiti nell'armadio».
«Era una ragazza seria?».
«Non ho mai avuto niente da ridire, da quel punto di vista».
«Era la prima volta che usciva di sera?».
«Da quando abitava da noi, sì».
«Vengo con lei».
Pigeac entrò nell'ufficio sempre invaso dal fumo e disse due parole agli ispettori. Poi, sulle scale, cedette il passo al signor Labbé. Era corretto, ma un po’ sulle sue. In strada, forse senza pensarci, fece in modo di avere il cappellaio alla sua destra.
«Conosce la famiglia della ragazza?».
«So solo che i genitori sono modesti contadini di Charron.
Andava a trovarli ogni domenica, partiva al mattino e rientrava alla sera».
«A che ora?».
«Con la corriera che arriva in place d'Armes alle nove. E alle nove e cinque, invariabilmente, la sentivo rientrare».
Passarono davanti al Café des Colonnes, e Gabriel, che stava strofinando i vetri col bianco di Spagna, li salutò.
Procedevano di pari passo. E il signor Labbé provava una sensazione curiosa ad attraversare la città in compagnia del commissario. Non doveva assolutamente mostrarsi impacciato né troppo loquace.
«Forse è tornata e la troviamo a casa» disse Pigeac.
«Può essere benissimo. Se non fosse per tutto quello che è capitato nelle ultime settimane, non l'avrei certo disturbata».
«No, no, ha fatto bene».
Ecco. Soprattutto, non bisognava agitarsi. C'erano novanta probabilità su cento che tutto filasse via liscio. Tuttavia, scorgendo da lontano la casa di Kachoudas, la mente del signor Labbé fu attraversata da un pensiero inquietante.
Il piccolo sarto non era là a vederlo, ma sua moglie sì, e poteva benissimo accorgersi dei due uomini. Chissà se si era alzata... Certo, non doveva aver riposato a lungo. La gente come quella non lo fa mai. Anche Esther poteva riconoscere Pigeac, la cui foto era stata pubblicata più volte sul giornale, e che probabilmente era andato spesso al Prisunic.
Bastava che una di loro dicesse a Kachoudas:
«Tò, il commissario è entrato dal cappellaio...».
E, malgrado la febbre, il piccolo sarto si sarebbe preoccupato, temendo di veder svanire il premio di ventimila franchi, e forse, chissà, si sarebbe fatto avanti...
«Si accomodi, commissario».
Subito un'ondata di calore li avvolse. Il signor Labbé ci era abituato, come pure alla penombra che regnava in tutta la casa, e agli odori. Ma era così particolare, quell'odore, da far dilatare le narici a Pigeac?
«Valentin, il mio commesso. É arrivato alle nove, come al solito, e non sa niente».
Pigeac avanzava con le mani in tasca e la sigaretta incollata al labbro inferiore.
«Penso che lei voglia dare un'occhiata alla camera...».
L'altro lo seguì senza dire né sì né no e salì dietro di lui su per la scala a chiocciola.
«Questa è la camera di mia moglie... Sono quindici anni che non esce da quella porta».
Parlava a voce bassa e il commissario lo imitò. Strano: aveva l'aria un po’ nauseata, come l'avrebbe probabilmente avuta il cappellaio se gli fosse capitato di sentire gli odori di casa Kachoudas.
«Di qua...».
Percorsero il corridoio e il signor Labbé aprì la porta della camera di Louise.
«Ecco. Avrei potuto sistemarla al secondo piano, dove ci sono delle camere più grandi, ma a quelle si accede solo dall'esterno, e non sarebbe stato pratico».
Pigeac si guardava intorno con sussiego; tirò fuori di tasca una mano per aprire l'armadio. Aveva tenuto il cappello in testa.
Toccò svogliatamente un abito rosa confetto, una gonna di velluto nero piuttosto lisa, due camicette bianche appese su delle grucce. Per terra c'era un paio di scarpe di vernice, e ai piedi del letto, sul tappetino, delle ciabatte sformate, proprio da buttar via.
«In poche parole, non ha portato via niente...».
«Come vede».
Purché aprisse il cassetto del comodino e trovasse la fotografia dentro alla scatola con le conchiglie!
Lo fece.
«Ha già visto questo giovanotto nei paraggi?».
Il signor Labbé finse di osservare la foto con interesse.
«Le confesso che non me ne ricordo... No».
«Era al corrente che aveva un innamorato?».
«No. Non le badavo molto. Era piuttosto chiusa, musona».
«Porto via la foto».
La infilò nel portafoglio, provò la chiave sulle valigie, ma non corrispondeva a nessuna delle due. Forse era la chiave di un armadio di casa sua, a Charron...
«La ringrazio, signor Labbé».
Scese, ma quando arrivò giù, in negozio, si fermò di colpo.
«Forse farei bene a dare un'occhiata in cucina... Queste ragazze cacciano le loro cose un po’ dappertutto».
A quell'ora la sala da pranzo era più buia del resto della casa, e il commissario parve davvero disgustato.
«É qui?» domandò penetrando nel bugigattolo che serviva da cucina. Ma anche lì dentro non trovò niente.
«Posso offrirle qualcosa? Ho dell'ottimo bianco giù in cantina...».
«No, grazie».
Non fece commenti. Non ne era il tipo. E non ne fece neanche il signor Labbé. Era perfettamente calmo, perfettamente disinvolto.
«Non credo di dover avvertire la famiglia... Ci penserete voi, vero?».
«A proposito, come si chiama la ragazza?».
«Chapos. Louise Chapos».
Annotò il nome sul taccuino, che richiuse con un elastico, e prima di uscire si riabbottonò il cappotto. L'unico a essere impressionato era il povero Valentin. Quando la porta a vetri fu richiusa, guardò allontanarsi Pigeac e domandò:
«Il commissario pensa che sia stata strangolata?».
«Non ne sa più di noi, Valentin».
Strana giornata. L'aria era limpida, leggera, frizzante, eppure c'era come un velo sottile che fluttuava sopra uomini e cose.
«La signora ha chiamato?».
«No, signore».
Salì, senza degnare di uno sguardo il letto sotto il quale c'era tuttora il corpo di Louise. Andò alla finestra proprio nel momento in cui l'automobile grigia del dottore si fermava rasente il marciapiede. La signora Kachoudas, che l'aveva sentita, si precipitava giù per la scala.
Esther stava dando una solenne strigliata al piccolino che piangeva, e continuava a indicargli la camera in fondo, ripetendogli probabilmente di non fare chiasso perché il papà stava male.
La visita fu lunga. Fecero bollire dell'acqua, in cucina, forse per un'iniezione. Mentre il dottore, uscito dalla camera, le parlava, la signora Kachoudas tirava su col naso e si asciugava continuamente gli occhi col fazzoletto.
Sul secrétaire, il cappellaio vide le pagine che aveva scritto la sera prima; le prese, le strappò e si diresse verso il caminetto per bruciarle.
Valentin, che abitava con la madre un po’ fuori città, usava portarsi la colazione in una gamella di ferro; si riscaldava il caffè sulla stufa a gas del negozio e mangiava solo soletto nel retrobottega, per lo più leggendo un giornale sportivo.
Il signor Labbé non si decideva a prepararsi da mangiare. Alla fine, si mise cappello e cappotto e uscì dicendo:
«Sarò di ritorno fra tre quarti d'ora».
Si diresse verso la place du Marché, dove c'erano diverse trattorie. Ne scelse una a cui si accedeva scendendo un gradino e dove serviva ai tavoli una ragazza alta e bruna, col grembiulino bianco, che conosceva tutti i clienti. C'erano, fra gli altri, due o tre impiegati del Comune e delle Poste, il giovane dipendente di uno studio notarile e una matura signorina che lavorava in un'agenzia di viaggi.
Il signor Labbé scelse con cura il tavolo, come se non fosse un cliente occasionale ma contasse di diventare un habitué. Il menu era scritto su una lavagna e i tovaglioli dei clienti più assidui venivano riposti in certe caselle di legno verniciato.
A pensarci bene, era la prima volta in quindici anni che mangiava al ristorante. Il padrone lo guardò un po’ sorpreso e si avvicinò al suo tavolo.
«A che dobbiamo l'onore, signor cappellaio?».
Forse aveva dimenticato il suo nome, ma sapeva che era il cappellaio di rue du Minage.
«É che oggi sono senza domestica».
«Henriette!» chiamò il padrone, girandosi verso la cameriera. E aggiunse:
«Abbiamo scaloppine all'acetosella e, con un piccolo supplemento, lumache di Borgogna».
«Prenderò le lumache».
Che sensazione piacevole! Si sentiva come sospeso, con dentro qualcosa di aereo, di fluttuante. La gente, le voci, gli oggetti, niente gli sembrava del tutto reale.
«Mezzo litro di beaujolais?».
«Perfetto».
«Henriette, una mezza caraffa».
Mangiò bene. Anzi, benissimo. La cucina di Louise era così insipida. Fu quasi tentato di prendere un secondo piatto di lumache, e solo al formaggio si ricordò che anche per Mathilde era l'ora di pranzo.
«Senta un po', Henriette...».
La chiamavano tutti per nome.
«Vorrei portar via qualcosa da mangiare per mia moglie. Non avrebbe un recipiente qualunque?».
«Adesso vedo».
Confabulò un momento col padrone. Questi sparì nella cucina e tornò con due pentoline smaltate che s'incastravano l'una nell'altra ed erano dotate di un manico.
«Potrebbero andar bene?».
Un raggio di sole danzava sul tavolo. Non c'erano tovaglie, o meglio le tovaglie erano di carta gaufré e venivano cambiate a ogni cliente. Quelle già usate, le buttavano nel cesto che stava in un angolo.
«Anche per sua moglie metto delle lumache?».
Perché no? Le avrebbe mangiate lui. Compì il tragitto che lo separava da casa tenendo le pentoline per il manico. Era divertente.
«La signora ha chiamato?».
«No, signore».
Salì, buttò via la scaloppina, il pane, le patate saltate in padella, ma mangiò le lumache senza pensare neanche per un attimo che Louise era sempre là, sotto al letto. Del resto, preferiva non pensarci affatto a lei, per via del lavoro che lo aspettava quella sera.
Nel negozio di Kachoudas, la moglie del sarto, con gesti desolati, stava spiegando la situazione a un cliente che sembrava molto contrariato. Dovevano avergli promesso il vestito per quel giorno e il vestito non era pronto: forse era quello, ancora senza maniche né fodera, posato sul tavolo da lavoro.
Il signor Labbé aveva un po’ sonno, ma non dormì.
Mentre armeggiava intorno ai cappelli dei suoi clienti pensò molto a Kachoudas. Gli mancava. Perché provava nei suoi confronti un sentimento come d'ingiustizia? Un'ingiustizia commessa da lui, Labbé. Gli sarebbe piaciuto andarlo a trovare.
Lo avrebbe rassicurato, confortato - così almeno gli pareva.
Accarezzava anche, confusamente, una certa idea, un'idea che andava sempre più prendendo corpo.
Insomma, Kachoudas aveva diritto al premio di ventimila franchi. Era gravemente ammalato e certo doveva trovarsi in difficoltà. Che cosa ne sarebbe stato dei suoi se fosse morto? La moglie avrebbe dovuto fare la domestica a ore. E il piccolino di quattro anni? E le bambine, che tornavano da scuola alle quattro?
Il signor Labbé aveva del denaro da parte. Poteva, senza minimamente risentirne, ritirare ventimila franchi dalla banca o utilizzare le banconote che teneva nel vecchio portafoglio.
La cosa più difficile era farglieli avere, quei soldi. Ma era proprio impossibile? Se fosse andato da Kachoudas, lo avrebbero probabilmente lasciato solo con lui. Allora, con molta semplicità, gli avrebbe fatto scivolare in mano le banconote.
Ecco la soluzione migliore. Ma ormai era troppo tardi per andare in banca: lo avrebbe fatto la mattina dopo. E fino a quel momento aveva tutto il tempo per riflettere.
In quel mentre, un vecchio camioncino si fermò davanti alla cappelleria. Il guidatore, ancora in tenuta da lavoro (doveva essere un fabbro di paese), restò al volante, e dalla macchina scese un uomo con dei baffi rossi spioventi, lo sguardo acceso, l'aspetto giovanile.
Quando entrò nel negozio, Valentin gli andò incontro.
«Voglio parlare con il padrone».
E al signor Labbé, che si era fatto avanti:
«Sono il padre di Louise».
Doveva aver passato di poco la quarantina. Aveva certo bevuto, a casa o strada facendo, perché il suo alito puzzava di vino.
«E allora, com'è "sta faccenda?... Se n'è andata?».
Dunque, la polizia era già stata a Charron e l'uomo si era fatto portare in città da un vicino.
«É ancora qui la sua roba?».
«Sì, è tutta in camera sua».
«Va bene... Sono venuto a prenderla».
Non si era neanche tolto il berretto, e a un certo punto sputò addirittura per terra - un getto di saliva giallastra, perché masticava tabacco. Sembrava animato in partenza da una vaga ostilità, ma la quiete della casa doveva fargli un po'' soggezione.
«Allora... É qui che passava la settimana? E se n'è andata così, senza dir niente?».
«Senza dir niente», il cappellaio guidando il visitatore verso la scala.
«É vero che aveva un innamorato?».
Poiché la voce dell'uomo stava diventando minacciosa, il signor Labbé si limitò a rispondere:
«Non me ne ha mai parlato, e io non l'ho visto».
«É la sua signora che è invalida?».
«Mia moglie, sì. Anzi, la pregherei di non parlare troppo forte, perché sta dormendo proprio dietro a questa porta».
Tutto filò liscio. L'uomo stipò gli effetti personali di Louise nelle valigie, e il cappellaio gli consegnò la scatola con il coperchio di conchiglie che stava nel cassetto. Il contadino faceva apposta a camminare a passi pesanti. Forse, partendo da Charron, aveva annunciato la sua intenzione di tenere gli occhi bene aperti.
«Crede che sia finita nelle mani dello strangolatore?».
«Non lo so. Non ho sentito niente».
Come per istinto, passando davanti alla porta della camera di Mathilde, l'uomo si mise a camminare in punta di piedi, e fu lì lì per ruzzolare giù dalla scala a chiocciola, una vera e propria trappola per chi non c'era abituato.
«Ad ogni modo, se mai la trovano, non ci conti più su Louise. É l'ultima volta che mando a lavorare in città una delle mie figlie».
Non salutò, si limitò a toccarsi il berretto con un gesto che voleva essere insolente ed era solo goffo; urtò con le valigie contro lo stipite della porta, le caricò sul camioncino e si arrampicò a fianco del guidatore.
Ma i due non tornarono subito a Charron: il camioncino si fermò all'angolo della strada, davanti a un bistrot.
Era arrivato il momento di accendere le luci, di salire da Mathilde per vedere se avesse bisogno di qualcosa, e di abbassare l'avvolgibile. Le bambine della casa di fronte erano tornate da scuola e si sentivano continuamente raccomandare di parlare sottovoce. Una stava facendo i compiti sul tavolo da lavoro del sarto, che era stato in parte sgomberato.
«Sia gentile, Valentin, chiuda lei...».
La casa sarebbe rimasta vuota e questo gli fece uno strano effetto: ebbe un po’ paura come se, in sua assenza, potesse succedere qualcosa. Non c'era più una ragione impellente di rientrare a un'ora precisa. Sarebbe andato a cena nel piccolo ristorante in cui aveva pranzato.
Volendo, avrebbe potuto anche andare al cinema, ma non era prudente.
Del resto, aveva di nuovo voglia di scrivere, ma non sullo stesso tono del giorno prima. Era meno ansioso, adesso, molto più lucido, e quando entrò al Café des Colonnes e l'amico Paul gli lanciò un'occhiata interrogativa, fu quasi tentato di sorridergli.
Non lo fece, naturalmente. Doveva assumere un'espressione di circostanza, perché la notizia si era già diffusa.
Sedette in silenzio, pronto a iniziare la solita partita, e vide subito che Pigeac era al tavolo dei quarantacinquantenni; allora si alzò per andargli a parlare.
«L'hanno trovata?» domandò.
 «Ancora niente».
«Non crede che...».
Pigeac stava giocando a carte e gli rispose distrattamente. Il cappellaio cominciò a sentirsi un po’ meno bene. Non per colpa del commissario, alquanto sostenuto come sempre - lo faceva per posa -, ma perché stava per scoccare l'ora critica.
Cominciava sempre al calar delle tenebre, quando nelle strade si accendevano i lampioni e si udiva sul selciato il rumore dei passi molto prima che un'ombra si profilasse sul marciapiede.
C'era, in rue du Minage, una vetrina poco illuminata, con una luce verdastra, la cui vista gli aveva sempre procurato un segreto malessere. Difficile da spiegare. Come un senso di viscido. Ammesso che tale parola potesse significare qualcosa. In quel negozio si vendevano calzature, e gli sembrava che là dentro la gente non parlasse, che muovesse le labbra senza emettere alcun suono, come fanno i pesci in una boccia di vetro.
Tutta la città, a quell'ora, era così, una scatola su cui improvvisamente ricadeva un coperchio e dentro la quale le persone, non più grandi di formiche, si agitavano a vuoto.
Anche nella luce del Café des Colonnes c'era qualcosa di angosciante. Se si metteva a fissare i cinque globi smerigliati appesi al soffitto, dopo un po’ gli venivano le vertigini.
Era come se il tempo si fosse fermato, come se tutto si fosse fermato. I gesti, le voci, l'acciottolio di tazzine e piattini... tutto questo non significava più niente. Tutto era morto.
Continuava per forza d'inerzia, ma girava a vuoto.
Ecco cosa avrebbe cercato di spiegare quella sera, invece delle frasi contorte che aveva scritto il giorno prima.
Oggi non si sarebbe lasciato suggestionare. Era calmo. Si era ripromesso di mantenere la calma, di stare al gioco fino in fondo, come se fosse tutto vero.
Non lo irritava più, e neppure lo preoccupava, il fatto che Chantreau continuasse a osservarlo di sfuggita da dietro alla sua barba. Perché mai ogni tanto fissava le sue mani? Non tremavano, le sue mani. Erano delle belle mani bianche e lisce, con le dita quadrate e le unghie curate. Gliel'avevano sempre detto che aveva delle belle mani, persino Mathilde, all'inizio.
«L'avrà buttata nel canale» disse Caillé mescolando le carte.
«Lo dragheranno, ma è probabile che la marea l'abbia portata verso il mare».
«Mi stupirebbe» borbottò Chantreau, che non sembrava del solito umore.
«Che cosa ti stupirebbe?».
«Il fatto del canale. Non quadra. Quella gente non cambia mai tecnica. A meno che...».
Tacque. Caillé tornò alla carica:
«A meno che?».
«É difficile da spiegare. A meno che si tratti di un'altra serie, e la cosa non abbia più lo stesso senso».
«Quale senso?».
«Non lo so davvero. A chi tocca?».
Chantreau, mentre parlava, aveva evitato di guardare il cappellaio, e questi arrossì leggermente perché gli sembrò che il dottore sospettasse di lui.
Come mai? Aveva forse commesso un errore e se ne erano accorti?
Possibile che lo psichiatra di Bordeaux avesse ragione?
Jeantet era seduto di nuovo al solito posto, vicino alla vetrata. Scriveva freneticamente, e ogni tanto una ciocca di capelli, che portava lunghi, alla bohémien, gli cadeva sulla faccia.
Dal profumo che d'un tratto impregnò l'aria il signor Labbé capì che era entrata la signorina Berthe: era seduta al solito tavolino evitando di guardare verso di lui.
Ma non aveva niente da temere: lui era assolutamente padrone di sé, non aveva neanche preso la corda di violoncello. Quello che era successo con Louise non contava. L'aveva sempre detestata.
Alla fine, la sua semplice presenza gli era diventata insopportabile, e quanto a ciò che era accaduto dopo, a malapena se ne ricordava.
«Due quadri».
«Così di botto?».
«Sì, due quadri».
«Li contro tutti e due».
Il fatto di andare a mangiar fuori cambiava tutto. Non aveva intenzione di assumere un'altra domestica. Una donna a ore sarebbe bastata, e neanche tutti i giorni, o in quel caso solo per un paio d'ore. Non fosse stato per la gente, avrebbe preferito farne a meno del tutto.
Come gli dava sui nervi, Julien Lambert, con quei suoi sorrisetti d'intesa alla signorina Berthe! Era andato da lei, quel pomeriggio? Probabile, perché sembrava vestito meglio del solito, e doveva esser passato dal barbiere, a giudicare dal lieve effluvio di acqua di Colonia che emanava.
Dopo tre quarti d'ora il cappellaio non aveva ancora vuotato il suo primo bicchiere, e questo lo rassicurava, gli dava fiducia in se stesso.
Ci si erano messi tutti, compresi i giornali, e avevano finito per turbarlo. Ma adesso la situazione era cambiata. Non c'era più ragione di preoccuparsi. Doveva solo mostrarsi prudente, non tanto con gli altri quanto con se stesso.
Ma perché Chantreau continuava a fissarlo con quello sguardo strano mentre lui era del tutto naturale, addirittura disinvolto?
Ci fu poi un incidente ancora più curioso e sconcertante. A un certo punto il dottore si sbagliò e mise giù una carta di fiori invece che una di picche che era atout (e sì che ne aveva in mano due!). Arnould, sempre molto severo verso gli errori degli altri, sbottò stizzito:
«Ma che ti succede? Dove hai la testa?».
Allora, come se lo avessero davvero strappato a un suo segreto fantasticare, Chantreau mormorò:
«Stavo pensando a quel povero diavolo».
Doveva aver bevuto parecchio, quel giorno, perché era in vena di sentimentalismi.
«Quale povero diavolo?».
Chantreau alzò le spalle e grugnì:
«Sapete bene di chi parlo».
«Lo strangolatore?».
«Già».
«E ti fa pena?».
Non rispose, si accigliò, riprese la carta sbagliata e buttò giù la dama di picche.
Per la seconda volta nello stesso giorno, e sempre per colpa del dottore, il signor Labbé si sentì arrossire e, per darsi un contegno, fece cenno a Gabriel di riempirgli il bicchiere.
Mentre si dirigeva verso la porta del caffè, grosso, flaccido e lento, si fermò un attimo davanti all'ultimo tavolino, e dall'alto della sua statura guardò con aria grave il ragazzo che continuava a scrivere e che, vedendo un'ombra sul foglio, alzò la testa. Era lui il principale responsabile delle sue tribolazioni, con quella trovata di andare a intervistare lo psichiatra di Bordeaux, e con quel suo ostinarsi a riproporne quotidianamente la diagnosi per spiegare gli avvenimenti del giorno prima e prevedere quelli del giorno dopo.
Non l'aveva mica fatto apposta. Era un ragazzino. Non era cattivo, e il signor Labbé non ce l'aveva con lui. Forse, di lì a quarant'anni, anche lui si sarebbe seduto al tavolino in mezzo alle colonne, vicino alla stufa...
Non si dissero niente. Non avevano niente da dirsi. Proprio per via di quei quarant'anni di differenza che c'erano fra loro e per nient'altro, forse, o forse per tante altre cose. Il cappellaio emise un leggero sospiro e allungò la mano verso la maniglia della porta. Jeantet alzò le spalle e aggrottò le sopracciglia, cercando di riprendere il filo della frase.
Aveva cominciato il giornalista, ed ecco che adesso ci si metteva anche il suo amico Paul. Lo aveva fatto apposta, a parlare come aveva parlato? Le sue parole - anche se lui stesso sembrava non dare importanza a ciò che diceva - sottintendevano forse un messaggio?
Faceva freddo, ma il signor Labbé quasi non se ne accorgeva.
Nell'aria c'era un po’ più di umidità delle altre sere: lo si vedeva dalle luci, dal riverbero velato dei lampioni.
Quelle due terribili parole di Chantreau lo perseguitavano, gli pesavano addosso come due lastre di pietra di cui non riusciva a liberarsi, e sì che erano parole apparentemente così innocenti:
«Povero diavolo!».
Anche Jeantet era un ragazzo perbene, eppure gli aveva inferto il colpo più micidiale.
Non ce l'aveva né con l'uno né con l'altro. Non ce l'aveva con nessuno. Camminava sul marciapiede di destra della rue du Minage perché non doveva rientrare a casa, visto che andava a cena in place du Marché, nello stesso ristorante in cui aveva mangiato a mezzogiorno.
Ma ecco che vide in lontananza come uno sprazzo luminoso sul marciapiede, e, a mano a mano che vi si avvicinava, sentì crescere dentro di sé l'ansia.
La porta della bottega del sarto era aperta, e ora poteva distinguere, all'esterno, due sagome; continuò a camminare e riconobbe lo spagnolo che aveva il negozio di frutta due case più in là, e quella che doveva essere sua moglie.
Quando fu molto vicino, udì un suono che assomigliava all'ululato di un cane che guaisce alla luna. Si fermò nel tratto illuminato, guardò dentro e vide la signora Kachoudas abbandonata su una sedia al centro della bottega.
Era lei a urlare così, con lo sguardo fisso davanti a sé, mentre la moglie del salumiere le teneva un braccio intorno alle spalle e cercava di calmarla.
Ai piedi della scala, Esther, infagottata in uno scialle perché la bottega non era riscaldata, era scossa da brividi. Non piangeva, non diceva niente. Nel suo sguardo si poteva leggere solo una sorta di terrore animalesco.
Dalle case vicine era uscita altra gente, ed erano ormai in parecchi intorno al signor Labbé, immobili, commossi. Una donna, che il cappellaio non riconobbe, scese giù dalle scale tenendo in braccio, un po’ a fatica, il figlio più piccolo dei Kachoudas.
«Lo porto da me» annunciò.
La gente si scostò per lasciarla passare e lei entrò in una casa poco più in là. E le bambine? Qualcuno si era occupato anche di loro? Chi era rimasto di sopra?
L'urlo della donna era impressionante come la sirena del porto nelle notti di nebbia.
Non doveva esser successo da molto, perché si udì un motore, poi un'automobile si fermò rasente il marciapiede e il dottore attraversò in gran fretta il piccolo assembramento, dette un'occhiata alla signora Kachoudas e tornò indietro per chiudere la porta.
Tutto finito. Kachoudas era morto. Una volta chiusa la porta, la gente si mise a fare i soliti discorsi di circostanza in tono lamentoso, e il cappellaio si allontanò con la sensazione di essere vittima di un'ingiustizia, come poco prima, quando l'amico Paul aveva sussurrato:
«Povero diavolo!».
Gli era passata la fame. Avrebbe potuto rientrare direttamente.
Si girò a guardare la sua casa, l'enorme cilindro rosso che sovrastava la vetrina, la finestra illuminata, al primo piano, con una sagoma immobile che si stagliava contro l'avvolgibile.
In quell'istante sentì che non vi avrebbe più rimesso piede, che forse non l'avrebbe più rivista. Ma non voleva ammetterlo.
Apparentemente, era lo stesso uomo degli altri giorni, lo stesso uomo di quel pomeriggio, al caffè. Non era successo niente che potesse colpirlo personalmente.
Eppure aveva molto da fare, in casa, quella notte. Non lo aveva dimenticato. Ricordava bene l'immondo carico che lo aspettava sotto al letto di Mathilde. Gli toccava scendere in cantina, spostare ancora una volta tutto il carbone, scavare, e poi, soprattutto, portar giù il grosso corpo pesante. Lavare di nuovo i gradini e quasi tutta la casa.
Chantreau non si era spiegato, ma il signor Labbé aveva indovinato il suo pensiero.
«Tò, il signor cappellaio! Scommetto che si è dimenticato di riportare i recipienti... Questa sera abbiamo delle fantastiche salsicce con purè di patate».
Sorrise garbatamente e andò a sedersi al suo posto. La ragazza lo servì. C'era meno gente che a mezzogiorno. La sala era quasi vuota. Lo consideravano già un cliente abituale e prendevano il suo tovagliolo da una delle caselle, come fanno i portieri d'albergo con le chiavi dei clienti.
Aveva scritto al giornale annunciando che dopo la settima tutto sarebbe finito, e affermando, in buonafede, che anche la settima, come le precedenti, era indispensabile. Invece no, per la settima non era così. Era stato un infortunio, un caso. Rientrava in una sfera diversa, in un'altra serie.
Solo che nessuno, tranne lui, poteva saperlo. Ci aveva forse pensato, il commissario Pigeac? Jeantet, comunque, presto o tardi ci avrebbe pensato...
Sarebbe partito dall'idea che la morte di Louise era necessaria all'assassino. Indispensabile, come aveva scritto il cappellaio.
E quali conclusioni ne avrebbe tratto?
Ma poco gli importava, in fondo, di quello che pensavano gli altri. Contava solo quello che pensava lui, Labbé.
A causa di quanto era successo dai Kachoudas non aveva osservato bene la strada. Avrebbe dovuto farlo. Magari Pigeac aveva piazzato un ispettore nelle vicinanze del suo negozio...
Magari qualcuno lo stava pedinando...
Non era affatto improbabile. Intanto che mangiava, cercò di vedere qualcosa al di là dei vetri del piccolo ristorante.
Strano come, improvvisamente, si sentiva stanco. Malinconico, per l'esattezza. Con quell'aria sentimentale che aveva anche Chantreau verso la fine della giornata, quando aveva bevuto troppo.
Pensò alla sua casa e provò una grande amarezza al pensiero che non osava entrarvi, che forse non vi sarebbe entrato mai più.
Perché? Quello che aveva già fatto una volta, poteva ben farlo ancora. Era forse perché Louise gli aveva sempre ispirato un'invincibile ripugnanza? O era per via di Kachoudas?
Aveva voglia di chiedere scusa. Non alla ragazza. Al sarto. Gli dispiaceva di non essere passato in banca, quel pomeriggio. Se avesse avuto le banconote in tasca, le avrebbe messe in una busta e spedite subito alla famiglia. Se invece fosse rientrato a casa, avrebbe mandato il denaro che teneva nel portafoglio, ma non ne era del tutto convinto.
Il padrone del ristorante doveva essere uno senza problemi: senza fantasmi. Stava versando i fondi di varie bottiglie in una bottiglia vuota. Questo fece venire in mente al signor Labbé che avrebbe potuto bere: lo aveva già fatto, e per un po’ l'alcol lo aveva rasserenato.
Ma tutto questo era lontano. Le cose andavano in fretta.
Spaventoso come andavano in fretta.
Chiamò la cameriera, pagò, vide che metteva il suo tovagliolo in una casella, e quel gesto, chissà perché, lo rattristò. Le lasciò una lauta mancia e lei lo ringraziò un po’ stupita.
«Non porta via niente per sua moglie?».
«Stasera non ha fame».
«A domani, signor cappellaio».
«A domani».
In città circolavano delle pattuglie, come le altre sere. Ne incrociò una uscendo dal ristorante, e gli uomini lo salutarono; si girò per salutare a sua volta, perché in quel momento era distratto, e vide che anche loro si erano girati a guardarlo.
Perché? C'era qualcosa di strano nel suo aspetto o nel suo modo di camminare?
Cercò di capire se qualcuno lo seguiva, si diresse verso il municipio con le orecchie tese, ma non colse alcun rumore di passi. Passò davanti al negozio della signora Cujas: a quell'ora era chiuso.
Non sapeva ancora dove stava andando. Si rendeva perfettamente conto che avrebbe potuto incontrare altre pattuglie, che qualcuno, abituato ai suoi orari, si sarebbe stupito di vederlo passeggiare in un'ora in cui avrebbe dovuto trovarsi vicino a Mathilde.
Accettava quel rischio. Più esattamente, non se ne curava.
Aveva ben altri pensieri per la testa. Una cosa, una sola, gli stava a cuore, e quando, una volta sul molo, voltò a sinistra, gli fu finalmente chiaro quello che aveva deciso di fare.
Il dottore abitava in una casetta dalle parti della stazione, al di là del canale. Una casa stretta, né antica né moderna, molto brutta, chiusa fra altre due case più o meno uguali.
Al signor Labbé era già capitato di andare qualche sera dal suo amico Paul per farsi visitare: si era sempre preoccupato molto della propria salute. In un angolo dello studio c'era uno schermo, e ricordava di essersi messo lì a torso nudo, schiacciato contro il pannello gelido, mentre Chantreau spegneva le luci.
«Non c'è niente, vecchio mio. Con questa carcassa vivrai cent'anni».
Dopodiché bevevano un paio di bicchierini, facevano due chiacchiere, e naturalmente Paul non gli permetteva di pagare la visita.
Gli avrebbe raccontato una cosa qualunque, che aveva dei dolori alla pleura, per esempio, il che, da un po’ di giorni, era sostanzialmente vero. O magari avrebbe accennato alle crisi di panico che a volte lo assalivano, ma forse questo era già più rischioso.
Naturalmente, avrebbero finito per parlare degli ultimi avvenimenti e dell'uomo a cui tutti davano la caccia.
«Perché gli hai dato del povero diavolo?».
Ma questo voleva dire giocare col fuoco. Chantreau non era uno stupido. Forse aveva già capito. Ma non avrebbe osato aprir bocca. Sì, il signor Labbé era convinto che l'amico non avrebbe aperto bocca.
Se aveva parlato di un «povero diavolo», era probabile che vedesse nel suo caso una sorta di fatalità, ed era ciò che gli premeva di sapere.
Non era proprio quello che si ricavava dall'intervista realizzata da Jeantet? Non riusciva a liberarsi da quel pensiero.
Nei giorni precedenti, lo aveva sempre accompagnato nei suoi andirivieni come un dolore sordo cui lì per lì non si presta attenzione, ma che di tanto in tanto si fa lancinante.
In quai Duperré, quando il piccolo sarto era ancora vivo e gli stava alle calcagna, aveva improvvisamente capito che forse lo psichiatra di Bordeaux era nel giusto.
Nell'oscurità, un battello da pesca si preparava a salpare: sul ponte si vedevano una grossa lampada ad acetilene, delle ombre in movimento e un gran maneggio di oggetti pesanti. Alle sue spalle, vicino alla Grosse Horloge, c'erano due caffè, dello stesso tipo del Café des Colonnes, con i soliti clienti che si facevano vedere a ore fisse e giocavano a carte, a tric trac o agli scacchi. Solo che non erano gli stessi gruppi: o si apparteneva all'uno o all'altro, e lui faceva parte di quello del Café des Colonnes.
Alla stazione, l'atrio era semibuio, e si udivano gli stantuffi di una locomotiva sotto pressione. Passarono dei taxi. alla luce dei fari qualcuno poteva vederlo e magari riconoscerlo...
Svoltò a sinistra. Poi a destra, nella strada del dottore, una strada abitata da gente modesta. Nella casa d'angolo ci stava un bottaio, e alcune botti di vino, sul marciapiede, ostruivano il passaggio.
Da Chantreau non vide luci accese; chinandosi, guardò dalla serratura e scorse la porta a vetri della cucina, in fondo al corridoio, che invece era illuminata.
Pur consapevole dell'inutilità del suo gesto, suonò. Dietro alla porta, appesa a un filo di ferro, c'era una piccola campanella. Nella casa regnava un tale silenzio che non si poteva non sentirla, e tuttavia nessuno Si mosse.
Erano le otto di sera. Suonò ancora una volta, vide un'ombra profilarsi dietro ai vetri della cucina e capì che si trattava di Eugénie, la vecchia domestica del dottore.
Questi non era rientrato, altrimenti ci sarebbe stata la luce accesa al primo piano o nello studio del pianterreno. Il signor Labbé avrebbe dovuto prevederlo. Poco prima, al Café des Colonnes, quando l'aveva lasciato, Paul aveva già bevuto parecchio. In quei casi, non rientrava per cena. Per un senso di dignità, dopo essere uscito dal caffè della place d'Armes andava in giro per certi piccoli bistrot dove non rischiava d'incontrare qualche amico.
Eugénie era tornata a sedersi. Non veniva ad aprire. Non avrebbe aperto. Anche lei aveva paura. Probabilmente stava tremando. Se lui avesse insistito, sarebbe stata capace di telefonare alla polizia.
In una casa vicina si era aperta una finestra e qualcuno lo stava guardando. Preferì andarsene, e fu uno dei momenti più penosi della sua vita.
Anche Paul lo abbandonava. Per un attimo pensò di correre alla stazione. Era ancora in tempo. Sentiva l'ansimare della locomotiva. Il treno per Parigi sarebbe partito di lì a qualche minuto. Aveva abbastanza denaro con sé per prendere il biglietto.
E dopo? A cosa sarebbe servito?
Kachoudasera morto, ed era forse la sola morte di cui si sentisse colpevole.
Il pensiero di Louise gli ispirava solo disgusto. Il ricordo di Mathilde e delle altre non lo turbava affatto, lo invogliava solo a discutere lucidamente il suo caso per dimostrare che aveva avuto ragione, che si era limitato a fare quel che doveva.
Perché non era andato in banca, o non aveva preso con sé il denaro del portafoglio?
Mentre stava avvicinandosi al canale sentì i passi di una pattuglia e allora, istintivamente, fece dietro front. Si rese subito conto di aver commesso un errore, ma era troppo tardi. Se avesse ripreso la direzione di prima, si sarebbero domandati che diavolo stesse facendo.
Gli uomini della pattuglia affrettarono il passo cercando, senza riuscirci, di raggiungerlo con il fascio di una torcia elettrica. Si buttò in una stradina laterale mettendosi quasi a correre, ma quelli continuavano a inseguirlo, e a un tratto sentì una voce che diceva:
«Dove si sarà cacciato?».
Rimase rannicchiato in un angolo buio. Sapeva che era assurdo, ma non poteva farci niente. Ebbe fortuna. I quattro uomini gli passarono a una ventina di metri senza accorgersi che era nascosto lì, e dieci minuti dopo poté rimettersi in cammino.
Gli erano tutti contro, compreso Jeantet, compreso Paul Chantreau. Avevano fatto della città una sorta di trappola nella quale lui cominciava a dibattersi.
Era molto stanco. La notte prima non aveva quasi dormito, e non poteva certo tornare a casa.
Aveva girato intorno alla rue Saint-Sauveur, e per un attimo pensò di esser seguito.
Chissà se a quell'ora il commissario Pigeac aveva già forzato la porta del suo negozio...
Quelli della polizia sarebbero saliti subito al primo piano, sarebbero entrati nella camera...
Se Chantreau fosse stato in casa, lui avrebbe avuto modo, forse, di ritrovare una certa calma. Bastava poco. E se Kachoudas non fosse morto, sarebbe magari tornato in rue du Minage, malgrado tutto...
Ancora due brutte ore da passare, dopodiché, una volta portata in cantina Louise, tutto sarebbe finito.
Sarebbe bastato che Paul, durante la partita di poco prima, non se ne fosse uscito con quel «povero diavolo!». Quella parola non sottintendeva forse che la cosa non si sarebbe mai conclusa?
Non ce l'aveva, no, con nessuno di loro, né con Kachoudas, né con il dottore, né con il commissario, che si era mostrato gentile ma freddo, e neanche con Louise.
É vero che lo facevano soffrire. Lo braccavano come una bestia.
Non gli lasciavano neanche un letto per riposare.
C'era da giurare che avevano messo di guardia un poliziotto nei pressi di casa sua.
Se avessero capito, si sarebbero forse comportati in modo diverso. Ma come potevano capire? Lui non li aveva certo aiutati: si era spiegato così male in quelle lettere.
Che cosa avrebbero pensato se fosse andato a chiedere una camera in albergo?
Ormai, ogni passo che faceva in città lo metteva in pericolo, perché non era là dove avrebbe dovuto essere, perché tutti sapevano che, in condizioni normali, il suo posto era al capezzale di Mathilde.
Ma poteva proclamare di fronte a tutti che non c'era più nessuna Mathilde, e che lui aveva il diritto, finalmente, di vivere come gli altri?
Anche di andare al cinema! Ce n'era giusto uno non lontano dal punto in cui si trovava. Ne vedeva le luci, i manifesti, ne percepiva il respiro caldo. Da quanto tempo non andava al cinema!
L'idea di avvicinarsi alla gabbiola vetrata e di porgere i soldi lo metteva un po’ in imbarazzo: conosceva il padrone, che frequentava il Café des Colonnes, e che probabilmente non stava lontano dalla cassa.
Era davvero molto stanco. Gli sarebbe piaciuto fare un bagno, coricarsi in un letto dalle lenzuola fresche di bucato. Gli sarebbe piaciuto che qualcuno, una donna dolce e gentile, gli stesse vicino, gli parlasse con affetto.
Improvvisamente pensò alla signorina Berthe, gli parve di respirare il suo profumo. Aveva già pensato a lei, nei giorni precedenti. Ma in che modo esattamente ci avesse pensato, questo non lo ricordava... Non era stato in dubbio se portare o no con sé la corda di violoncello?
Se Paul aveva ragione, se lo psichiatra aveva ragione, era inutile lottare. Ma non voleva ammetterlo, e fece dietro front riprendendo a camminare lungo la banchina.
Stava giocando la sua ultima carta, ne era consapevole. Erano quasi le nove, e Chantreau doveva essere sbronzo. Forse lo avrebbe trovato a casa... Anche da ubriaco, sarebbe stato per lui la salvezza. Non sapeva bene cosa gli avrebbe detto. Ma non aveva importanza. Per evitare le pattuglie, fece dei lunghi giri. Una guardia municipale, ferma nell'ombra all'angolo di una strada, lo seguì un attimo con lo sguardo. Forse lo aveva riconosciuto.
Non c'era luce al primo piano. Si chinò di nuovo a guardare dalla serratura, di nuovo vide la porta della cucina, suonò.
Aspettò un momento, poi se ne andò, e il suo passo era malfermo come quello di un ubriaco. 
«Pronto! Berthe?».
Parlava sottovoce, coprendo il microfono con la mano. La cabina era molto stretta e lui poteva vedere, di là dal vetro, gli avventori appoggiati al bancone. Era un piccolo bar in fondo alla banchina, non lontano dal mercato del pesce frequentato quasi esclusivamente da pescatori, dove non ricordava di aver mai messo piede. Al mattino, quando le donne del mercato ci andavano a bere il caffè, negli angoli si ammucchiavano grandi ceste di crostacei, e rivoletti d'acqua colavano sulle mattonelle rosso scuro del pavimento.
«Chi parla?».
«Léon».
Li chiamava tutti per nome. E non per eccesso di confidenza, anzi, per una sorta di rispetto e, comunque, di discrezione. Mai, in nessun momento, si permetteva di dar loro del tu.
- «Mi dica...».
Si vergognava un po'. Gli tremava la voce. Balbettò:
«Vorrei passare un momento da lei».
«A quest'ora?».
Immaginava il tepore della stanza, le sete, i ninnoli, le tende di tulle, la sigaretta dal bocchino dorato che lei certo stava fumando.
«Ho tanta voglia di vederla!».
Un accenno di risata, poi lei sussurrò:
«É impossibile, caro, mi dispiace. Sono già a letto e sto leggendo un romanzo fantastico».
«Per favore...».
«Ma cosa le salta in mente, così all'improvviso?».
«Non lo so. Lo faccia per me».
Capì che stava esitando. Non aveva paura, lei, come la domestica del dottore.
«La credevo al capezzale di sua moglie, a quest'ora».
«Mia moglie sta dormendo».
«E lei è scappato fuori come un collegiale? Da dove mi telefona?».
«Da un caffè».
«Così tutti sapranno che mi ha chiamata».
«No, no. Sono in una cabina e parlo sottovoce».
Cominciava a spazientirsi. Sarebbe arrivato persino a supplicarla in ginocchio. Si aggrappava a quel telefono come, poco prima, si sarebbe aggrappato al dottore.
«Le prometto di non fermarmi troppo a lungo».
Quello che voleva, però, era passare tutta la notte da lei. Un desiderio che lo aveva assalito all'improvviso quando aveva pensato a lei, al suo appartamento, al grande letto con la testiera imbottita nel quale non gli era mai capitato di dormire veramente.
«Senta, Berthe...».
«No, no, amico mio. Lei è una persona adorabile, e io le voglio bene...».
Era vero, gli aveva sempre dimostrato una certa predilezione, forse perché lui era pieno di riguardi, si comportava gentilmente, le portava dei fiori o dei piccoli regali.
«... Ma lei conosce i miei vicini: sanno benissimo che di sera non ricevo mai nessuno».
«Per una volta!».
«E poi sono stanca. Sapesse come sto bene qui, tutta sola nel mio letto, con un libro così appassionante!».
Scherzava, col solito garbo.
«Berthe!».
«Su, su, torni a casa da bravo e venga a trovarmi domani pomeriggio».
Neanche lei capiva, come gli altri. Ma non ce l'aveva con lei, come non ce l'aveva con gli altri. Era terribile. Lei non immaginava certo quanto il suo rifiuto fosse terribile.
«La supplico!».
«Le confesserò una cosa, e sono sicura che questo le farà cambiare idea. Mi sono già preparata per la notte e sono orribile, senza trucco, con la faccia unta di crema e i bigodini in testa. Ecco! Adesso penso che mi lascerà perdere».
«Verrò ugualmente».
«E io non aprirò».
«Sì».
«No».
«Forzerò la porta».
«Non faccia il cattivo, mio piccolo cappellaio».
Forse aveva sbagliato a usare quella parola. Eppure lo aveva fatto senza ironia, senza un briciolo di cattiveria. In bocca sua, suonava piuttosto come un vezzeggiativo.
«Arrivo!».
Riattaccò sull'ennesimo «no!» di lei e, uscendo dalla cabina, si diresse verso il bancone seguito dagli sguardi indifferenti dei pescatori.
Doveva bere qualcosa, perché non si entra in un bar per telefonare senza prendere niente. C'erano due file di bottiglie; le guardò con aria esitante. Su un'etichetta campeggiava la testa di un negro. Era rum. Lo beveva di rado, e solo sotto forma di grog, quando era raffreddato.
«Un rum».
«Bicchiere grande?».
Perché tacevano tutti? Sembrava che quella gente, pur non essendo al corrente dei fatti, capisse la solennità del momento.
Sarebbero stati dei testimoni. Come gli uomini della pattuglia.
Come Eugénie, la domestica del dottore, e poi lo sconosciuto, o la sconosciuta, che sentendolo suonare con insistenza aveva aperto una finestra nella casa vicina.
Alla tal ora faceva questo... Alla tal altra girava l'angolo di quella strada... Alla tal altra ancora, sentendo dei passi, scappava e si rintanava nell'ombra...
Avrebbero ricostruito i suoi movimenti. Non era difficile. Un genere di lavoro che Pigeac sapeva fare bene.
C'era stato un momento in cui aveva abbandonato la partita e si era dichiarato sconfitto, in piena coscienza. Ma quando era successo? Forse quando era uscito dal piccolo ristorante? O quando vi era entrato? O quando, invece di tornare a casa, mentre la signora Kachoudas lanciava le sue lugubri urla, aveva continuato a camminare verso place du Marché?
O magari il giorno prima? O quello ancora precedente, quando, con il piccolo sarto alle calcagna, aspettava ansioso che Madre Sainte-Ursule uscisse dalla porta del Vescovado?
Non aveva importanza. Avrebbe potuto andare per l'ultima volta a vedere se per caso Chantreau non fosse tornato a casa, ma era troppo lontano, e avrebbe incontrato altre pattuglie. E che cosa sarebbe andato a dirgli, ormai?
La signorina Berthe lo aspettava. Avrebbe finito per aprirgli la porta, ne era certo.
Il rum era molto forte. Si vergognava di bere. Gli sembrava che il padrone e i pescatori seguissero con attenzione ogni suo movimento.
I clienti abituali non si limitavano certo a un solo bicchiere, giacché il padrone teneva ancora in mano la bottiglia e non aspettava che un cenno per versargliene un altro.
E lui lo fece, quel cenno, non perché avesse ancora voglia di bere ma per rispetto umano.
Chantreau avrebbe potuto benissimo capitarci, in quel bar.
Bazzicava posti come quello, di sera. Il cappellaio se lo augurava. Avrebbe provato un gran sollievo nel veder entrare da quella porta il suo amico Paul.
«Quanto le devo?».
Pagò lasciando una mancia, ma il padrone lo richiamò, e questo lo mise in imbarazzo. Si era dimenticato che in quel tipo di bar non si danno mance.
«Buonanotte!» gli gridò qualcuno.
Senza ironia. Ed eccolo fuori, al buio. La luna non si era ancora alzata. Nel bacino si sentivano cigolare le pulegge, benché non ci fosse vento, per via della marea che sollevava i battelli.
Possedeva delle quote di uno di quei battelli, la Belle Hélène.
Forse era quello di cui vedeva gli alberi stagliarsi neri contro il grigio scuro del cielo...
Qualcuno gli passò accanto, lo guardò, si voltò. Un uomo che non conosceva.
Un altro testimone.
Passò sotto la volta della torre; al primo piano c'era la luce accesa: era la finestra del guardiano, una finestrella a forma di feritoia. Ci doveva essere anche un vaso di gerani. Lo aveva sempre visto, a quella finestra.
Di fronte alle Dames de France, in rue du Palais, c'era un poliziotto. Avrebbe dovuto passargli davanti. Perché no?
Il poliziotto lo conosceva. Appartenevano alla stessa associazione di ex combattenti. Lo salutò:
«Buonasera, signor Labbé».
Non lo sapeva che avrebbe dovuto trovarsi al capezzale di Mathilde? Lo sapevano tutti. Se ne sarebbe ricordato di lì a poco, il poliziotto, e allora si sarebbe domandato che cosa fosse successo al cappellaio.
Attraversava la città lasciando tracce del suo passaggio come Pollicino con i suoi ciottoli, e ne provava un'amara soddisfazione.
Dall'angolo di rue Gargoulleau si vedevano le luci del Café des Colonnes. A quell'ora Oscar, il padrone cominciava a farfugliare, aveva gli occhi vitrei e il passo malfermo. In sala non restava che l'ultimo sparuto gruppo di clienti abituali. Di lì a poco ci sarebbe stata l'uscita dal cinema, con il solito scalpiccio, come alla fine di una messa solenne, e una schiera di sagome scure, la gente che si abbottonava il cappotto mentre aspettava gli amici, e le donne aggrappate al braccio del marito, i motori delle automobili che si avviavano e i fari che si accendevano.
Avrebbe ancora potuto incontrarlo, Chantreau. O anche Julien Lambert, o chiunque altro. Sarebbe stato un sollievo perfino veder spuntare dall'ombra il commissario Pigeac, che pure non gli piaceva per niente. Non aveva la minima idea di quel che avrebbe fatto, ma sentiva che a quel punto tutto sarebbe davvero finito.
Se Kachoudas non si fosse ammalato, se non fosse morto, avrebbe continuato a seguirlo, e lui avrebbe dovuto semplicemente aspettarlo, parlargli.
Ormai era in un vicolo cieco, e le sue probabilità di salvezza diminuivano sempre di più, si facevano quasi inesistenti. Sarebbe bastato che la signorina Berthe se ne restasse a letto e lo lasciasse suonare invano!
Invece sarebbe scesa, ne era certo. Non subito. E sarebbe stata di cattivo umore, sulle prime.
Il portone era aperto. Lo chiudevano intorno alle undici.
C'era la luce accesa, dal dentista, e si sentiva la musica di un grammofono o di una radio al secondo piano, in casa dell'archivista, che era scapolo e invitava spesso giovanotti e ragazze.
Allungò il braccio. Perché alla signorina Berthe non era venuto in mente di scendere, dopo la sua telefonata, a disinserire la suoneria, come faceva quasi sempre nel pomeriggio?
Non ci aveva pensato. Il campanello trillò. Lei lo lasciò suonare tre volte, poi lui sentì un fruscio sulle scale, una voce di là dalla porta:
«Chi è?».
«Léon».
«Sia gentile, Léon. Stasera no, non insista».
«La supplico, mi apra».
Lei girò la chiave nella serratura, e con quel gesto segnò la propria sorte. Socchiuse appena la porta. Aveva una cuffia di pizzo sui bigodini, una vestaglia imbottita di satin rosa.
«Non è carino, stasera. Non ha mai fatto così».
Lui spinse la porta, lentamente, irresistibilmente, e intanto continuava a sentire la musica che proveniva dal secondo piano dell'edificio in fondo. Lassù ballavano: si sentiva un martellar di piedi sul pavimento.
«Ha bevuto?».
«Giusto un bicchiere di rum».
Non era preoccupata; solo stupita. E, come lui aveva previsto, il suo cattivo umore non sembrava destinato a durare. Era piuttosto un gioco. Finse di tenergli il broncio. Il libro stava aperto sul comodino, illuminato da una lampada il cui paralume era costituito dall'ampia gonna di una bambola vestita all'antica.
Gli invitati dell'archivista ballarono fino all'una di notte.
Andandosene, fecero molto rumore in cortile e, dopo alcuni tentativi infruttuosi, riuscirono a svegliare il portinaio per farsi aprire il portone. E intanto continuavano a ridere. Le ragazze, in particolare, facevano delle risatine stridule.
Alle sette e mezzo, come al solito, Geneviève, la cameriera della signorina Berthe, che abitava con i genitori a Fétilly, arrivò pedalando e lasciò la bicicletta in un angolo del cortile, dove c'era un'apposita rastrelliera.
Aveva una chiave dell'appartamento. Salì le scale e andò subito in cucina. Di solito entrava in camera solo alle nove, con la colazione, e apriva le tende.
Quella mattina le parve di sentire un rumore strano. Alle otto e mezzo, preoccupata, senza una ragione precisa, socchiuse la porta e vide un uomo sul letto.
Stava dormendo. La signorina Berthe giaceva distesa di traverso, sullo scendiletto.
A Geneviève non venne neppure in mente di avvicinarsi o di telefonare. Uscì di corsa, si precipitò giù per le scale, dette l'allarme al portinaio, alla gente che passava per strada e andava a lavorare. Nessuno osò salire prima dell'arrivo di una guardia municipale, e tutti, da giù, fissavano la finestra in silenzio.
La guardia stessa esitò un attimo sulla soglia della camera e tirò fuori la rivoltella dalla fondina. Era molto giovane, con la faccia tutta segnata dall'acne. Faceva parte della locale squadra di calcio. Alle sue spalle, gli uomini si facevano minacciosi e le donne li aizzavano. Frattanto il signor Labbé si era messo a sedere sul bordo del letto passandosi una mano sulla faccia e ravviandosi i capelli.
A un certo momento, spaventato da tutta quella gente, balbettò:
«Non picchiatemi».
Ed ebbe la presenza di spirito di aggiungere, indicando l'apparecchio laccato di bianco:
«Telefonate al commissario».
Impossibile capire ciò che pensava, ciò che provava. Guardò lo scendiletto con un'espressione malinconica sul volto.
Le cose sarebbero forse andate diversamente se Pigeac, che stava andando in ufficio, non fosse passato proprio per la place d'Armes, dove vide della gente esagitata correre nel sole. 
Gabriel aveva appena aperto il Café des Colonnes.
Il commissario si fece largo con freddezza tra la folla eccitata che si accalcava sulle scale. Davanti alla porta, la guardia si scostò per lasciarlo passare.
Pigeac guardò il signor Labbé, che era ancora seduto sul bordo del letto completamente vestito, con le scarpe, la cravatta non annodata, la giacca spiegazzata.
I due uomini si fissarono e il signor Labbé fece uno sforzo per alzarsi, aprì la bocca e infine mormorò:
«Sono stato io».
Quelli che stavano sul pianerottolo e poterono udirlo sostennero che aveva pronunciato quelle parole quasi con sollievo, e che, mentre tendeva i polsi verso le manette del commissario, un timido sorriso gli aveva rasserenato il volto.
Più tardi, sulle scale, quando finalmente riuscirono ad aprirsi un varco tra la folla, aggiunse:
«Non spingetemi. Non picchiatemi. Vengo...».
Tumacacori (Arizona), 13 dicembre 1948.

(Le frasi sottolineate sono le ultime frasi di ogni pagina)

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